mercoledì 30 novembre 2011

Sherwood Anderson

Oggi come oggi bastano le parole del protagonista di Madre per capire la portata dei racconti di Winesburg, Ohio. In quattro righe, forse meno, Sherwood Anderson condensa tutta un’identità, una voce e una prospettiva: “Un giorno, diceva a se stesso, il vento della politica soffierà in mio favore, e gli anni di fedeltà disinteressata contano molto per l’assegnazione delle ricompense”. Il volto può figurarselo il lettore, e c’è solo l’imbarazzo della scelta per i lineamenti così come non mancano altri argomenti perché come scrive in Il libro delle caricature: “in principio, quando il mondo era giovane, c’erano molti pensieri ma non esisteva nulla di simile a una verità. Le verità le fabbricò l’uomo, e ogni verità fu composta da un grande numero di pensieri imprecisi”. Il fallimento di quest’ordine, la sua stessa natura è la radice geografica (e non solo) di Winesburg, Ohio. “Si chiedeva l’operaio Sherwood Anderson: qual è mai il significato di quest’enorme nazione che è fatta dei rifiuti di tutte le nazioni; che vive, che suda, che bestemmia e si rinnova continuamente; che non ha bellezza, non ha memorie, non ha nulla, se non un’avidità smisurata di vita e di fortuna e che nelle sue espressioni sinora più alte non ha saputo che scimmiottare i gesti stracchi dell’Europa, e riverniciarsi di tutti i lustri più falsi dell’Europa”: la definizione è stagionata, visto che arriva da La letteratura americana di Cesare Pavese, però contiene alcuni elementi molto interessanti e utili alla riscoperta di Winesburg, Ohio o almeno ad avere un punto di riferimento. Di meglio può fare solo lo stesso Sherwood Anderson che disse a William Faulkner: “Devi avere un luogo da cui cominciare: dopo puoi imparare. Non importa dove si trova questo luogo, basta che tu lo ricordi e non te ne vergogni. Perché un posto da cui cominciare è importante quanto qualunque altro”. Sherwood Anderson scrive “semplicemente con il potere della sua stessa convinzione” ed è quella che una smalltown è nello stesso tempo un microcosmo rappresentativo dell’intera umanità e una particella di quell’America costituita da una miriade di città puntiformi, tutte uguali e tutte diverse, come era e com’è ancora Winesburg, Ohio. Da lì ci si può muovere alla ricerca del tempo perduto verso Spoon River, lungo i confini di una prateria più profonda che piatta, sulla Route 66 e sull’Highway 61 in quell’eterno movimento che è l’immobilità dell’artista. Non ci sono alternative e cercarle è una perdita di tempo o meglio, come dice in Madre: “Non ci provo neppure. Non serve. Non so cosa farò. Voglio soltanto andarmene, vedere gente e pensare”. E’ proprio l’ultima fase di questo proposito l’anima di Winesburg, Ohio: il personaggio, la maschera, il carattere è superato per sempre perché Sherwood Anderson costruisce una galleria di volti che sono la storia. Una progressione per cui la trama o l’ambiente diventano relativi perché, come ha detto Charles Bukowski “Anderson è stato il piú bravo a giocare con le parole come fossero pietre, o pezzi di roba da mangiare” e le ha rese libere e indispensabili. Un classico, nel senso più ampio e compiuto possibile.

Langston Hughes

Mondo senza fine è la cronaca di Langston Hughes di quella “prova generale per la seconda guerra mondiale” che fu la guerra civile spagnola. L’America riversò sul fronte iberico l’élite dei fotografi e dei reporter intuendo forse che la dimensione del conflitto era già internazionale senza però comprenderne fino in fondo la natura, l’essenza e gli inevitabili sviluppi. La sua percezione della guerra civile è immediata e netta: “Non ci volle più di un rapido sguardo da parte mia per verificare che era stata devastante, una sorta di anticipo di ciò che successe in seguito ad altre città più grandi e più famose d’Europa durante la seconda guerra mondiale, della quale alcuni fra i giornalisti presenti a Madrid predissero che la Spagna non fosse altro che un preludio”. Le sue osservazioni, i suoi appunti sono ricchi di ammirazione per il coraggio degli spagnoli, per la vita che cercano di tenere insieme nelle città assediate e martoriate dai bombardamenti ed è scevra da quella caccia all’adrenalina fine a se stessa di molti reporter e a cui non era estraneo lo stesso Hemingway. Nella Madrid assediata dalle truppe fasciste di Franco, Langston Hughes prova per la prima volta le lumache al vapore, a colazione, innaffiandole con un boccale di birra, tutto quello che si può trovare in una città di un milione di abitante servita da una strada sola. Usa i dischi di Duke Ellington, Benny Goodman e Jimmy Lunceford per non sentire il suono delle bombe che esplodono e riesce a spiegare la svolta storica prossiva ventura che la guerra civile spagnola stava anticipando solo raccontando un piccolo dialogo tra un gentiluomo che raccogliendo una scheggia di granata stava dicendo a moglie e a figlia: “Questa piccola cosa, questo oggetto inanimato, non può fare nient’altro che ucciderci. E’ la filosofia che sta dietro a questo piccolo frammento, cara, che è pericolosa”. La differenza, rispetto a molti suoi colleghi, Hemingway per primo, è che la sua attenzione all’evoluzione della guerra civile è legata anche alle dinamiche relative ai popoli africani e afroamericani, “a tutti i popoli del mondo”, alle aperture del governo repubblicano e alle implicazioni coloniali (anche per via dell’intervento italiano, che segue quello in Etiopia). In Spagna, Langston Hughes trova gli africani radunati a combattere tra le truppe fasciste di Franco e gli afroamericani nelle brigate internazionali, coinvolti in una guerra le cui dimensioni vanno ben oltre tutte le loro possibili motivazioni. Nel Mondo senza fine, con una generosità sterminata e un entusiasmo impagabile, Langston Hughes riesce a cogliere una nota squillante, tra i fischi dei proiettili e la cacofonia delle ideologie: “Prima di allora coloro che più rappresentavano i neri in Europa erano musicisti di gruppi jazz, concertisti, ballerini, o altri artisti. Ma questi neri giunti in Spagna erano combattenti, combattenti volontari. La storia aveva voltato”. Con un testimone speciale: Langston Hughes, più un bluesman che uno scrittore. 

Henry Miller

Censurato, bandito, attaccato Tropico del Cancro è stato un caso umano più che letterario. L’americano che a Parigi sembrava godersela tra una libagione e l’altra e le peripezie erotiche, in patria aveva bisogno delle difese di Saul Bellow, John Dos Passos, Norman Mailer Bernard Malamud e William Styron, tanto da fargli dire, non senza amarezza: “L’America è meglio tenerla così, sempre sullo sfondo, una specie di cartolina postale a cui guardare nei momenti di debolezza. Così, tu t’immagini che sia sempre lì ad attenderti, immutata, intatta, un grande spazio aperto patriottico con vacche, pecore e uomini dal cuore buono, pronti a fottersi tutto quello che vedono, uomo donna o bestia. Non esiste l’America. E’ un nome che si dà a un’idea astratta”. Laggiù, dopo un’infinità di bootleg che lo aiutarono comunque a essere letto e apprezzato, Tropico del Cancro verrà accettato soltanto nel 1964 per quello che è: un romanzo coraggioso e spregiudicato e un momento fondamentale della letteratura occidentale del ventesimo secolo. A distanza di tutti questi anni il linguaggio scandaloso e le provocazioni pornografiche appaiono senz’altro coloriti, ma niente di più. Pericoloso e spiazzante è il salto di qualità, qualcosa che incide in modo indelebile nel modo di raccontare e di scrivere che Henry Miller riassume così nel cuore del Tropico del Cancro: “Una sola cosa mi interessa, ora, e ha per me un’importanza vitale: registrare tutto quello che nei libri è omesso. Nessuno, che io sappia, ha usato finora quegli elementi che sono nell’aria, e che danno scopo e motivo alla nostra vita. Soltanto gli assassini paiono trarre dalla vita una soddisfacente contropartita per ciò che vi mettono di loro. Il secolo vuole violenza, ma abbiamo soltanto esplosione mancate. Le rivoluzioni muoiono sul nascere, oppure riescono troppo in fretta. La passione si estingue subito. Gli uomini ripiegano sulle idee, comme d’habitude. Nessuna proposta che possa durare più di ventiquatt’ore. Viviamo un milione di vite nello spazio d’una generazione”. La svolta non è edulcorata, non si piega alle mediazioni, non concede spazio ai dubbi perché come scriveva George Orwell “gli orizzonti democratici sono finiti nel filo spinato”, eppure i luoghi comuni, il buon senso, le forme linguistiche benpensanti sono sempre lì, immobili e ipocrite. Invece dal suo esilio bohémienne Henry Miller va fino in fondo alla sua ricerca, alla sua arte, come aveva capito George Orwell: “L’uomo comune di Miller non è né l’operaio di stabilimento nè il piccolo borghese con una casetta di sua proprietà nei sobborghi, ma il derelitto, il déclassé, l’avventuriero, l’intellettuale americano senza radici e senza quattrini. Tuttavia le esperienze anche di questo tipo umano si confondono piuttosto estesamente con quelle di gente più normale. Miller è stato in grado di trarre il massimo profitto dal suo materiale piuttosto limitato perché ha avuto il coraggio di identificarsi con esso”. Questo faceva, e fa, paura: le idee, il sesso, la libertà di riconoscersi negli esseri umani. Imprescindibile.

martedì 29 novembre 2011

Cornell Woolrich

Per quanto di natura composita e variegata, o forse proprio per quello, Questa notte, da qualche parte, a New York, sembra l'oggetto adatto per entrare nel mondo di Cornell Woolrich. Personaggio con cui è facile cadere nella tentazione di circoscriverlo negli stretti contorni della narrativa di genere, ovvero noir, gli viene qui dedicato il giusto rispetto dovuto ai grandi. Il libro contiene il crepuscolo della sua vita e della sua scrittura: una manciata di racconti, cinque spezzoni dell’ultimo romanzo, rimasto incompiuto, un paio di capitoli dell'autobiografia Blues of a Lifetime per cui vale il commento di uno dei suoi personaggi: “La vita era bella come sempre, bella com’era sempre stata, per me e per coloro che passeggiavano in strada con me. L’unica differenza era che avevi bisogno di soldi più di quanto ne avessi avuto prima, perché ora di soldi ne giravano molti meno. Ma non ce n'era uno, in tutta quella folla di passeggiatori senza meta, che avrebbe barattato la vita con qualsiasi altra cosa”. Una raccolta dal chiaro intento celebrativo e propedeutico, ma che, proprio per l’essenza della scrittura di Cornell Woolrich, si lascia ben presto alle spalle il formato antologico e si scopre per quello che è in realtà: un piccolo, grande e sconosciuto gioiello. Questo anche perché narrazione e autobiografia quasi non si distinguono e anche Questa notte, da qualche parte, a New York, così come in ogni angolo del mondo c’è qualcuno destinato a rimanere affascinato dal mondo di ombre, libri, donne e birre di Cornell Woolrich. Dove la vita metropolitana ha un ruolo sempre dominante come si può comprendere scorrendo, per esempio, E’ uscito il tuo numero: “E all’improvviso, come in un sogno, la strada fuori da quel l’albergo fu di nuovo deserta, deserta com’era stata all’inizio della sera. L’automobile non c’era più. Era partita silenziosa mente com’era arrivata. Un fantasma nella notte. Ma c’era stata. Aveva portato tre persone e ne aveva riportate via cinque. Questa, almeno, non era un’illusione. Il viaggio era cominciato. Le insegne dei teatri e dei night club sembravano sollevarsi verso il cielo ad angolazioni folli, probabilmente perché la maggior parte di esse erano sistemate in diagonale sui tetti. Follow Thru, Whoopee, Show Boat, El Fay Club, Club Richman, Texas Guinan’s. Dava alla città l’impressione di reggersi sulle orecchie. L’automobile scivolò silenziosa tra file di case di mattoni rossi (ognuna delle quali ospitava un night club al pianoterra) fino all’Undicesima, dove ancora non c’erano semafori. L’unico traffico era rappresentato dai rari furgoni del latte o dai camion, dal momento che la via non era collegata da nessuna autostrada e giungeva al termine alla Settantaduesima senza nemmeno una rampa a identificarla”. Poche frasi e la storia ha già tutto, mentre serve sfogliare tutto il resto di Questa notte, da qualche parte, a New York per conoscere il travaglio di frammenti, racconti e vite vissute da Cornell Woolrich. Anche perché la sua complessa personalità non ha nulla da invidiare a quella drammatica dei suoi personaggi.

lunedì 28 novembre 2011

Steve Erickson

Il viaggio nel tempo di Arc d’X comincia agli albori del mondo moderno, con l’esportazione della rivoluzione americana, e attraversa due secoli di storia. La forma geometrica dettata dal titolo è la stessa del romanzo: i punti che collegano Arc d’X sono incisi tra il 1789 e il 1989 e sono uniti da un segmento europeo, un asse geografico e politico, che va Parigi da a Berlino e viceversa. E’ una visione della storia attraverso la lente della narrativa, dell’invenzione che permette di scavare nella memoria e di identificare quei frammenti, quelle scansioni, quegli elementi che si perdono negli anni e nell’oblìo perché come ha detto Steve Erickson “è solo alla luce della memoria che i fatti storici acquistano significato; all’ombra dell’amnesia restano insignificanti”. Arc d’X non è però un romanzo storico, anzi è proprio l’opposto perché la realtà storica è filtrata attraverso quella del romanzo: Thomas Jefferson e Sally Hemings, il padre fondatore dell’America e la schiava che diventerà sua moglie viaggiano attraverso un arco di tempo di duecento anni. Prima, a Parigi, Thomas Jefferson ha modo di celebrare la sua creatura: “Ho inventato qualcosa. E’ stata la migliore, la più selvaggia e la più elusiva delle mie invenzioni, l’embrione di un’idea che avevo in mente. E’ un aggeggio che è mezzo impazzito per via dell’amore per la giustizia, una macchina oliata dalla fiera e tenace ostilità di colore che pensano di poter cavalcare una razza umana come se fosse uno stupido animale. L’ho lasciata libera di turbinare per il mondo. Sfreccia per i villaggi, i paesi, i piccoli centri e le grandi città. Tutti quelli che ne sentano anche solo parlare, si dovranno confrontare in ogni momento di ogni giorno con questa invenzione; e metterà maggiormente alla prova proprio quelli che sono troppo disinvoltamente arroganti per crederci. Ma io so che è imperfetta, come so che il difetto di questa mia invenzione sono io. Proprio come l’inchiostro bianco dei miei lombi ha acceso l’ispirazione che ha porta alla luce questa cosa, così l’ordine della sua estinzione è stato scarabocchiato con quello stesso inchiostro. La firma è mia. Ho scritto il nome di questa invenzione. L’ho chiamata America”. Poi è a Berlino, ormai sul lato discendente di Arc d’X, che si compie il destino. Emancipata anche dalla matematica, Sally Hemings diventa un simbolo dell’amore e della libertà in una metropoli che somiglia non poco alla Los Angeles di Blade Runner, forse un implicito omaggio di Steve Erickson a Philip K. Dick. Se c’è un modello di riferimento in questo straordinario romanzo è però nella percezione caotica di Henry Miller delle storie, quando diceva: “Tutto ciò che facciamo, tutto ciò che pensiamo esiste già, e noi siamo solo intermediari, ecco tutto, che pescano quel che c’è già nell’aria”. Ha qualcosa di profetico, questa definizione, che Steve Erickson ha messo in pratica in Arc d’X, un capolavoro di coraggio che, come ha detto Thomas Pynchon, non teme di raccontare “il lato notturno della realtà”.

domenica 27 novembre 2011

James Ellroy

L’intreccio è un folle e maleodorante caleidoscopio dove nessuno è innocente e tutti sono impigliati in una rete a maglie fittissime di connessioni e legami e sotterfugi che formano l’aria irrespirabile che porta inevitabilmente a Tijuana. Attrici e politici, trafficanti e poliziotti, giornalisti e truffatori: il magma di Tijuana, Mon Amour mette in scena una California oscura e corrotta, con un’anima tanto avida quando cupa e distorta. Il prologo non consente esitazioni, visto che ci sono quattro morti in tre pagine scarse: un omicidio e tre sentenze capitali sono il giusto avvio di una storia sordida che prende il largo da un presunto caso di corruzione discografica in cui pare sia coinvolto niente meno che Frank Sinatra. La cantante si chiama Linda Lansing e nell’inverno del 1955 spopola con una canzone dal titolo enigmatico, Baby, It’s Cold Outside. L’insistente (a dir poco) programmazione sulla KMPC porta qualche solerte poliziotto a fare le giuste domande a Flash Flood (un nome, un programma), primo indiziato di usare la radio in modo non proprio pulito. Le sue risposte sono lapidarie: “Che vi devo dire? La canzone è ok e Linda Lansing è ok. Nessuno mi ha pagato per dirlo. E’ veramente ok tutta la notorietà che sto ottenendo, gli indici di ascolto della mia trasmissione crescono alla grande; quello che non è per niente ok è come mi tratta la polizia. Certo, è ok sentire che ci sono grossi nomi coinvolti in questa faccenda”. Il tono è sempre questo e James Ellroy, calandosi con decisione in Danny Getchell ovvero il protagonista di Tijuana, Mon Amour, punta dritto verso il fondo, senza ipocrisie politically correct e anzi con un’irreverenza cinica e brutale quando dice che “la libertà di parola dovrebbe essere sempre al servizio della verità, e la verità è il mio mandato morale”. Magari Hush-Hush, il giornale che dirige Danny Getchell, non è proprio esemplare in quanto a coerenza e correttezza: ama pescare nel torbido e comunque se il lavoro non gli manca mai, non è colpa sua. Fedele allo spirito dei giornali d’assalto dell’epoca, e aggiungendoci un pizzico di ulteriore acidità tutta sua, James Ellroy colpisce le frasi con l’accetta, senza pietà per i personaggi, per la storia, per il lettore: un ritmo incalzante, spregiudicato, irriverente e martellante che mette nello stesso vortice Frank Sinatra (nell’occhio del ciclone), Aldous Huxley, Sammy Davis Jr., Martin Luther King, Marylin Monroe, Rock Hudson, Ava Gardner in un tourbillon frenetico e feroce. Svelare qualche dettaglio di questa discesa agli inferi è relativo. La sostanza, per dirla con Danny Getchell, è semplice: “Avevo costruito un cazzo di colossale casino e fatto ammazzare un poliziotto. Mi ero mandato a morte con le mie mani, e magari molto di più”. La colonna sonora ideale, obbligatoria e a dispetto di Frank Sinatra, è Tijuana Moods di Charlie Mingus, più o meno contemporaneo ai fatti raccontati da James Ellroy (è stato registrato nel 1957 a New York) e altrettanto convulso, caotico e intenso. Un’ottima associazione (a delinquere).

mercoledì 23 novembre 2011

Stephen King

Stephen King sorprende sempre quando affronta temi con riconducibili nell’immediato a un genere ben definito, magari l’ambito horror per cui è conosciuto ai più. Forse perché, come scriveva in un passaggio fondamentale per Il corpo e di conseguenza per Stagioni diverse, “le cose più importanti sono le più difficili da dire. Sono quelle di cui ci si vergogna, poiché le parole le immiseriscono, le parole rimpiccioliscono cose che finché erano nella vostra testa sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori. Ma è più che questo, vero? Le cose più importanti giacciono troppo vicine al punto dov’è sepolto il vostro cuore segreto, come segnali lasciati per ritrovare un tesoro che i vostri nemici sarebbero felicissimi di portare via. E potreste fare rivelazioni che vi costano per poi scoprire che la gente vi guarda strano, senza capire affatto quello che avete detto, senza capire perché vi sembrava tanto importante da piangere quasi mentre lo dicevate. Questa è la cosa peggiore, secondo me. Quando il segreto rimane chiuso dentro non per mancanza di uno che lo racconti ma per mancanza di un orecchio che sappia ascoltare”. E’ una distinzione nitida perché l’ascolto ha una funzione privilegiata nei racconti di Stagioni diverse, proprio a partire da Il corpo, forse meglio noto nella versione cinematografica di Stand By Me, dove le canzoni riescono a dare un senso a quell’ultima estate, all’età, al momento storico, a quella sensazione per cui, parola di Stephen King, “il tempo slittava”. E’ una magia sfuggente perché da una parte ha un tocco e un tatto particolari nel raccontare l’infanzia e soprattutto la sua evoluzione, prevalente nei racconti di Stagioni diverse e dall’altra ha una leggerezza e una fragranza pop e popolare, proprio perché composte da quelle sostanze: il fumetto, il cinema, il rock’n’roll, il baseball. L’uso dei cliché pop e popolari di Stephen King è sempre un modello di riferimento e in Stagioni diverse in particolare, sembrano marcare il territorio e il tempo in cui si muovono i personaggi con una precisione millimetrica. Basta pensare ai manifesti che cambiano nella cella di Andy Dufresne in Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank, a sua volta diventato Le ali della libertà. Sulle notevoli fortune cinematografiche dei racconti di Stagioni diverse serve una riflessione supplementareforse perché sono racconti nati a occhi chiusi, come raccontava Stephen King, con un’incredibile predisposizione per le immagini, per la costruzione delle scene che rimangono impresse in modo indelebile e persino con l’inserto di una storia dentro la storia, come succede in Il corpo. Se hanno funzionato è perché, Stephen King l’ha detto con chiarezza, “se esiste un’andatura nella scrittura, e se la gente mi legge perché trova una storia con una certa andatura, è perché sente che voglio arrivare dove sto arrivando”. La metà è sempre laggiù, dove c’è qualcosa di importante: solo “una frattura in uno specchio”, che è una bella immagine per capire come sentire una storia.

lunedì 21 novembre 2011

William Faulkner

Nelle pagine di Privacy il sogno americano è scavato fino alle sue radici e riportato alla luce nella sua vera essenza, troppe volte dimenticata in favore di una versione più prosaica e senza dubbio più funzionale alle economie e ai mercati. Tenendo ben presente che, come scriveva Archibald McLeish “l’America non è né una terra né un popolo, è la forma di una parola”, William Faulkner scrive con una visione che va oltre i suoi tempi, verso una dimensione profetica, che comincia dalla decadenza dell’american dream, ovvero da quando “sostituimmo alla libertà la licenza”. Erano infinite le prospettive che lasciava intravedere il “nuovo mondo” americano: non soltanto territori e avventure e risorse a perdita d’occhio, ma l’inedita possibilità di seguire “l’aspirazione dell’uomo nel verso senso della parola aspirazione”. Con grave amarezza ed estrema lucidità William Faulkner ricorda che la storia non è andata così e “ciò che udiamo adesso è una cacofonia di terrore e mediazione e compromesso che semplicemente balbetta dei suoni: le parole vacue e altisonanti che abbiamo evirato da ogni significato, libertà, democrazia, patriottismo, e con le quali, infine risvegliatici, tentiamo disperatamente di nascondere a noi stessi quella perdita”. La prosa è inarrivabile e l’analisi del fallimento è nitida, profonda, chirurgica perché Privacy racconta come “quella lunga linea pulita, netta, semplice, costante, diritta, incontestabile, risplendente, da una parte della quale il nero è nero mentre dall’altra il bianco è bianco, è adesso diventata una mera angolazione, un punto di vista che non ha niente a che fare con la verità e nemmeno con i fatti, ma dipende unicamente da dove ci si trova quando li si osserva”. C’è qualcosa di straordinario in questa appassionata e accorata dissertazione, quasi un’arringa senza soluzione di continuità che spinge William Faulkner a proclamare: “Il cielo americano che una volta era l’empireo dei diritti civili, l’aria americana che una volta era il respiro vivente della libertà, sono adesso divenuti un’unica grande cappa di piombo il cui scopo è quello di abolire gli uni e l’altra, distruggendo l’individualità dell’uomo in quanto uomo grazie (a sua volta) alla distruzione delle ultime vestigia di quella privacy senza la quale l’uomo non può essere un individuo”. Il sogno americano, a dispetto dell’iconografia dei luoghi comuni e delle revisioni storiche, non era quello del self made man o della ricerca della felicità a tutti costi, anche perché, come scrive William Faulkner non era “semplicemente un’idea, ma una condizione”. La differenza è determinante perché presuppone un margine di sicurezza tra gli individui e le istituzioni, tra la libertà e il potere. Di più perché all’origine, l’american dream doveva essere “una condizione nella quale l’uomo non soltanto non sarebbe mai stato re, ma neanche avrebbe mai voluto esserlo”. Questo concetto l’avrebbe cantato anche Bruce Springsteen, ma, con il grido di dolore di William Faulkner, le terre americane erano già diventate Badlands

John O'Brien

Una corsa a senso unico verso la morte, inseguendo le sirene dell’autodistruzione da Los Angeles a Las Vegas: un viaggio al termine della notte risoluto, convinto, inarrestabile, un suicidio lento, calcolato, minuzioso che procede per inerzia a colpi di alcol. Sempre più pesante, sempre più duro, illuminato dalle luci di parodie di città costruite nel deserto, ideale e plastico contrappunto della disperazione umana. A Los Angeles “le strade chiamate way corrono perpendicolari a quelle chiamate drive, ma questo dipende da dove finiscono gli angoli retti. Se Wilshire è considerata l’asse delle x, allora a Beverly Hills non è che ci siano poi molte verticali e orizzontali. Se Santa Monica è una x, ecco che non si riesce a distinguere nord da sud. Le strade sono belle, sì, ma non così belle, tutto sommato. La città gode di una fama esagerata”. A Las Vegas ogni porzione di visuale è un luogo diverso e tutti sono uguali: insegne che brillano senza sosta, camere d’albergo che si riempiono e si svuotano in continuazione, notte e giorno, giorno e notte, non c’è distinzione. E’ il capolinea a cui giunge Ben, il protagonista di Via da Las Vegas, con il suo unico proposito di farla finita, nel solo modo che conosce, ovvero bevendo fino a uccidersi. Essendo l’alcol uno dei fattori che l’hanno portato alla dissoluzione la spirale non ha via d’uscita: come dice Ben “forse ammazzarmi è un modo per bere”, e i titoli di coda sono scritti molto prima della fine, con un inchiostro trasparente chiamato tequila. L’unica increspatura al percorso verso la polvere è l’apparizione di Sera in quel rimasuglio sporco e disordinato di vita che rimane a Ben. Sera appartiene a quella categoria per cui gli uomini “possono investire cento dollari nell’affittare per trenta minuti un corpo femminile, e percepiscono questo investimento esattamente per quello che è: un affare di natura commerciale, non un trattato di filosofia”. Una puttana a Las Vegas non fa notizia e la stessa Sera ne è cosciente perché “come un esperimento inficiato alla radice dall’eliminazione di una variabile, la sua situazione richiede un giudizio. Ma lei non riesce a formularne; in realtà, non è convinta che sia davvero importante”. E’ nell’incontro con Ben, che John O’Brien riesce a rendere vivido e miracoloso, che si forma una fragile, provvisoria identità tra due disperati di natura opposta eppure convergente. Per Sera, che vive quella vita lì, “il suicidio, anche uno di quelli goffamente rappresentati negli sceneggiati del pomeriggio, ha l’effetto di irritarla, di farla sentire estranea a una specie che può produrre opzioni del genere”, e il suo improbabile legame con Ben è l’unica, rara scintilla di verità in una triste prigionia di false opportunità. Per Ben, Sera è la sola nota squillante che sente ormai troppo tardi perché “in realtà il dolore è crudele solo quanto il tempo che ci si spende sopra”. Parole che spiegano esordio e insieme addio di John O’Brien: due settimane dopo aver firmato per trasformarlo in film spegnerà le luci, come Ben, e senza avere una Sera accanto. 

sabato 19 novembre 2011

Charles Bukowski

“Scrittore cerca abitazione dove il rumore della macchina da scrivere sia più gradito delle risate registrate di I Love Lucy. Massimo 100 dollari mensili. Indispensabile la tranquillità: c’è tutto Charles Bukowski nell’annuncio messo in epigrafe a Hai letto Pirandello?, uno dei primi racconti della tumultuosa Musica per organi caldi. E’ il 1983 e per il buon vecchio Hank stanno cominciando gli anni delle vendemmie, dopo un’infinità di tempo trascorso a giocare con il suo personaggio da cui, per fortuna, non si libererà mai. La simbiosi in Musica per organi caldi è portata alle estreme conseguenze e Bukowski ci tiene a farlo notare in Fatto finito chiuso: “Sono contento di essere un idiota. Sono contento di non sapere niente. Sono contento di non essere ancora morto. Quando mi guardo le mani e vedo che sono ancora attaccate ai polsi, mi dico che sono fortunato”. Poche aspettative, ritmi blandi, sane abitudini che valgono anche come consigli per i giovani scrittori, gli unici che servono davvero: “Bere, scopare e fumare un mucchio di sigarette”. Non si può chiedere di più perché “la vita è una lotta impari” e Bukowski, a dispetto del suo personaggio, più di qualsiasi altra cosa ha bisogno di pestare sulla sua macchina da scrivere per sentirsi vivo. Frutto di quell’istinto primordiale, in Musica per organi caldi, salvo qualche estemporanea eccezione, non ci sono storie di ordinaria follia, ma racconti di una straordinaria normalità, vissuta per scelta in modo marginale. Sia nei contorni autobiografici, sia attraverso lo sguardo del narratore la Musica per organi caldi si sviluppa tra mura domestiche consunte dall’abitudine, dalla noia, dalla fatica, da tutto. Oppure in squallide camere di motel dove si consumano esistenze, legami, intere giornate. Il dettaglio più insignificante diventa parte della storia, anzi diventa la storia stessa. In La morte del padre, prima e seconda parte, questo lasciare andare liberi e felici i semplici particolari del racconto si trasforma in una galleria grottesca e sorprendente. “Avevano cominciato a entrare anche i passanti, e non si davano neanche la briga di presentarsi” racconta Charles Bukowski cercando di rendere l’idea di un funerale trasformato in uno strambo bazar. In Musica per organi caldi succede spesso e volentieri perché il senso del dettaglio, della scena, dei fondali, dei piccoli e insignificanti tic e dei tratti delle persone è il sangue che ci scorre dentro. Per quei volti, per quella brace che brucia da sola in cima alle sigarette, per le “party girls” e i “broken poets” come li avrebbe chiamati poi Elliott Murphy vale la definizione che Bukowski ha lasciato galleggiare in fondo a Meno fragile della locusta: “Erano ubriachi, ma c’era in loro una certa grandezza, un non so che di speciale”. Per riuscire a vederla non ci sono tante alternative: o sei uno di loro, o sei uno di loro, e a chi cominciava a occupare la sua soglia per celebrarlo, Bukowski rispondeva già: “Non sono grande, sono diverso”. L’avevamo capito. 

venerdì 18 novembre 2011

Richard Brautigan

C. Card è uno dei private eye più insoliti nella storia del noir. La sua Babilonia è un luogo della mente in cui si rifugia a più riprese, mentre i suoi clienti attendono invano notizie delle missioni che gli hanno affidato. C. Card non ha tempo da perdere perché è troppo occupato a perdersi nei suoi voli pindarici, che in un modo o nell’altro puntano sempre con costanza alla fantastica idea di Babilonia. Persino oltre perché C. Card non consuma giorno dopo giorno soltanto Sognando Babilonia. Per quanto inconcludenti, le sue velleità di scrittore tendono all’assoluto, come spiega nel bel mezzo di Sognando Babilonia: “Ogni tanto mi piaceva giocare con la forma delle avventure a Babilonia. Potevano esser fatte come libri e mi figuravo nella mente quello che leggevo; più spesso però erano film, anche se una volta immaginai uno spettacolo teatrale, con me nella parte di un Amleto babilonese e Nana-dirat a recitare sia Gertrude che Ofelia. Lasciai lo spettacolo a metà del secondo atto. Un giorno bisogna che ci ritorni e lo riprenda da dove ho lasciato. Avrà un finale diverso da quello di Shakespeare. Il mio Amleto sarà a lieto fine”. Come Pesca alla trota in America, anche Sognando Babilonia si nutre della reiterazione di una visione che, paragrafo dopo paragrafo, prende tutta la forma e il ritmo di un ritornello che si moltiplica in una soffice nebbia tra ironia e nonsense. Ipnotico e surreale, con Sognando Babilonia, Richard Brautigan intraprende un trip psichedelico che attraversa forme e dimensioni, sempre teso verso una geografia onirica a cui non è estraneo nemmeno il suo bizzarro alter ego californiano, C. Card: “Mentre leggevo il romanzo paragrafo dopo paragrafo, pagina dopo pagina, traducevo nella mente le parole in immagini, da guardare e mandare avanti veloce come un sogno”. Il gioco di rimandi tra autore, protagonisti e le visioni che condividono è caleidoscopico e amaro nello stesso tempo perché alla fine Sognando Babilonia sembra attorcigliarsi in una spirale che ha il sapore dell’inevitabile: tutti e due (Richard Brautigan e C. Card) a disagio nella realtà e comunque imprigionati in un’identità evanescente, forse fin troppo generosa nell’evitare di essere circoscritta dai confini di una definizione. Diceva Richard Brautigan in Zucchero di cocomero: “Suppongo che sei un po’ curioso di sapere chi sono, ma sono uno di quelli  che non hanno un nome regolare. Il mio nome dipende da te. Chiamami semplicemente quello che stai pensando. Se pensi a qualcosa che successe molto tempo. Qualcuno ti fece una domanda e tu non sapesti la riposta. Quello è il mio nome. Forse stava piovendo molto forte. Quello è il mio nome”. Buona fortuna, dice C. Card mentre sta Sognando Babilonia all’infinito e insegue la sua fantastica Nana-dirat, bellissima proprio perché inafferrabile, meravigliosa perché creatura di una mente che inseguiva la libertà come se fosse un’avventura e custodiva quel miraggio in un mondo magari bizzarro e irrilevante ma molto, molto più gentile di quello cosiddetto normale.

mercoledì 16 novembre 2011

Francis Scott Fitzgerald

Il decennio perduto è come un cristallo grezzo in cui si riflettono, deformandosi, gli “ultimi fuochi” autobiografici di F. S. Fitzgerald. Giunto ormai al capolinea, sono proprio i suoi, quei dieci anni che si sgretolano nel crepuscolo, per F. S. Fitzgerald “sono sempre le tre del mattino, un giorno dopo l’altro”: l’ispirazione gli scivola tra le mani, ormai inafferrabile; i rimpianti per i tempi brillanti, ruggenti e sensazionali sono ombre che lo circondano; il dolore per il talento e le risorse dissipati si attorcigliano all’abuso dell’alcol (suo) e alla malattia (di Zelda). Dato che “non esistono secondi atti nella vita degli americani” F. S. Fitzgerald si aggrappa ancora alla scrittura, non solo nel disperato tentativo di dare una logica ai suoi incredibili bilanci economici, ma anche “cercando di separare il reale dall’irreale, o almeno di non perdere la testa”. Un romanzo era al di là delle sue possibilità (per quanto pubblicato postumo Gli ultimi fuochi rimarrà incompleto) e l’unica alternativa concreta saranno quelle short stories raccolte da Il decennio perduto. Già il triangolo scaleno di Pazza domenica mette in scena un personaggio, Joel Coles, che sembra un doppelgänger dello stesso F. S. Fitzgerald. Invitato da Miles Calman, “l’unico regista nei teatri di posa a non lavorare sotto un supervisore e a dover rispondere solamente ai propri finanziatori”, a un party domenicale nella sua dimora di Beverly Hills, Joel Coles pensa sia la sua grande occasione, o meglio “un tributo che gli veniva fatto in quanto giovane ricco di promesse”. Invece, una volta al cospetto di Stella Walker, ovvero la moglie di Miles Calman, si ritrova invischiato in una terribile diatriba, dagli angusti risvolti psicologici, che sta dilaniando la coppia. La situazione è ritratta in modo impeccabile da una frase esemplare di F. S. Fitzgerald: “Nulla era impossibile, tutto era solo all’inizio. Si versò nuovamente da bere”. L’alcol è un velato protagonista anche in Finanziando Finnegan, forse un ironico autoritratto in cui uno scrittore spreca tutti i conti dei suoi agenti e dei suoi editori, ed è, in tutta evidenza, l’elemento portante di Un caso di alcolismo, un racconto che maturato nel corso di un ricovero di F. S. Fitzgerald. E’ uno degli ultimi tentativi di ispirarsi alla realtà, come dirà lo stesso scrittore: “Ero stato profondamente scosso dalla paura, dall’apprensione, dalla preoccupazione, dall’impazienza; ogni senso era acuito, e questo è il modo migliore di raccogliere spunti per un racconto”. Il decennio perduto è questo e come Cole Porter “tornò negli Stati Uniti nel 1928 perché ritenne che ci fossero nuovi ritmi in circolazione”, anche F. S. Fitzgerald provò a recuperare il tempo perso, anche se sapeva che sarebbe stato impossibile, perché come scriveva in un lettera prima poco di andarsene “quel poco che ho combinato, l’ho fatto al prezzo del lavoro più difficile e faticoso, e vorrei, adesso, non essermi mai fermato o guardato indietro”. Resterà bello e dannato, per sempre.

mercoledì 9 novembre 2011

H. D. Thoreau

Dopo aver camminato lungo e fiumi e prima di ritirarsi a Walden, H. D. Thoreau colse l’occasione per esprimersi contro l’ennesima guerra americana (quella contro il Messico che tracimerà in orrori inauditi) per scrivere le pagine memorabili e fondamentali considerando i suoi lettori “prima di tutto uomini, e poi cittadini”. La distinzione iniziale e principale è la linea che traccia Disobbedienza civile perché “in nome dell’ordine e del governo civile, siamo tutti costretti, alla fine, a sostenere la nostra stessa meschinità e a renderle omaggio”. H. D. Thoreau pone le basi per una riflessione sempre pertinente e ancora attuale sulla distanza tra il governo e la realtà. Le sue osservazioni non partono da una visione anarcoide, piuttosto da una diversa percezione dei desideri e delle necessità che confluirà nel pensiero di Walden proprio a partire dalla Disobbedienza civile in cui dice: “Dovete affittare o occupare un posto da qualche parte, far crescere soltanto un piccolo raccolto, e mangiarlo subito. Dovete vivere la vostra vita interiore, contare su voi stessi, rimboccandovi le sempre le maniche, pronti a ricominciare, senza occuparvi di troppe faccende”. Il governo, qualsiasi governo, è ridimensionato non solo perché “è, nella migliore delle ipotesi, solo un espediente”, e spesso e volentieri un espediente inutile. L’essenza della Disobbedienza civile, come la spiega H. D. Thoreau genera una distanza di sicurezza dalle istituzioni perché l’autorità, anche nel caso di rapporti e legami che non presentano caratteristiche conflittuali “è ancora impura: per essere pienamente giusta, deve avere l’approvazione e il consenso dei governati. Non può avere diritti sulla mia persona o proprietà, al di fuori di quelli che io le concedo”. Fin qui, la Disobbedienza civile potrebbe essere, come è stata e come sarà ancora per qualche secolo, fonte di discussione e di aggiornamento per le giurisprudenze e le scienze politiche e anche per quei legislatori che “non hanno ancora imparato il mutuo valore del libero scambio e della libertà, dell’unione e dell’onestà, per una nazione”. Resta l’assunto, unico e ineludibile, per cui non è scontata l’acquiescenza nei confronti delle istituzioni, delle regole imposte e lasciate cadere dall’alto, del muto assenso scambiato per consenso. H. D. Thoreau va oltre, rimettendo la natura dell’uomo e delle sue possibilità, che sono infinite rispetto a quelle dei governi, al centro della sua vita. Senza possibilità di errore, un passaggio chiarissimo di Disobeddienza civile, che per inciso apre un varco verso Walden, proclama: “In ogni caso, il governo non mi interessa un granché, e gli dedicherò meno pensieri possibili. Non sono molti i momenti in cui vivo sotto un governo, persino in questo mondo. Se un uomo è libero nel pensiero, nella fantasia, nell’immaginazione, in modo tale che ciò che non è non gli appare mai per molto tempo come ciò che è, non è detto che governanti o riformatori stolti riescano a ostacolarlo”. Sembra scritto ieri o oggi, eppure la chiamano ancora utopia.

lunedì 7 novembre 2011

Don DeLillo

Una gran parte di Running Dog scorre come un thriller qualsiasi con uno sfondo spionistico non meglio precisato o quello con cui Don DeLillo prova a costruire “il senso di un qualcosa di straordinario sospeso appena al di sopra della nostra portata e al di là della nostra visuale”. La causa di tutto il gran movimento di agenti segreti, giornalisti, mercanti e killer dal grilletto fin troppo facile, è un presunto film pornografico girato nel bunker di Hitler negli ultimi giorni della sua vita. Un pezzo raro e ricercato dai collezionisti ma il cui valore materiale sollecita l’attenzione di più di un palato. Così si dipana Running Dog senza grandi emozioni (salvo una rapida sparatoria, peraltro molto improvvisata) nell’attesa del colpo di scena finale: una giornalista d’assalto, impegnata e radicale, un senatore azzimato, un agente leale al governo e una o più parti dei servizi segreti come schegge impazzite, un vecchio mercante e un giovane pornografo (con una guardia del corpo abulica) più altri personaggi di contorno si contendono il prevedibile crescendo alla ricerca della perversione e degli ultimi giorni di Hitler, sesso e morte uniti in un destino segnato dagli eventi storici. Come ha spiegato in un’intervista Don DeLillo: “Ciò a cui realmente miravo in Running Dog era il senso della terribile acquiescenza in cui viviamo, unita alla completa indifferenza nei confronti dell’oggetto. Dopo tutti i folli tentativi per impadronirsene, tutti improvvisamente decidono che beh alla fin fine forse non è così importante. Questo è qualcosa che secondo caratterizzava la nostra vita nel momento in cui il libro fu scritto. Credo che allora facesse parte della coscienza americana”. La storia, qui, langue, e langue molto. Ci si aspetta uno scatto di pornografia da un momento all’altro o un’azione violenta oppure qualcosa che sovverta l’ordine degli eventi in maniera netta, tagliente, o almeno, soltanto evidente. Invece, nessuna indicazione. Già il ritrovamento del famoso filmato è il primo colpo di scena che fallisce: Hitler interpreta Charlie Chaplin (questo, sì, un colpo di genio di Don DeLillo) che interpreta  Hitler e le immagini non mostrano niente di perverso, se non il sovrapporsi della realtà e della fiction. Solo un uomo mascherato da buffone che gioca con dei bambini. Da lì in poi Running Dog non ha finale. Anzi, non he ha uno solo: ogni personaggio è lasciato al suo destino. Chi muore, chi si ritira dalla corsa, chi si nasconde. I fatti, semplicemente, si evolvono, progrediscono, maturano, seguono una loro continuità, trovano un loro ordine all’interno del grande disordine annunciato e si ridispongono per un altro caos. L’evoluzione è infinita e anche qui serve una piccola spiegazione di Don DeLillo sulla funzionalità di Running Dog quando dice che “sul piano strettamente teorico, l’arte è uno dei premi di consolazione che riceviamo per aver vissuto in un mondo difficile e a volte caotico”. In questa luce Running Dog ha un suo senso, solo che per trovarlo ci vogliono le istruzioni per l’uso e in un romanzo non sempre sono comprese nel prezzo.

William Langewiesche

E’ “una giornata merdosa come tante” in Iraq. Un mezzo dei marines salta per aria. Il conducente viene tagliato a metò all’esplosione, il convoglio di cui faceva pare si ferma in una strada dove tutto è ostile. Qualcuno deve aver azionato il comando dell’ordigno, il nemico può essere ovunque e la reazione dei marines, scossi e sconvolti dall’attacco e dalla vista del corpo straziato del commilitone, si trasforma in un massacro. Nell’immediato, nei primissimi minuti dopo la detonazione i marines agiscono con prudenza e professionalità: creano un perimetro difensivo, cercano di soccorrere i feriti, chiamano i rinforzi e un elicottero per l’evacuazione. L’addestramento, la disciplina, l’autocontrollo e la catena di comando franano un attimo dopo: un taxi con cinque studenti che ha solo la sfortuna di passare in quel momento viene fermato e i passeggeri uccisi sul ciglio della strada. E’ l’inizio di una carneficina che porta allo sterminio di due intere famiglie di Al-Haditha, raggiunte dai colpi d’arma da fuoco dei marines. Le regole d’ingaggio, cioè i codici di comportamento in caso di combattimento, saltano. Non che fossero chiare o ineludibili nella cosiddetta guerra asimmetrica, un modo come un altro per definire il caos. William Langewiesche è abbastanza acuto da riportarle per intero, così come erano esposte sul muro della base dei marines: “1. Estrema professionalità. 2. Vendere cara la pelle. 3. Non ci sono migliori amici, non ci sono nemici giurati. 4. Primo, non nuocere. 5. Gli iracheni non sono nostri nemici. Ma i nostri nemici si nascondono in mezzo a loro. Corollario 1. Guarda sempre chi hai davanti come stesse per ucciderti, ma non agire di conseguenza. Corollario 2. Sii gentile, professionale, ma tieni pronto un piano per uccidere chiunque”. Regole d’ingaggio si muove su un territorio friabile tra il reportage e l’atto di accusa eppure William Langewiesche scrive raccontando con nitida precisione, nella nebbia delle emozioni e della disinformazione, l’insieme dei fatti reali prima, durante e dopo il 19 novembre 2005 a Al-Haditha. E’ nelle pieghe di un linguaggio involuto e opaco che maturano le condizioni e le forme mentali (dire la cultura forse è eccessivo) che travolgono le regole d’ingaggio e incidono sulle posizioni ambigue e pericolose delle forze americane in Iraq. La ricostruzione di William Langewiesche non lascia nulla al caso, non cerca la polemica gratuita e parte da antefatti e prologhi molto radicati: i marines colpiti nella polvere di Al-Haditha e trasformati in cupe macchine vendicatrici avevano combattuto a Falluja, una città dove avevano visto prima bruciare e fare a pezzi quattro contractors e poi trovato la sconfitta nella primavera del 2004. Erano tornati in autunno, in forze, per raderla al suolo. E’ dentro quelle battaglie che le Regole d’ingaggio sono collassate, senza capire perché sia necessario uccidere o morire, se non per assecondare Von Clausevitz quando diceva: “La guerra è un atto di violenza, e non si danno limiti alla manifestazione di tale violenza”. Missione compiuta.