domenica 21 agosto 2011

Lou Reed

In estrema sintesi l’immaginario di Lou Reed condivide le coordinate geografiche e umane di Hubert Selby Jr. e la raffinatezza stilistica di Delmore Schwartz, suo maestro. Una scrittura affilata dai sensi e indivisibile dalla colonna sonora acida, torrenziale e tormentata della sua vita. Il minimalismo sonoro, la cruda e primordiale (per non dire tribale) essenza del rock’n’roll, è il tessuto tellurico da cui si sviluppano i vertici della sua scrittura. Dall’irriverente cornice famigliare di Sweet Jane al racconto tenebroso di The Gift una short story degna di Edgar Allan Poe all’istantanea metropolitana di Dirty Blvd. fino alle elegie di Magic & Loss, lo stile di Lou Reed è flessibile e plasmabile a seconda delle evenienze, delle situazioni, dei personaggi e delle storie. Lo spettro di soluzioni e di ipotesi che attraversa il linguaggio di Lou Reed nella forma delle canzoni mette in risalto un fotografo più che un scrittore, capace di cogliere il senso del fuoco e del calore ancora prima delle dimensioni e in fondo dello stesso significato delle parole. “Ho sempre creduto di aver qualcosa di importante da dire. E l’ho detto” ha ribadito ad ogni occasione e senza esitazioni, ed è per questo che Lou Reed è l’anfitrione dei bassifondi, il principe dell’oscurità che ha conosciuto gli effetti della luce: radunate in un solo, massiccio volume le sue liriche somigliano ad un romanzo per frammenti, forse tra i più importanti della seconda metà del ventesimo secolo. Qui c’è il rischio di ripetersi dicendo che nessuno come lui ha raccontato, cantato e suonato le incertezze dell’animo umano, la street life di New York, gli incubi, le paranoie e la decadenza delle metropoli. Forse solo William Burroughs ha offerto un vocabolario tanto crudo, tagliente, mai autoindulgente e non è un caso che Lou Reed ne sia un grande ammiratore. Entrambi possono ambire al titolo di Testimone della vita, così come si è descritto Lou Reed nell’omonima canzone: “Storicamente indifeso me ne sto senza entrare, osservo da lontano, col cuore che rapido si scioglie e si dilegua, consunto eppure lontano, io sono un testimone per l’eternità, nuo che assaggia non uno che beve, per sempre, un testimone della vita, storicamente passivo sto in attesa, eternamente in osservazione, con cuore palpitante, in attesa di un messaggio o di qualche altro segnale, un bacio uno schiaffo che mia dia una reazione, un testimone della vita”. Ho camminato con il fuoco fa riscoprire la poetica di Lou Reed anche in episodi minori o secondari con la stessa dignità che dedica ai classici e alle sue canzoni più famose. Splendido nella sua natura pop, nel senso più artistico del termine e comprensivo di un ennesimo omaggio a Andy Warhol: le canzoni nella versione originale, in inglese, sono deformate, stampate di traverso, sottolineate, scarabocchiate, macchiate come se Ho camminato con il fuoco fosse un work in progress, una rappresentazione di un songwriting, quello  di Lou Reed, che è un grande romanzo americano.

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