giovedì 29 settembre 2011

Edward Bunker

James Ellroy l’ha definito “il grande romanzo dei bassifondi di Los Angeles”. Gli elementi che stanno alla base dell’elogio sono presto elencati nella sua breve prefazione a Come una bestia feroce: “Raffinatezza nell’analisi della società, impietosi ritratti sul comportamento del suo personaggio, senza concessioni né giustificazioni, giudizi implacabili sulla legge e sulla giustizia”. Max Dembo, il protagonista di Come una bestia feroce incarna il profilo criminale recidivo e ripetitivo, uno che la lezione non la imparerà mai perché non la vuole proprio imparare, uno che non farà mai un lavoro dove serve il codice fiscale. Appena uscito dal carcere e seminato il suo responsabile per la libertà condizionata ricomincia la caccia, senza un momento di esitazioni: “Fanculo alla società. Fanculo al suo gioco. E se anche le difficoltà erano molte, fanculo anche a quelle. Almeno avevo riconquistato l’integrità della mia anima, ero tornato a essere il solo responsabile della mia piccola zolla d’inferno, per minuta che fosse, per confinata che fosse nella mia mente”. Il confronto è impietoso perché le regole, la giustizia, le istituzioni sono violente e pericolose almeno quanto lo è Max Dembo. E’ la sua scelta, che spaventa perché, avendo una sola possibilità, la segue fino in fondo e la rivendica con orgoglio: “Le cose iniziavano a muoversi, le opportunità stavano aumentando. Avevo la gioiosa sensazione di possedere il controllo del mio mondo. Stavo facendo quel che sapevo fare”. La via dei bassifondi è obbligata e così la fuga perenne che diventa uno stile di vita, proprio Come una bestia feroce braccata all’infinito. Anche Max Dembo sembra rendersi conto della distorsione: “Intellettualmente è possibile accettare l’idea che un assassino riesca a sfuggire alla giustizia, ma a livello viscerale, laggiù dove risiede la fede, diventa difficile. Perfino lo stesso assassino lo trova problematico, sebbene la storia presenti una lunga lista di omicidi impuniti”. La biografia di Edward Bunker, che si riflette in quella di Max Dembo, non gli impedisce di tagliare le pagine di Come una bestia feroce a colpi d’accetta trasportando il lettore in un girone dantesco dove il senso di fortuna o giustizia, di successo o fallimento scricchiolano per un niente, un caso. Un frazione di secondo e il predatore diventa una preda. Un destino fragile e nello stesso tempo cinico che Max Dembo riassume così: “Ma un giorno o l’altro, che sia domani o fra vent’anni quando ne avrai cinquanta, ti renderai conto che chiunque tu sia e qualsiasi cosa tu abbia fatto, non poteva andare in modo granché diverso. Ti accorgerai che nella vita ti viene richiesto di fare una certa cosa, e quando sarai alla fine e le somme saranno tirate, sarai stato quella cosa lì, qualsiasi cosa sia. Hai ancora qualche speranza davanti a te, ma un giorno o l’altro scoprirai di essertela lasciata dietro”. Nessuno l’ha spiegato meglio di Edward Bunker: il passato che insegue è già futuro e la fine è quasi un sollievo.

Vladimir Nabokov

Pur avendo una natura composita e colorita, tra lettere, interviste e saggi sulle farfalle, Intransigenze è quasi un’autobiografia d’artista, se non proprio un provocatorio testamento. Nabokov, uno di più concreti e mirabili protagonisti culturali del ventesimo secolo, comincia da un senso dell’arte che ha coordinate ben precise: “Originalità, invenzione, armonia, concisione, complessità e meravigliosa insincerità” sono i campi delimitati dalle sueIntransigenze e applicabili a tutte le forme d’espressione. Su cui Nabokov ribadisce le sue idee a colpi di sciabola, senza titubanze: l’arte basta a se stessa, non può essere una terapia, non deve inventarsi applicazioni e destinazioni. E’ un mistero e tale rimane. A maggior ragione la scrittura e qui Nabokov è ancora più preciso eintransigente: “Non mi prefiggo scopi sociali, né messaggi morali; non ho idee generali da sfruttare, mi piace semplicemente comporre enigmi con soluzioni eleganti”. In questo e in molti altri accenni di cui è disseminato Intransigenze che sanno di falsa modestia o comunque di felice insincerità, Nabokov è abile maestro nell’elaborare un labirinto che poi porta sempre all’essenzialità del gesto. Potrebbe essere la cattura e la conoscenza di un lepidottero o la perfezione di una frase, il concetto è lo stesso: “Quando compongo una cosa non mi propongo alcuno scopo, se non quello di comporla. Lavoro sodo, lavoro a lungo, su un corpo di parole, finché non mi concede completo possesso e completo piacere. Se il lettore deve lavorare a sua volta, tanto meglio”. La ricchezza di Nabokov è nella sua visione della letteratura come orizzonte che comprende la poesia e/o la prosa, lettura come scrittura, anzi la lettura prima di tutto. Intransigenze è evidente, in questo quando, in una delle interviste raccolte nella parte iniziale, Nabokov dice: “La realtà è una faccenda molto soggettiva. Non saprei come definirla, se non come una sorta di graduale accumulo di informazioni; e come specializzazione”. Il carattere di Nabokov è rigoroso perché contiene moltitudini. Non ci si può permettere confusione o sciatteria con una formazione così vasta e tesa in continuazione a riconoscere quel “brivido alla spina dorsale”, l’ultimo e più importante elemento critico utile a una lettura non superficiale, vale a dire a “rivelarvi davvero ciò che l’autore provava e voleva farvi provare”. Le sollecitazioni delle sue Intransigenze sono continue e profonde: il trasporto per la letteratura è totale, incondizionato e caleidoscopico; le sue prese di posizione, che non sono mai casuali, sono sempre ribadite con una bella forza. Nabokov oltre a essere un grande scrittore è anche questo, come rivela Intransigenze: un raffinato cultore del pensiero, che ha vissuto con una scienza tutta anche la lettura, oltre alla scrittura: “Sono sempre stato un onnivoro consumatore di libri, e ancora oggi, come da ragazzo, la visione della luce del comodino su un livre de chevet è una promessa di gioia e una stella che mi guida per tutta la giornata”. Un bell’impegno. 

mercoledì 28 settembre 2011

Flannery O'Connor

Raccontava Bruce Springsteen in Songs: “Proprio prima di registrare Nebraska, lessi Flannery O’Connor. Le sue storie mi facevano pensare all’inconoscibilità di Dio e suggerivano una spiritualità tenebrosa che, a quel tempo, trovava risonanza con i miei stessi sentimenti”. Non si tratta soltanto di Nebraska o di La saggezza nel sangue, romanzo che è un momento centrale della narrativa di Flannery O’Connor: Bruce Springsteen ha saccheggiato in lungo e in largo ispirazione, storie, frammenti, a partire da The River, che era il titolo di un racconto pubblicato per la prima volta nel 1953 (e questa potrebbe essere una coincidenza, ma visto il tenore generale di quel capolavoro, è difficile anche solo pensarlo), a A Good Man Is Hard To Find altro racconto del 1953 che è diventato Pittsburgh (A Good Man Is Hard To Find) e dato che Tracks l’abbiamo tutti, si sa di cosa stiamo parlando). Se Bruce Springsteen è oggi il suo lettore più famoso, lo si deve anche al fatto che Flannery O’Connor è diventata, nonostante la breve e malatissima vita (se ne è andata che aveva solo trentanove anni) e la relativamente scarsa bibliografia, un punto di riferimento nella narrativa americana, e tanto dovrebbe bastare. Forse è proprio per come ha saputo rendere quei contrasti tra santi e peccatori, fede e disperazione che vivono i personaggi in balia degli eventi e della strada (“Ci tengo ad avanzare ottimi argomenti in favore della devianza, perché mi vado convincendo che è l’unico modo per aprire gli occhi alla gente” diceva a proposito Flannery O’Connor). Hazel Motes, il protagonista di La saggezza nel sangue, può essere eletto a principale interprete di quell’umanità sempre in lotta con se stessa e con il mondo intero. Definito dalla stessa Flannery O’Connor “un romanzo comico che tratta di un cristiano suo malgrado”, La saggezza nel sangue è ancora oggi attualissimo, non soltanto per la rappresentazione dei conflitti tra il dubbio e la speranza. E’ quell’insistente voglia di mistero, di ombre, di profondità, a fronte della quotidiana overdose di banalità, che lo rendono un caposaldo destinato a durare per sempre. Il punto è questo e Flannery O’Connor lo ricordava, ristabilendo uno dei principi fondamentali che dovrebbe stare alla base di ogni narrazione, di ogni storia: “Credo che uno scrittore serio descriva l’azione solo per svelare un mistero. Naturalmente, può essere che lo riveli a se stesso, oltre che al suo pubblico. E può anche essere che non riesca a rivelarlo nemmeno a se stesso, ma credo che non possa fare a meno di sentirne la presenza”. La saggezza nel sangue è la migliore espressione di una scrittura intesa come percezione e rivelazione e molto dipende dall’arte di leggere a cui Flannery O’Connor si applicava con tanto entusiasmo e il consueto  disincanto. La sua autobiografia di lettrice è esemplare anche per lo stile, sempre diretto al punto: “Le mie letture sono raffazzonate. Ho quella che al giorno d’oggi viene spacciata per cultura, ma non m’illudo”. Ci associamo.

martedì 27 settembre 2011

Raymond Carver

C’è molto di Raymond Carver in Cattedrale. Della sua storia, del passato e di un futuro intravisto in racconti “più generosi”, testimonianze di “un senso di apertura” allora (siamo nel 1983) inedito e forse persino inatteso. La svolta parte proprio da Cattedrale,  il primo racconto scritto da Raymond Carver a inaugurare questa raccolta. In un’intervista disse: “Mi sentivo come se non avessi mai scritto niente in quel modo, prima. Potevo lasciarmi andare in un certo senso, non dovevo impormi le limitazioni che mi ero imposto nei racconti precedenti”. Un modo diverso di accostarsi al suo mondo di ultimi e perdenti, che proprio in Cattedrale sfiora persino l’ironia: “So che intere generazioni di una stessa famiglia a volte hanno lavorato a una cattedrale. L’ho sentito dire anche questo. Quelli che hanno messo tutto il lavoro della loro vita per cominciarle, non hanno mai visto l’opera finita. Da questo punto di vista, fratello, non è che siano molto diversi dal resto di noi, giusto?”. La domanda non è retorica perché chiarisce il senso universale della precarietà, sia che si passino le giornate tra la bottiglia e il divano, sia che si punti a toccare il cielo. Ed è vero che il disorientamento, le difficoltà, il senso di perdita sono ancora gli elementi fondamentali della narrativa di Raymond Carver, ma da Cattedrale in poi emerge uno spirito che forse è eccessivo definire positivo, come fece lo stesso scrittore all’epoca, però è senza dubbio più ricco, coraggioso e lirico rispetto ai precedenti. La sequenza dei racconti di Cattedrale mette la letteratura a nudo, la riporta all’essenzialità dello storytelling o, per dirla con Tobias Wolff, “le storie e il fatto di raccontarsele”. Lo fa affidandosi alla purezza di un linguaggio elementare, semplice, perfetto. Le vite dei suoi protagonisti sono diamanti grezzi: trasparenti e dai tagli imprevedibili perché lo sguardo di Raymond Carver non è mai consolatorio eppure crudo e duro mantiene sempre una certa compassione e un infinito trasporto per i suoi uomini e le sue donne. Tutti incastrati in svolte e incroci in cerca di un’altra vita che non arriva mai, e quando arriva (in Il pavone, per esempio: “Il cambiamento è avvenuto più tardi, e quando è successo era come se stesse succedendo ad altri, non come qualcosa che poteva succedere a noi”) non è mai quella sperata. Sono outsider anche nella loro stessa sofferenza: la ricerca della felicità è una chimera, il quotidiano incombe con tutte le piccole fatiche e l’imprevisto di tragedie sempre in agguato. Non sanno dove stanno andando e il più delle volte salgono sul treno sbagliato. Capita a Myers che, in viaggio tra le campagne francesi coltivate a rimpianti e delusioni, dice del suo convoglio: “Stava andando da qualche parte, questo lo sapeva. E se era nella direzione sbagliata, prima o poi l’avrebbe scoperto”. Con Cattedrale, Raymond Carver invece riscopriva nella scrittura una certezza con “l’idea di sapere più o meno” che cosa avrebbe fatto in futuro. Fondamentale.

lunedì 26 settembre 2011

Elia Kazan

L’America America è una terra promessa che attira e incanta anche da una distanza impossibile. Per Stavros Topouzoglou è un’ossessione che lo divora perché l’America America è il sogno di fuggire dalla paura (c’è il massacro degli armeni in primo piano nelle scene iniziali), da una nazione, la Turchia, in cui lui e la sua famiglia (che sono greci) si sentono stranieri e anche dai riti e dalla consuetudini tradizionali, dai matrimoni combinati ai legami famigliari. Dopo che ha visto uccidere Vartan Damadian, suo amico e compagno di viaggio armeno, Stavros ne recupera il corpo, un gesto di pietà che, nella follia dell’eccidio, gli costa l’arresto e il biasimo delle autorità cittadine. Solo l’intervento del padre, Isaac, che arriva a umiliarsi e a supplicare (e a pagare) per il suo rilascio, gli consente di tornare libero. E’ in quel momento che entrambi, padre e figlio, prendono la decisione: Bayram, la città dell’Anatolia in cui vive la famiglia Topouzoglou non è più sicura nemmeno per i greci, e l’unica alternativa è andarsene. Isaac vorrebbe trasferire tutti a Costantinopoli, nella speranza che nella città cosmopolita si possano salvaguardare vita e affari. Ha l’idea di affidare al giovane e irrequieto Stavros tutti i beni di famiglia, comprese le doti delle figlie e il mulo, perché vada in avanscoperta da un parente che commercia tappeti. Nel suo schema, la famiglia lo seguirà, una volta che Stavros si sarà organizzato. Per lui quest’incarico è una sorpresa e un’occasione imperdibile: è da Costantinopoli che partono i piroscafi verso l’America America e il patrimonio famigliare caricato sul fedele mulo è più che sufficiente a garantirgli l’imbarco. Il sogno è a portata di mano e tanto include il tradimento di Stavros verso la famiglia, tanto un’odissea straziante. Nei terreni impervi dell’Anatolia, tra briganti e puttane, Stavros perde tutto, compreso il mulo, e per difendersi si scopre capace di uccidere. Nelle strade e tra le mura di Costantinopoli, deve sopportare un fidanzamento organizzato dallo zio che in realtà conduce poco più di uno scalcinato negozio in cui non entra mai nessuno. Finisce a fare il facchino per pochi e miseri soldi, faticando disperato e frugando nella spazzatura per poter mangiare qualcosa. Tra dozzine di peripezie e colpi di scena, Stavros riesce a imbarcarsi grazie a un torbido affaire con una ricca signora che continua sulle onde dell’Atlantico. Il prezzo da pagare per arrivare all’America America, il posto dove “costruiscono strade che tagliano il cielo” è spropositato: è la terra dei liberi e delle occasioni, è il sogno che distrugge il sogno. La metamorfosi si compie nell’amarezza che Elia Kazan racconta con uno stile asciutto, essenziale e impeccabile. Arrivato a Ellis Island, la frontiera di New York sull’oceano, Stavros è costretto a cambiare il suo nome, prima per fuggire alla vendetta del marito della sua generosa concubina e poi per guadagnarsi un posto da lustrascarpe con il nome americano americano di Joe Arness. Lucido, dolente e imperdibile.

venerdì 23 settembre 2011

Stephen King

On Writing è stato un libro particolare nella storia di Stephen King sia per come è nato sia per quello che contiene. Il personalissimo tono di Stephen King trova la sua cifra definitiva nella confessione finale dove svela i legami con il grave incidente che, nel 1999, lo costrinse a lunghe e indicibili sofferenze. Se è stato vero per lui che scrivere è tornare alla vita è perché comunque scrivere è una vita e On Writing è un libro che dice molto sulla scrittura e sullo scrittore ma nello stesso tempo spiega lettore e lettura. “Autobiografia di un mestiere” presuppone più di un significato e i suoi consigli, come di chiunque altro, sono opinabili e discutibili perché come ammette Stephen King “si impara soprattutto leggendo molto e scrivendo molto e le lezioni più preziose sono quelle che vi impartite da soli. Sono lezioni che si svolgono quasi esclusivamente quando la porta dello studio è chiusa”. La praticità di On Writing è tutta qui: alcuni passaggi (a partire da quello fondamentale sulle revisioni: “Scrivi con la porta chiusa, riscrivi con la porta aperta”) sono più che utili, ma è soprattutto il modo di accostarsi alla lettura e alla scrittura che è contagioso. Un tono entusiasta e incantato che recita: “anche se il risultato è solo chiarezza e non bellezza, credo che scrittore e lettore partecipino insieme a una sorta di miracolo”. On Writing è la cerniera tra la formazione di uno scrittore e la natura di un lettore, dove il mestiere di scrittore diventa comprensibile attraverso la vita del lettore e scrittura e lettura si intrecciano come in un’altra raccolta di saggi piuttosto sottovalutata, ovvero Danse Macabre, perché la passione di Stephen King lo spinge a dire che “i libri hanno la singolarità di essere magie portatili”. Idea più che condivisibile per cui On Writing non è un vademecum per aspiranti scrittori, anche se di indicazioni se ne trovano in abbondanza: “tutti hanno una storia” e se quello è il punto di partenza, non è mai autosufficiente perché se da una parte  “le storie sono reperti, frammenti di un mondo preesistente e ignoto”, dall’altra “il fine della fiction è di trovare la verità dentro la ragnatela di bugie della storia”. Questo è lo spunto più coraggioso di On Writing e forse anche un’altra esplicita rivelazione di Stephen King, questa volta più politica che personale: poi “è tutto sul tavolo: quello che vi può servire è lì, ed è giusto utilizzare qualunque cosa migliori la qualità della vostra scrittura e non intralci la vostra storia”. E’ importante cominciare, continuare, ma soprattutto scoprire che “se potete farlo per il piacere, potete farlo per sempre”, quali che siano i risultati. In fondo “scrivere è tirarsi su, mettersi a posto e stare bene” ed è un lavoro duro, ma qualcuno lo deve fare anche se agli americani (e non solo, vale la pena di notare) “interessano di più i quiz televisivi che i racconti di Raymond Carver”. In mezzo, dove c’è un’intera terra di nessuno in gran parte inesplorata, c’è solo Stephen King. 

mercoledì 21 settembre 2011

Harper Lee

Ci vuole uno sguardo speciale per riuscire a vedere quello che c’è dietro la siepe, dentro il buio. Una visione senza lenti che offuscano e deformano che illumina la paura della diversità e l’humus di ambiguità in cui maturano gli estremi razzisti. E’ nel nome della protagonista che si nasconde e si rivela la scoperta con gli occhi aperti dell’infanzia, con il coraggio innocente dell’intraprendenza. E’ il suo osservare, in fondo, a reggere la storia di Il buio oltre la siepe, ed è anche lo strumento che le permette di non essere travolta dagli eventi, primo tra tutti quello ineludibile del crescere. L’intreccio è solido: le scorribande di Scout nei meandri sonnolenti dell’Alabama sono scosse vitali che Harper Lee riesce a trasmettere con uno straordinario senso per il ritmo e per le parole e con una forza immaginifica. “Gli avvenimenti di quell’estate incombevano su di noi come una nuova di fumo in una stanza chiusa” racconta con la voce di Scout e la rappresentazione è perfetta per introdurre l’altro lato di Il buio oltre la siepe, il dilemma di un uomo, Atticus Finch, che lotta per la giustizia in un nazione che non la riconosce e vive ancora in un sogno pieno di contraddizioni e di miserie. La ferita è messa ben in evidenza da Harper Lee con Il buio oltre la siepe, un romanzo che illustra in modo inequivocabile il perverso circolo di ignoranza, indifferenza e interessi (economici) che alimenta le deviazioni del razzismo e della segregazione. E’ il tema fondamentale della battaglia di Atticus Finch vista attraverso gli occhi di Scout e va da sé che la denuncia non è mai sufficiente se non c’è la sostanza, ma Harper Lee “è la scrittrice che ha il più immediato senso della vita, e il più caldo, il più autentico umorismo che io conosca”: detto da Truman Capote, c’è da fidarsi e la realtà non ha fatto che confermarlo. Il buio oltre la siepe è stato un caso (editoriale e cinematografico, come si sa) che l’ha fatto diventare un esempio universale. Anche da un luogo aspro e impervio, può maturare un’indicazione, un coraggio e una risposta che vale ovunque: “Volevo che tu imparassi una cosa da lei: volevo che tu vedessi che cosa è il vero coraggio, tu che credi che sia rappresentato da un uomo col fucile in mano. Aver coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare egualmente e arrivare fino in fondo, qualsiasi cosa succeda”. E’ la voce di Atticus Finch, il protagonista di Il buio oltre la siepe che nelle sue caratteristiche è più vicino a un personaggio reale come Rosa Parks, la donna che con il suo rifiuto diede il via al movimento dei diritti civili, piuttosto che con altri epigoni letterari. Anche nel corso di Il buio oltre la siepe perché la posizione diventa una sorta di avamposto filosofico della libertà, ancora e sempre attuale, come dice lo stesso Atticus Finch: “Ma prima di vivere con gli altri, bisogna ch’io viva con me stesso: la coscienza è l’unica cosa che non debba conformarsi al volere della maggioranza”. Educazione civica.

lunedì 19 settembre 2011

Tim O'Brien

L’esordio di Tim O’Brien cresce con la sua chiamata alle armi. Quando ricevette la cartolina ebbe una reazione che lo sorprende ancora a distanza di anni: “Andai nella mia stanza e cominciai a pestare sulla mia macchina da scrivere. Fu l’estate peggiore della mia vita, peggio che essere in guerra. La mia coscienza mi diceva che non dovevo andare, ma tutto il resto mi diceva che lo dovevo fare. Quell’orribile estate fece di me uno scrittore. Non so cosa scrissi. Ho ancora una parte di quella roba, anche se non riesco più a guardarla ma quello fu l’inizio”. L’arruolamento, dovuto più a luoghi comuni e alle convenzioni che a una reale partecipazione, lo porta a un cupo campo d’addestramento, Fort Lewis, con personaggi e dinamiche che poi saranno protagonisti anche in Full Metal Jacket. “Eccoci qui, proiettati verso l’opposto e l’assurdo antipodo di ciò che riteniamo giusto” è il saluto che Tim O’Brien rivolge alla sua nuova casa. In difficoltà nel trovare una dimensione umana in quel contesto, Tim O’Brien stringe amicizia con un altro outsider con cui si diletta a discutere di filosofia e poesia. Gli amici verranno separati perché i voli pindarici non hanno speranza all’interno della struttura militare e Tim O’Brien si ritrova proiettato da solo nel fango, nel sangue e nella merda della guerra in Vietnam. Le sue ipotesi di fuga nonché tutti i piani per effettuarla sfumano negli ingranaggi spietati della macchina bellica, tra lunghissimi momenti di noia e pochi attimi di terrore. L’idea della diserzione si riduce a una ritirata nelle retrovie, come se la vita e la morte nella zona di combattimento avessero riportato Tim O’Brien alla realtà e a una guerra diversa. La fuga diventerà un altro romanzo, Inseguendo Cacciato, e le sue radici sono proprio qui: “Cazzo, amico il segreto per resistere in Vietnam è andare via dal Vietnam. E non parlo di andare via in un sacco di plastica. Parlo di andare via vivo, così lo sento quando la mia ragazza mi abbraccia”. L’unico, esile filo che collega Tim O’Brien alla vita è il rapporto epistolare con il vecchio compagno, ma le lettere sono una rarità e del tutto incongrue con la destinazione finale. Il Vietnam è distruzione e disperazione al fronte e decadenza e assuefazione nelle retrovie, una terra di nessuno dove non c’è posto per la poesia o la filosofia e dove la percezione è soltanto una: “Le cose accadevano, le cose finivano. Inutile farne un dramma. Non restavano che macerie, quattro crateri fumanti per terra, qualche fuoco che si sarebbe spento da solo”. Nel riportare il suo diario di guerra la scrittura di Tim O’Brien è ancora frammentaria e sfocata rispetto alla sua evoluzione in Inseguendo Cacciato e poi Luglio per sempre. A questo stadio la scrittura funziona come una forma evoluta di autodifesa a cui non è estraneo il malinconico ritorno a casa che Tim O’Brien fotografa così: “In cambio di tutto il tuo terrore, le praterie si mantengono sfrontatamente immutate”. Come per dire: da laggiù non si può nemmeno fuggire. 

Jack Kerouac

Quando arriva a Big Sur, Jack Kerouac è ormai un uomo in fuga. L’alcol, suo fedele compagno di viaggio, ha ormai preso la guida e i tormenti, i deliri, le paure stanno assediando l’utopia della “semplice dorata eternità”. Coadiuvato dall’inseparabile Neal Cassady, ospitato da Henry Miller (è sua la capanna di Big Sur), Jack Kerouac nel corso della sua estate californiana. manifesta “meraviglia e tristezza”, che che poi a ben guardare sono le espressioni emblematiche della sua vita. Lo stupore deriva dalla magnifica bellezza di Big Sur: incastrata in un sentiero che dall’oceano s’infratta tra le rocce, fertile di storia e di vita animale, avvolta tra le acque dei fiumi e la prosperità della vegetazione, l’umile residenza di Jack & Neal diventa quasi un aggiornamento di Walden ed è la chiusura di un cerchio, il ritorno alla wilderness, compreso quel mare infinito che spingendo Jack Kerouac alla contemplazione del suo destino lo porta a dire: “Mi sento colpevole perché faccio parte dell’umanità”. Big Sur diventa un mito ed è questa capacità di Jack Kerouac e della Beat Generation in generale di generare miti da niente, persino da una baracca con quattro stoviglie di alluminio, la legna da spaccare e una natura impenetrabile che sorprende anche a distanza di anni (di secoli persino) e il paradosso è che Big Sur è il capolinea di Jack Kerouac. Come scrive nella breve prefazione, lo scrittore ormai sta vagheggiando attorno alla leggenda di Duluoz, nel tentativo di ricreare un ordine dal magma caotico che si è lasciato alle spalle. Un altro sogno che diventerà una leggenda. L’uomo si è arreso e a Big Sur ci arriva ormai convinto che il suo problema sia la soluzione, così come confessa, fin dalle prime battute: “Conveniamo tutti che è troppo potervi tenere testa, che siamo circondati dalla vita, che non la capiremo mai e così risolviamo tutto quanto tracannando whisky dalla bottiglia e quando la bottiglia è vuota io mi precipito giù dalla macchina e ne compro un’altra, punto”. Curioso che sia il mare a portare le avvisaglie che che qualcosa, tutto sta finendo: Big Sur è un romanzo marino almeno quanto Sulla strada è terrestre: è uno specchio ed è una distanza e così Big Sur è un rifugio e insieme un cul de sac. Un luogo in cui raccogliersi e raccogliere i pezzi, un pozzo profondo dove l’euforia di anni e anni vissuti di corsa comincia a trasformarsi in angoscia perché “tentiamo di seguire una strada confidando in noi stessi, l’aiuto non giunge mai troppo presto”. Il disagio nel poema che conclude Big Sur (Mare, appunto) è palpabile. L’estate a Big Sur sta finendo, dall’oceano sale un fitta nebbia, l’aria si fa fredda e ostica. Jack Kerouac fissa le onde tra i versi di un lungo blues e in un momento di malinconica lucidità scrive quattro righe commoventi: “Comprerò il biglietto e dirò addio in un giorno fiorito e mi lascerò alle spalle tutta San Francisco e tornerò a casa attraverso l’America d’autunno e tutto sarà come all’inizio”. Il crepuscolo di un sogno comincia così.

giovedì 15 settembre 2011

William Langewiesche

La precisione. Nella guerra la precisione è tutto: centrare il bersaglio, mantenere la posizione, collimare il mirino, arrivare sulle coordinate giuste. Una precisione costruita con la burocrazia e l’addestramento, a cui negli ultimi anni si è affiancata l’ossessione per le tecnologie più raffinate e costose. Una dimensione in cui è molto difficile entrare e che è ancora più complicato da spiegare. William Langewiesche ci riesce con una certa disinvoltura perché la sua percezione della guerra, e in particolare delle recenti forme di combattimento ad alto contenuto tecnologico, si struttura attraverso due punti di vista molto simili e nello stesso tempo agli antipodi che riporta in due reportage (Esecuzioni a distanza e Predatori) scritti in modo accurato e tagliente. Nella prima metà di Esecuzioni a distanza, William Langewiesche, ricostruendo la testimonianza di un tiratore scelto americano (Iraq, Afghanistan) legge attraverso le sue impressioni le difficoltà di considerarsi umano. La vita del cecchino è difficile e complessa. E’ una parte delle élite in guerra, è un guerriero superiore agli altri, un soldato che vive la sua missione come un’arte. E’ strategico, è più addestrato, è più costoso, è più pericoloso. E’ anche in una situazione in cui il confine tra soldato e omicida diventa molto labile e il tormento, dopo ogni colpo sparato, è un dubbio che scava nell’anima. Anche se la distanza dal nemico resta notevole, un cecchino la guerra la vede e la vive in prima persona, sul terreno, senza via di fuga dal fronte. E’ un killer, ma resta umano, con tutte le contraddizioni e le debolezze degli esseri umani. Speculare alla vita del tiratore scelto, è quella del pilota di droni che occupa l’altra metà di Esecuzioni a distanza. Stando a migliaia e migliaia di chilometri di distanza dal fronte, al sicuro in una base aerea negli Stati Uniti, un pilota guida i Predator nelle ricognizioni e negli attacchi in Iraq e in Afghanistan. La guerra la vede attraverso una schermo digitale. Le decisioni (come muoversi, quando sparare) sono prese con una tastiera e un joystick. La sua partecipazione è limitata, a tratti surreali tanto che confessa a William Langewiesche: “Non ricordo più esattamente che cosa ci facciamo, qui, ma tanto nessuno chiederà la mia opinione”. E’ un’altra guerra rispetto a quella del tiratore scelto. E’ sempre la stessa guerra, “è una guerra che perderemo, ma dichiarando di averla vinta. E’ successo in Vietnam, sta succedendo di nuovo in Iraq, succederà anche in Afghanistan” sentenzia William Langewiesche. Ai suoi interlocutori, i dottor Stranamore che comandano il tiratore scelto e il pilota dei droni, non importa un granché. Sono già proiettati nel prossimo conflitto, “un futuro di guerra robotizzata, in cui saranno le macchine a scegliere di uccidere. Ed è un futuro prossimo. Quando arriverà, dovremo però chiederci che specie siamo diventati. E cosa ci facciamo sulla terra”. La conclusione è agghiacciante e la domanda pare più che lecita. 

lunedì 12 settembre 2011

H. D. Thoreau

Scriveva H. D. Thoreau nel suo Journal: “Temo che di anno in anno il carattere della mia conoscenza si faccia sempre più specifico e scientifico; che, in cambio di opinioni ampie quanto il cielo, io venga spinto alla limitatezza del microscopio”. E’ un modo per intraprendere la lettura di Camminare che si spalanca senza esitazioni sulle diverse forme del pensiero di Thoreau. Se in Walden scriveva che “ogni mutamento è un miracolo da contemplare: e un miracolo s’avvera ad ogni istante”, nel Camminare scopre che “il mio desiderio di conoscere è discontinuo, ma il desiderio di rigenerare la mente in atmosfere sconosciute, esplorando zone non ancora percorse dalle mie gambe, è perenne e costante”. Il senso è comune, i temi si sovrappongono e la prospettiva è la stessa perché tanto nell’estatica immobilità di Walden quanto nelle dinamiche di Camminare “la vita è stato selvaggio” dove la sfida di incontrarla non è tanto il confronto con gli elementi naturali, con le asperità e insieme con la bellezza della wilderness, ma nell’avventura di trovare una direzione. In questo H. D. Thoreau è sempre profetico e pur riconoscendo che comunque “siamo dei crociati miserabili” (bellissima e ironica definizione) non teme di porsi di fronte a una decisione, di separare con certezza il catalogo delle possibilità. Trattandosi di Camminare in particolare, H. D. Thoreau si premura di far notare che “non è indifferente scegliere l’una o l’altra strada. Solo una è quella giusta. Ma siamo spesso così stolti e incuranti da scegliere quella sbagliata. Vorremmo avanzare lungo quella strada, non ancora percorsa nel mondo reale, che sia il simbolo perfetto del cammino che amiamo intraprendere nel mondo interiore e ideale, ed è indubbiamente difficile scegliere la direzione, se essa non è ancora distintamente tracciata in noi”. Camminare è l’elogio dell’andare che poi troverà altre e più ridondanti e più spettacolari forme d’attrazione, che non sempre saranno legati alla credibilità delle sue robuste radici. Il Camminare presuppone, com’era la spartana e scarna quotidianità di Walden, una rinuncia ulteriore perché il movimento, il passaggio è proprio della condizione dei “sans terre, senza terra o senza casa, e questo, nel senso buono, può significare sentirsi a casa propria ovunque, pur non avendo casa in nessun luogo. Ed è questo il segreto dell’autentico vagabondare”. Una condizione che presuppone la conoscenza dell’idea di disobbedienza coltivata con assiduità da H. D. Thoreau e  le connessioni sorgono spontanee visto che proprio a partire da Camminare si traduce in una speciale esortazione libertaria: “C’è qualcosa di servile nella consuetudine di invocare una legge a cui obbedire. Possiamo cercare di conoscere le leggi per la loro utilità, ma una vita piena non conosce alcuna legge. E’ ben triste scoprire che una legge ci vincola laddove pensavamo di essere liberi. Vivi libero, figlio delle nebbie, e rispetto alla conoscenza siamo tutti figli delle nebbie”. Una guida sicura.

domenica 11 settembre 2011

Woody Guthrie

All’inizio Woody Guthrie è stato prima “un ragazzo in cerca di qualcosa” poi è diventato una voce che si sente in modo nitido, forte e distinto ancora oggi. Non tanto perché, in effetti, Woody Guthrie è stato uno storyteller e un cantante eccezionale, ma perché il suo “non posso parlare senza dire” si percepisce in modo vibrante anche sulla pagina scritta. Anche gli scampoli autobiografici riportano in modo diretto alla forza dei suoi valori come spiega lo stesso Woody Guthrie all’inizio di che compongono Questa terra è la mia terra: “Così la nostra famiglia era come divisa in due partiti. Mamma ci insegnava le vecchie canzoni, le leggende e le ballate, cercando a modo suo di abituarci a guardare la realtà dal punto di vista del prossimo. Papà ci comprava ogni genere di attrezzi e molle per fare ginnastica, lasciando che il giardino davanti a casa fosse sempre pieno di ragazzini che facevano la lotta; ci insegnava a non lasciarci impaurire, minacciare e sopraffare da nessun altro essere umano”. L’educazione è tutto ed è da quella formazione che Woody Guthrie ha cominciato a distinguere con precisione cosa vale la pena raccontare e quello che si può perdere per strada: “Avevo la testa piena di figure, come in un film, ma era un film diverso da tutti quelli che avevo visto al cinema. Non si trattava delle solite storie fasulle di fuorilegge, ragazze ricche, playboy, cow-boy e indiani, di sparatorie e uccisioni e di bei ragazzi che baciano belle ragazze stagliandosi contro scenari meravigliosi sotto cieli meravigliosi.  Rimanevo molto più affascinato dal coraggio di quella gente che sputava l’anima a lavorare nei campi di petrolio, spaccandosi la schiena, smoccolando, ridendo, chiacchierando. Digrignavano tutti i denti che avevano in bocca e tendevano tutti i muscoli che avevano in corpo, senza illudersi certo di diventare ricchi e potersi mettere in panciolle”. Più che un (grande) songwriter o uno scrittore, come si evince da Questa terra è la mia terra, Woody Guthrie è stato un testimone del nostro tempo, un bardo con l’umiltà dell’ultimo hobo capace di raccontare gli estremi della vita e di una nazione usando la scrittura e la voce in modo “pubblico”, “politico” nella più alta accezione del termine. Succede perché “all’inizio erano canzoni buffe su storie che prima andavano male e poi finivano per andare meglio o magari peggio. Poi incominciai a prendere coraggio e a scrivere canzoni su quello che veramente pensavo ci fosse di storto, e a come aggiustarle; insomma canzoni che dicevano quello che tutti pensavano in questo nostro paese”. Magnetico e avvincente, Questa terra è la mia terra è il diario di un viaggio nell’oscurità e nella polvere, una discesa tra gli ultimi e gli emarginati, un poema in forma di prosa che risponde alla necessità di dare una voce a chi una voce non l’avrà mai. Il fatto che la terra in questionee risponde al nome di America alla fine è persino relativo. E’ l’unicità della sua missione ciò che resterà indelebile per sempre. 

lunedì 5 settembre 2011

Kaye Gibbons

A partire dalla prima metà del ventesimo secolo, tre generazioni di donne del North Carolina si tramandano i rimedi per sopravvivere. Il vertice di questo triangolo femminile è Charlie Kate, la nonna che ha medicine tutte sue per guarire malattie e infortuni, usate sempre con una particolare sensibilità: “Gli uomini venivano operati da svegli. La nonna sosteneva che, per quanto le donne fossero di norma abituate più degli uomini a sopportare il dolore e il sacrificio, nel momento in cui finivano sotto i suoi ferri non dovevano assolutamente soffrire. Mi raccontava che le sue pazienti adoravano il cloroformio, per la sensazione che dava loro di cadere all’indietro senza pensare, per una volta, ai pannolini, al bucato e alla cena da preparare. Era il grado di stanchezza sui volti di quelle donne a determinare la quantità di cloroformio che avrebbero ricevuto. A volte, quando la nonna si accorgeva che qualcuna di loro era messa a dura prova dalla propria esistenza, le faceva il favore di metterla fuori combattimento al punto di non poter nemmeno sollevare la testa o di pronunciare il proprio nome per il resto della giornata”. E’ un passo iniziale di L’amuleto della felicità che suggerisce in modo molto eloquente l’atmosfera ricreata, non senza una certa abilità, da Kaye Gibbons. Non bastasse vale la pena di ricordare anche la spiccia educazione sessuale di Charlie Kate: “Baciate quanto vi pare. Non c’è niente di male, nei baci. E’ come far spese in periferia per evitare il centro. Ma se gli lasciate infilare quel coso orrendo prima che vi sposi, non venite poi a chiedere a me di disfare ciò che voi avete così stupidamente combinato”. La felicità per Charie Kate, Sophia e Margaret non ha bisogno di amuleti o di preghiere, ma della lotta quotidiana che serve a tenere insieme le storie perché “i legami fragili si spezzano prima dell’alba”. La scrittura, anche nello stesso romanzo, diventa uno quasi uno strumento di autodifesa e un modo vitale e importante di preservare la memoria di donne che non si sono arrese. Come ha detto la stessa Kaye Gibbons in un’intervista: “Usando le tre generazioni si riesce ad avere una panoramica storica estremamente importante per il Sud degli Stati Uniti, perché narrando di tre generazioni copro tutti gli eventi che si sono succeduti nella storia recenti degli Stati Uniti: da un società rurale ci siamo evoluti in una società urbanizzata, cosa che con i passaggi di due generazioni soltanto non sarei riuscita a evidenziare. In più, si riesce a far vedere come le persone cambiano il loro modo di vivere. Riesco perciò a inserire una prosa molto più densa e completa. Per esempio, in L’amuleto della fortuna la nonna pensava soltanto a base di rimedi medici non proprio ortodossi, ma la nipote non può più considerare questa possibilità, quindi pensa di studiare e di diventare un medico. Quindi non si tratta tanto di un numero magico, quanto piuttosto della possibilità di dare un quadro storico completo del mio paese, della mia civiltà”. Missione compiuta. 

domenica 4 settembre 2011

Cormac McCarthy

Nello spiritato Il buio fuori, le dimensioni della wilderness assumono forme e sembianze speciali, come se fossero personaggi attivi e concreti, piuttosto che parti del paesaggio. Alberi, fango, ciottoli, il fiume, la pioggia incidono nella storia con un peso specifico rilevante. E’ una natura enigmatica, cupa, ombrosa, tagliente con cui Il buio fuori anticipa il laconico scenario di La strada. Il clima, la tensione e le asperità del racconto sono proprio quelle, anche se Il buio fuori intuisce e vive di suggestioni, di atmosfere e di ombre, mentre La strada sarà nudo, aspro e lapidario. Il legame tra i due romanzi è suggerito anche da un dialogo nelle pagine iniziali (“Dove state andando? Seguo la strada, tutto qui. Davvero? E’ esattamente dove sto andandoio. Seguo la strada, tutto qui”) con cui comincia il viaggio di Il buio fuori. Rinthy ha un figlio dal fratello che glielo porta via e l’abbandona in mezzo ad un bosco, uno di quei “boschi senza sole” che sembrano esistere soltanto nei romanzi di Cormac McCarthy, e poi fugge. Lei lo insegue per ritrovare il bambino e attraverso le strade che percorrono emergono paesaggi bucolici, aridi, crudeli e una pattuglia di sbandati che appaiono e scompaiono come cavalieri dell’apocalisse ed ogni volta è sangue a fiotti. Attenzione, però: qui non c'è niente di pulp o di cannibale (o scegliete voi un termine alla moda) perché in fondo in fondo “non si danno nomi alle cose morte” e la violenza che racconta Cormac McCarthy è la stessa su cui è fondata l’America. La sua visione è distaccata, atona, precisa: “Sono tempi duri. E’ la gente dura che rende duri i tempi. Ho visto tanta cattiveria fra gli uomini che non so perché Dio non ha ancora spento il sole e non se n’è andato”. Il riferimento più appropriato forse non è letterario perché Il buio fuori condivide, come un po’ tutti i romanzi di Cormac McCarthy, la stessa prospettiva di Sam Peckinpah: tagli netti, passaggi lineari, pugni nello stomaco. Qualcosa che, soprattutto per merito di un linguaggio scarnificato fino all’osso, si avvicina in modo pericoloso alla realtà e che puzza sul serio di vita e di morte. Tra i romanzi di Cormac McCarthy gli estremi più efficaci di questo stile sono Meridiano di sangue e Oltre il confine: il primo per l’efferata e folle crudezza; il secondo per il suo fascinoso lirismo. Il buio fuori, che risale ai suoi esordi (era il 1968) è ancora un acerbo ibrido rispetto ai suoi fortunati successori ma ha pur sempre tre o quattro validissimi motivi che ne giustificano l’esistenza e la lettura: le descrizioni della wilderness americana sono sempre eloquenti, i dialoghi brucianti (“Vivete solo? Non esattamente. Ho due cani e una doppietta calibro dieci che mi tiene compagnia”), la tensione altissima e pronta ad esplodere da un momento all'altro. Quando, per inciso, appaiono quei  tre pazzi sanguinari che, con inesorabile lentezza (narrata da Cormac McCarthy in maniera impeccabile), dispongono di vita e di morte su qualsiasi cosa respiri che incontrano sul loro sentiero. Inquietanti, e magici, come Il buio fuori.

giovedì 1 settembre 2011

Ronald Everett Capps

Anche se un po’ in controluce la storia sembra essere ancora quella di Una canzone per Bobby Long, il fortunato romanzo che ha portato R. E. Capps (e il figlio Grayson per la colonna sonora) al cinema con l'omonimo (e struggente) film con John Travolta e Scarlett Johansson. C’è sempre una ragazzina da salvaguardare e da proteggere, chissà forse c’è qualcosa di autobiografico nascosto in questo frangente, e c’è ancora una luce che ha la forma della redenzione in fondo alla storia e dentro la scrittura e c’è un legame, quello tra Rose e Anthony che travalica e in qualche modo salva il rapporto tra il mondo adulto e quello dell’infanzia. La storia emerge attravers la lettura del diario di Rose: cresciuta in una famiglia sempre prossima alla disgregrazione, trova un approdo sicuro in Anthony, sognatore dall’ispirazione vacante che la introduce al mondo dell’arte, della cultura, del pensiero. Un incontro fortunato che le permetterà di crescere una sua indispensabile autonomia. R.E. Capps, non senza una certa grazia, per Rose s’inventa una voce grezza, a tratti persino sincopata che la guida e la conduce a un rapido processo di trasformazione in cui la lettura e la scrittura hanno un ruolo fondamentale. L’inizio e la fine del suo “libro” sono davvero emblematici della metamorfosi. Dice infatti nel primissimo paragrafo, che già nel simbolico titolo (Una cosa che vi voglio spiegare) mette in chiaro il patto tra chi scrive e chi legge: “Se un giorno qualcuno leggerà questa cosa, non si tratta di un libro o che so. E’ solo che mi sono messa a scrivere e poi ho continuato a farlo. Mi piace e basta. Chissà, forse quando ho finito butto via tutto. Adesso ancora non lo so”. La bambina incerta, titubante e spaesata dalla mancanza di punti di riferimento (sulla madre è meglio stendere un velo pietoso anche perché R. E. Capps sa dove pescare i personaggi più disadattati) trova attraverso gli stimoli artistici e umani di Anthony, un loser che poteva far parte della compagnia di Bobby Long, un modo per affrontare la vita in tutto il suo grigiore di fatiche, separazioni e dolore e forse anche una soluzione quasi filosofica, in fondo, posta in chiusura a Il libro di Rose. Una postilla che è eloquente: “Ho l'impressione, prima di tutto, che noi non esistiamo realmente. Voglio dire, penso di essere solo parte di una forza non meglio identificata, come l’elettrictà o qualcosa del genere, mentre un qualcosa là fuori sembra muovere i fili di tutto. Voglio dire, contrariamente a quello che mi è stato detto, sono un soggetto passivo e non attivo. E quelle che chiamiamo cose in realtà non esistono. Non ci sono davvero automobili o scarpe o case o persone o cammelli o altro. Solo illusioni, pura invenzione. E quello che credo di vedere è solo un inganno creato dai miei sensi. Non esisto davvero, e quindi non posso vivere o morire. E l’unica cosa che siamo sicuri esista davvero è il pensiero”. Un bella storia che, per quanto semplice e lineare, per certi versi è persino coraggiosa.