lunedì 19 settembre 2011

Tim O'Brien

L’esordio di Tim O’Brien cresce con la sua chiamata alle armi. Quando ricevette la cartolina ebbe una reazione che lo sorprende ancora a distanza di anni: “Andai nella mia stanza e cominciai a pestare sulla mia macchina da scrivere. Fu l’estate peggiore della mia vita, peggio che essere in guerra. La mia coscienza mi diceva che non dovevo andare, ma tutto il resto mi diceva che lo dovevo fare. Quell’orribile estate fece di me uno scrittore. Non so cosa scrissi. Ho ancora una parte di quella roba, anche se non riesco più a guardarla ma quello fu l’inizio”. L’arruolamento, dovuto più a luoghi comuni e alle convenzioni che a una reale partecipazione, lo porta a un cupo campo d’addestramento, Fort Lewis, con personaggi e dinamiche che poi saranno protagonisti anche in Full Metal Jacket. “Eccoci qui, proiettati verso l’opposto e l’assurdo antipodo di ciò che riteniamo giusto” è il saluto che Tim O’Brien rivolge alla sua nuova casa. In difficoltà nel trovare una dimensione umana in quel contesto, Tim O’Brien stringe amicizia con un altro outsider con cui si diletta a discutere di filosofia e poesia. Gli amici verranno separati perché i voli pindarici non hanno speranza all’interno della struttura militare e Tim O’Brien si ritrova proiettato da solo nel fango, nel sangue e nella merda della guerra in Vietnam. Le sue ipotesi di fuga nonché tutti i piani per effettuarla sfumano negli ingranaggi spietati della macchina bellica, tra lunghissimi momenti di noia e pochi attimi di terrore. L’idea della diserzione si riduce a una ritirata nelle retrovie, come se la vita e la morte nella zona di combattimento avessero riportato Tim O’Brien alla realtà e a una guerra diversa. La fuga diventerà un altro romanzo, Inseguendo Cacciato, e le sue radici sono proprio qui: “Cazzo, amico il segreto per resistere in Vietnam è andare via dal Vietnam. E non parlo di andare via in un sacco di plastica. Parlo di andare via vivo, così lo sento quando la mia ragazza mi abbraccia”. L’unico, esile filo che collega Tim O’Brien alla vita è il rapporto epistolare con il vecchio compagno, ma le lettere sono una rarità e del tutto incongrue con la destinazione finale. Il Vietnam è distruzione e disperazione al fronte e decadenza e assuefazione nelle retrovie, una terra di nessuno dove non c’è posto per la poesia o la filosofia e dove la percezione è soltanto una: “Le cose accadevano, le cose finivano. Inutile farne un dramma. Non restavano che macerie, quattro crateri fumanti per terra, qualche fuoco che si sarebbe spento da solo”. Nel riportare il suo diario di guerra la scrittura di Tim O’Brien è ancora frammentaria e sfocata rispetto alla sua evoluzione in Inseguendo Cacciato e poi Luglio per sempre. A questo stadio la scrittura funziona come una forma evoluta di autodifesa a cui non è estraneo il malinconico ritorno a casa che Tim O’Brien fotografa così: “In cambio di tutto il tuo terrore, le praterie si mantengono sfrontatamente immutate”. Come per dire: da laggiù non si può nemmeno fuggire. 

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