martedì 27 dicembre 2011

Gustav Hasford

Quello di Nato per uccidere è uno di quei casi fortunati in cui la riduzione cinematografica ha saputo leggere con precisione e fedeltà lo spirito originario della storia. Il merito va senza dubbio a Stanley Kubrick (e a Michael Herr) che nel trasformare Nato per uccidere in Full Metal Jacket ha accentuato la divisione e insieme il collegamento tra i due tempi, un passagio in cui diventa evidente che la deformazione del linguaggio prelude alla rarefazione dell’umanità. Nella prima parte di Nato per uccidere la violenza è compressa nella sintassi sgranata, nel continuo battibecco di volgarità. E’ quasi espressionista, con quel gergo militare che contagia e corrompe tutte le comunicazioni, deforma le parole, traccia un confine preciso verso un altro mondo con una lingua monca, gutturale, crudele. A Parris Island, il campo di addestramento dove tutto comincia, non serve molto altro perché “i marines muoiono, siamo qui per questo” e l’identità omicida e suicida comincia proprio da lì, da un linguaggio che è una forma estrema di esclusione ed emarginazione. Per questo Nato per uccidere non ha alcuna bellezza stilistica, almeno secondo i canoni e le consuetudini normali: la sua forma è un patois gorgogliante che la sua massima espressione in frasi che sono pugni sferrati nell’aria. “Il Vietnam mi può ammazzare, ma non può appassionarmi. Non me ne fregherà mai niente. Voglio solo tornarmene a casa tutto d’un pezzo. E’ il minimo che devo a me stesso” dice uno dei protagonisti di Nato per uccidere, la cui forza è tutto in quello che vede e mostra. Nella seconda metà, è un’esplosione di ferocia incisa a tratti vividi e spietati nell’elencare le mutilazioni, le viscere, le esplosioni, i corpi che è “impossibile determinare a quale esercito appartenessero”. E’ con un distacco quasi impressionista che Gustav Hasford descrive i macelli quotidiani, ovvero dove le aberrazioni linguistiche trovano un’applicazione pratica. I marines la usano per affrontare i duri giorni del Tet nel 1968 e così raccontano come hanno affrontato una delle più dure battaglie di quei giorni: “Con saggezza salomonica, abbiamo fatto di Hué un ammasso di macerie, al fine di salvarla”, paradosso che tornerà con una certa frequenza nelle guerre americane da lì in poi. La disperazione non serve soltanto a giustificare qualcosa che non si può giustificare. E’ anche un modo per accorgersi in quale valle di tenebre si è trasformato il Vietnam, un posto dove le parole diventano persino imbarazzanti perché rivolte in una direzione impossibile, come confessa Joker: “Parlare ai morti non è sensato e a un vivo gli conviene non prenderci il vizio. Ma ultimamente a me capita spesso di parlare ai morti. Mi sa che ci parlo, coi morti, fin da quando compii la mia prima uccisione accertata. Confirmed kill è il termine che usiamo. Ebbene, dopo la mia prima uccisione accertata, parlare ai cadaveri ha cominciato a essere più logico, per me, che non parlare con chi non è ancora stato fatto secco”. “Nowhere to run, nowhere to go”: nessuno tornerà più a casa.

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