sabato 19 novembre 2011

Charles Bukowski

“Scrittore cerca abitazione dove il rumore della macchina da scrivere sia più gradito delle risate registrate di I Love Lucy. Massimo 100 dollari mensili. Indispensabile la tranquillità: c’è tutto Charles Bukowski nell’annuncio messo in epigrafe a Hai letto Pirandello?, uno dei primi racconti della tumultuosa Musica per organi caldi. E’ il 1983 e per il buon vecchio Hank stanno cominciando gli anni delle vendemmie, dopo un’infinità di tempo trascorso a giocare con il suo personaggio da cui, per fortuna, non si libererà mai. La simbiosi in Musica per organi caldi è portata alle estreme conseguenze e Bukowski ci tiene a farlo notare in Fatto finito chiuso: “Sono contento di essere un idiota. Sono contento di non sapere niente. Sono contento di non essere ancora morto. Quando mi guardo le mani e vedo che sono ancora attaccate ai polsi, mi dico che sono fortunato”. Poche aspettative, ritmi blandi, sane abitudini che valgono anche come consigli per i giovani scrittori, gli unici che servono davvero: “Bere, scopare e fumare un mucchio di sigarette”. Non si può chiedere di più perché “la vita è una lotta impari” e Bukowski, a dispetto del suo personaggio, più di qualsiasi altra cosa ha bisogno di pestare sulla sua macchina da scrivere per sentirsi vivo. Frutto di quell’istinto primordiale, in Musica per organi caldi, salvo qualche estemporanea eccezione, non ci sono storie di ordinaria follia, ma racconti di una straordinaria normalità, vissuta per scelta in modo marginale. Sia nei contorni autobiografici, sia attraverso lo sguardo del narratore la Musica per organi caldi si sviluppa tra mura domestiche consunte dall’abitudine, dalla noia, dalla fatica, da tutto. Oppure in squallide camere di motel dove si consumano esistenze, legami, intere giornate. Il dettaglio più insignificante diventa parte della storia, anzi diventa la storia stessa. In La morte del padre, prima e seconda parte, questo lasciare andare liberi e felici i semplici particolari del racconto si trasforma in una galleria grottesca e sorprendente. “Avevano cominciato a entrare anche i passanti, e non si davano neanche la briga di presentarsi” racconta Charles Bukowski cercando di rendere l’idea di un funerale trasformato in uno strambo bazar. In Musica per organi caldi succede spesso e volentieri perché il senso del dettaglio, della scena, dei fondali, dei piccoli e insignificanti tic e dei tratti delle persone è il sangue che ci scorre dentro. Per quei volti, per quella brace che brucia da sola in cima alle sigarette, per le “party girls” e i “broken poets” come li avrebbe chiamati poi Elliott Murphy vale la definizione che Bukowski ha lasciato galleggiare in fondo a Meno fragile della locusta: “Erano ubriachi, ma c’era in loro una certa grandezza, un non so che di speciale”. Per riuscire a vederla non ci sono tante alternative: o sei uno di loro, o sei uno di loro, e a chi cominciava a occupare la sua soglia per celebrarlo, Bukowski rispondeva già: “Non sono grande, sono diverso”. L’avevamo capito. 

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