domenica 10 luglio 2011

Washington Irving

C’era una volta New York è il risultato di un intreccio di vite, un quadro di Mondrian le cui perpendicolari e parallele sono tracciate dalle gesta di governatori e condottieri che rispondono al nome di Peter Stuyvesant, Wouter Van Twiller, William Kieft. Protagonisti in una città che era ancora un isola, fondatori di una nazione dentro la nazione, eppure anche le loro apparizioni sul territorio magnetico di New York sarebbero rimaste fugaci e  imponderabili perché come scrive Washington Irving “per quanto possiamo avere grande opinione di noi stessi, e per quanto possiamo suscitare il vuoto plauso della massa, è certo che anche i migliori tra noi non riempiono in realtà che uno spazio minuscolo nel mondo, ed è ugualmente certo che anche quel piccolo spazio viene rapidamente occupato di nuovo non appena lo lasciamo vacante”. Se non fosse per lo storico che si ispira a Senofonte, Sallustio, Tucidide, Tacito e Livio l’oblìo avrebbe avuto la meglio e non a caso la stesura di Washington Irving è ridondante: un florilegio di arabeschi e di speculazioni filosofiche trascinato  da una scrittura che ha il suono degli zoccoli dei cavalli sui ciottoli della Bowery. Un andamento insieme maestoso e ruspante con il tono del vociare della street life che offre un’articolazione alla storia eccessiva e fuorviante e non di meno fedele allo spirito dei tempi e dell’opera stessa. Anche lo stratagemma studiato da Washington Irving per la genesi di C’era una volta New York appartiene alle dimensioni caotiche della città: un manoscritto abbandonato in un albergo viene pubblicato giusto per ripianare i debiti di un ospite ormai fuggitivo. Non unico e non ultimo: anche nella prosa lussureggiante di Washington Irving gli elementi conflittuali di una città che è stata un avamposto (e un’avanguardia) vengono riportati nell’insieme ed evidenziati angolo dopo angolo. Sono le discendenze di New Amsterdam, le origini di Battery Park, le radici del nome di Manhattan gli highlights della ricostruzione “mitica” di Washington Irving dove New York diventa una terra di frontiera a cui lo storico alias il narratore, conferisce, non senza una certa furbizia, “un’antichità che risaliva fino alle regioni del dubbio e della favola”. La lezione di C’era una volta New York vale proprio per l’intenzione estrema che sembra coinvolto e assorbito soltanto soltanto dall’oggetto del desiderio metropolitano, ma è certo e convinto che tutti i miti hanno bisogno di essere raccontati per esistere. New York compresa perché “le città di per sé, e in effetti gli imperi di per sé, non sono nulla senza uno storico. E’ il narratore paziente che registra con gioia la loro prosperità quando nascono, che divulga ed elogia lo splendore del loro sommo apice, che puntella i loro pericolanti monumenti commemorativi quando si avviano verso la decadenza, che rimette insieme i loro frammenti sparsi quando marciscono, e che devono raccoglie infine le loro ceneri nel mausoleo della sua opera e innalza un trionfale monumento, è costui che trasmette la loro fama alla posterità”. Esagerato.

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