sabato 31 dicembre 2011

Hubert Selby Jr.

Disturbati, malati, combattuti, diseredati, disperati i personaggi di Canto della neve silenziosa non sentono e non vedono più niente, anzi “il nulla e basta”. Folli, jazzisti, animali notturni, un tiro di dadi, la fugacità di incontri che non si trasformano in legami perché non ne hanno il tempo e di rapporti che si consumano perché ne hanno avuto troppo. Tutti soffrono “la buia notte dell’anima” e sono invischiati nella fitta rete di New York: i racconti di Canto della neve silenziosa sono i cantos di Hubert Selby Jr. ed è quell’umanità a formare la linea della sua scrittura, come se fosse una sorta di anfitrione dei bassifondi, un geografo delle backstreets. Come il protagonista di Pubertà, “qualcosa dentro di lui esigeva che la strada, gli edifici, la gente fossero diversi, e invece erano gli stessi, solo che lui non vi s’identificava più. Le impronte, le tracce che lui aveva lasciato in quelle strade tutte le migliaia di volte che l’aveva percorse erano scomparse, non gli sembravano più strade eppure lui continuava a percorrerle cercando evidentemente qualcosa senza avere la minima idea di cosa potesse essere, senza essere neppure sicuro se andava cercando qualcosa oppure in realtà cercava solo di fuggire”. E’ naturale e insieme logico che tragga ispirazione dalla metropolitana perché c’è movimento, linguaggio, volti, azione e lo stesso vale per lo spazio magico del cinema. Entrambi i luoghi, ricorrenti nel Canto della neve silenziosa portano nella direzione ostinata di Hubert Selby Jr., nell’oscurità e verso il basso dove scava e recupera la materia prima da plasmare “e poi, quando mi metto a scrivere, cerco e trovo la parola perfetta che descriverà perfettamente qualsiasi cosa io senta, veda o ascolti. Dunque, è un genere di cosa con forti caratteristiche visive. Voglio dire che vedo tutto molto chiaramente”. Se il linguaggio è sempre aspro, gergale, sanguinante, sono le immagini, “immagini che aiutano a passare i giorni” la vera risposta di Huberty Selby Jr. perché vuole portare il lettore più a vedere, che a leggere, a vivere un’esperienza sensoriale che lo porterà fuori dalla pagina bianca, piuttosto che dentro. Sembra un paradosso, ma è proprio così: funziona in tutti i racconti, diventa evidente in Canto della neve silenziosa, l’ultimo capitolo che offre anche il titolo alla raccolta. Alla fine la “neve silenziosa” è la sola, piccola consolazione che prende forma, a tempo ormai scaduto, quando Harry, l’alter ego metropolitano di Hubert Selby Jr. per un istante sembra intuire un senso della vita: “Si rese conto che sorrideva nell’ascoltare le loro voci e ch’era invaso dal calore della felicità. Non era la gioia di qualche attimo prima ma una felicità che non provava da quelli che sembravano moltissimi anni, anche se qualcosa gli diceva che si trattava poi solo di mesi; una felicità che aveva vissuto a lungo, una felicità che credeva finita per sempre”. E’ l’istantanea di un momento: l’eco della città è muto, il dono migliore è il silenzio di una pagina bianca.

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