venerdì 9 dicembre 2011

Seymour Hersh


Il 16 marzo 1968 una compagnia di soldati americani irruppe nel villaggio sudvietnamita di My Lai e massacrò centinaia di persone inermi, in gran parte donne e bambini. Per ironia del destino o per una fatale coincidenza la compagnia Charlie, guidata dal capitano Medina e dal tenente Calley, portava lo stesso nome che gli americani davano ai vietcong. Sarà un lapsus, ma è stato anche il momento in cui andò persa la connotazione del nemico e, con quella, tutta la guerra. La notizia della strage rimarrà vaga e nascosta per oltre un anno fino a quando uno dei soldati, tormentato dal rimorso non cominciò a scriverne. Si chiamava Ronald Ridenhour e la lettera che spediva ai suoi rappresentanti nell’esercito e nelle istituzioni era, parole sue, “una profonda riflessione su me stesso, su ogni singolo americano e sugli ideali che dovremmo rappresentare. Era un terribile sfregio inferto all’immagine dell’America”. A sua volta Herbert Carter, un soldato che si sparò in un piede piuttosto di partecipare al massacro, disse: “La gente non sapeva perché moriva e noi non sapevamo perché li uccidevamo”. Di colpo l’America diventava una nazione di reduci disturbati dallo stress post traumatico. L’avvocato di un altro soldato, cercando di difenderlo, disse: “Quella guerra è solo una serie di massacri quotidiani, uno dopo l’altro, e non posso concepire l’idea che dei soldati semplici siano ritenuti responsabili di azioni che l’esercito degli Stati Uniti li obbliga a fare quando si trovano in Vietnam”. Solo il tenente Calley scontò la sua pena (agli arresti domiciliari), nessuno dei suoi superiori venne indagato, e così va la storia. La ricostruzione di Seymour Hersh è metodica, precisa, matematica: non mette insieme frammenti di notizie, voci, comunicati ufficiali, propaganda e altre fonti cercando di dargli una forma, un senso compiuto. Il suo lavoro è più accurato: ritorna con metodo, costante e continuo, sulle notizie, le verifica usando fonti diverse e distanti ed evita sempre la tentazione di collegarle in funzione di una tesi o di una prospettiva. Anche quando diventa evidente che si tratta di un massacro di vecchi, donne e bambini del tutto innocenti, il suo punto di vista non è di condanna (che è sacrosanto, e implicito): è aderente ai fatti e abbracciato, incollato alla ricerca della verità. Seymour Hersh tira fuori la notizia come uno scultore con la statua da un blocco di marmo. E’ un lavoro che procede per esclusione: concentrico, meticoloso, certosino è sempre teso a raffinare, passaggio dopo passaggio, le parti più grezze della storia, le note false, le dichiarazioni di circostanza, le acrobazie linguistiche e lessicali dei comunicati e delle versioni ufficiali. Una cernita immane perché Seymour Hersh deve affrontare prima la terminologia della burocrazia militare (che già è un ostacolo sufficiente a scoraggiare chiunque), poi il contraddittorio e strumentale uso della parola degli uomini politici e infine la complessità delle forme del vocabolario giudiziario. Seymour Hersh gestisce tutte queste impossibili lingue con grande destrezza e delinea quanto di più credibile possa produrre un giornalismo sensibile alla formazione dell’opinione pubblica, che non teme il potere e le sue congenite deformazioni. 

2 commenti:

  1. Seymour Hersh Il 16 marzo 1978 una compagnia di soldati americani irruppe nel villaggio sudvietnamita di My Lai e massacrò centinaia di persone inermi, in gran parte

    ERA IL 1968, NON 1978

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  2. E' vero, nel 1978 la guerra era finita. Ho corretto, grazie della segnalazione.

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