martedì 27 settembre 2011

Raymond Carver

C’è molto di Raymond Carver in Cattedrale. Della sua storia, del passato e di un futuro intravisto in racconti “più generosi”, testimonianze di “un senso di apertura” allora (siamo nel 1983) inedito e forse persino inatteso. La svolta parte proprio da Cattedrale,  il primo racconto scritto da Raymond Carver a inaugurare questa raccolta. In un’intervista disse: “Mi sentivo come se non avessi mai scritto niente in quel modo, prima. Potevo lasciarmi andare in un certo senso, non dovevo impormi le limitazioni che mi ero imposto nei racconti precedenti”. Un modo diverso di accostarsi al suo mondo di ultimi e perdenti, che proprio in Cattedrale sfiora persino l’ironia: “So che intere generazioni di una stessa famiglia a volte hanno lavorato a una cattedrale. L’ho sentito dire anche questo. Quelli che hanno messo tutto il lavoro della loro vita per cominciarle, non hanno mai visto l’opera finita. Da questo punto di vista, fratello, non è che siano molto diversi dal resto di noi, giusto?”. La domanda non è retorica perché chiarisce il senso universale della precarietà, sia che si passino le giornate tra la bottiglia e il divano, sia che si punti a toccare il cielo. Ed è vero che il disorientamento, le difficoltà, il senso di perdita sono ancora gli elementi fondamentali della narrativa di Raymond Carver, ma da Cattedrale in poi emerge uno spirito che forse è eccessivo definire positivo, come fece lo stesso scrittore all’epoca, però è senza dubbio più ricco, coraggioso e lirico rispetto ai precedenti. La sequenza dei racconti di Cattedrale mette la letteratura a nudo, la riporta all’essenzialità dello storytelling o, per dirla con Tobias Wolff, “le storie e il fatto di raccontarsele”. Lo fa affidandosi alla purezza di un linguaggio elementare, semplice, perfetto. Le vite dei suoi protagonisti sono diamanti grezzi: trasparenti e dai tagli imprevedibili perché lo sguardo di Raymond Carver non è mai consolatorio eppure crudo e duro mantiene sempre una certa compassione e un infinito trasporto per i suoi uomini e le sue donne. Tutti incastrati in svolte e incroci in cerca di un’altra vita che non arriva mai, e quando arriva (in Il pavone, per esempio: “Il cambiamento è avvenuto più tardi, e quando è successo era come se stesse succedendo ad altri, non come qualcosa che poteva succedere a noi”) non è mai quella sperata. Sono outsider anche nella loro stessa sofferenza: la ricerca della felicità è una chimera, il quotidiano incombe con tutte le piccole fatiche e l’imprevisto di tragedie sempre in agguato. Non sanno dove stanno andando e il più delle volte salgono sul treno sbagliato. Capita a Myers che, in viaggio tra le campagne francesi coltivate a rimpianti e delusioni, dice del suo convoglio: “Stava andando da qualche parte, questo lo sapeva. E se era nella direzione sbagliata, prima o poi l’avrebbe scoperto”. Con Cattedrale, Raymond Carver invece riscopriva nella scrittura una certezza con “l’idea di sapere più o meno” che cosa avrebbe fatto in futuro. Fondamentale.

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