giovedì 1 settembre 2011

Ronald Everett Capps

Anche se un po’ in controluce la storia sembra essere ancora quella di Una canzone per Bobby Long, il fortunato romanzo che ha portato R. E. Capps (e il figlio Grayson per la colonna sonora) al cinema con l'omonimo (e struggente) film con John Travolta e Scarlett Johansson. C’è sempre una ragazzina da salvaguardare e da proteggere, chissà forse c’è qualcosa di autobiografico nascosto in questo frangente, e c’è ancora una luce che ha la forma della redenzione in fondo alla storia e dentro la scrittura e c’è un legame, quello tra Rose e Anthony che travalica e in qualche modo salva il rapporto tra il mondo adulto e quello dell’infanzia. La storia emerge attravers la lettura del diario di Rose: cresciuta in una famiglia sempre prossima alla disgregrazione, trova un approdo sicuro in Anthony, sognatore dall’ispirazione vacante che la introduce al mondo dell’arte, della cultura, del pensiero. Un incontro fortunato che le permetterà di crescere una sua indispensabile autonomia. R.E. Capps, non senza una certa grazia, per Rose s’inventa una voce grezza, a tratti persino sincopata che la guida e la conduce a un rapido processo di trasformazione in cui la lettura e la scrittura hanno un ruolo fondamentale. L’inizio e la fine del suo “libro” sono davvero emblematici della metamorfosi. Dice infatti nel primissimo paragrafo, che già nel simbolico titolo (Una cosa che vi voglio spiegare) mette in chiaro il patto tra chi scrive e chi legge: “Se un giorno qualcuno leggerà questa cosa, non si tratta di un libro o che so. E’ solo che mi sono messa a scrivere e poi ho continuato a farlo. Mi piace e basta. Chissà, forse quando ho finito butto via tutto. Adesso ancora non lo so”. La bambina incerta, titubante e spaesata dalla mancanza di punti di riferimento (sulla madre è meglio stendere un velo pietoso anche perché R. E. Capps sa dove pescare i personaggi più disadattati) trova attraverso gli stimoli artistici e umani di Anthony, un loser che poteva far parte della compagnia di Bobby Long, un modo per affrontare la vita in tutto il suo grigiore di fatiche, separazioni e dolore e forse anche una soluzione quasi filosofica, in fondo, posta in chiusura a Il libro di Rose. Una postilla che è eloquente: “Ho l'impressione, prima di tutto, che noi non esistiamo realmente. Voglio dire, penso di essere solo parte di una forza non meglio identificata, come l’elettrictà o qualcosa del genere, mentre un qualcosa là fuori sembra muovere i fili di tutto. Voglio dire, contrariamente a quello che mi è stato detto, sono un soggetto passivo e non attivo. E quelle che chiamiamo cose in realtà non esistono. Non ci sono davvero automobili o scarpe o case o persone o cammelli o altro. Solo illusioni, pura invenzione. E quello che credo di vedere è solo un inganno creato dai miei sensi. Non esisto davvero, e quindi non posso vivere o morire. E l’unica cosa che siamo sicuri esista davvero è il pensiero”. Un bella storia che, per quanto semplice e lineare, per certi versi è persino coraggiosa.

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