lunedì 4 luglio 2011

Don DeLillo

In anni di guerre lontane e senza fine, Elster ha elaborato teorie e speculazioni per il Pentagono perché “la guerra crea un mondo chiuso, e non soltanto per quelli che combattono, ma anche per quelli che tramano, gli strateghi. Solo che la loro guerra è fatta di acronimi, proiezioni, contingenze, metodologie”. Il suo lavoro è stato sviluppare una filosofia per creare modelli utili al pensiero militare, tra estrapolazioni metafisiche e haiku estemporanei. Jim Finley vuole filmarlo, una sola inquadratura, come una testimonianza, ispirato da 24 Hour Psycho, una videoistallazione di Douglas Gordon in cui il film di Alfred Hitchcock è stato rallentato per durare un giorno intero. L’idea è provare che “ci vuole un’attenzione estrema per vedere cosa succede davanti a te. Ci vuole impegno, pio sforzo, per vedere cosa stai guardando”, ma Elster è sfuggente e svanisce nelle strade di New York. L’incontro avviene soltanto nel deserto californiano, dove si è ritirato, perché “le città sono state costruite per misurare il tempo, per togliere il tempo dalla natura”. Portandosi dietro il suo bagaglio di delusioni e di rimpianti, Jim lo raggiunge e nella notte americana i due si cucinano frittate, bevono, fissano il cielo e parlano anche se entrambi sanno “la vita vera non si può ridurre a parole dette o scritte, nessuno può farlo, mai. La vita vera si svolge quando siamo soli, quando pensiamo, percepiamo, persi nei ricordi, trasognati eppure presenti a noi stessi, gli istanti submicroscopici”. L’arrivo, e poi la repentina e irrisolta scomparsa della figlia di Elster, Jessie, scardina per sempre il fragile equilibrio e Don DeLillo, dentro una cornice e una situazione che ricorda moltissimo le prospettive di Sam Shepard, si muove con le conoscenze di uno scienziato e la cautela di un chirurgo: sa che nei rapporti e nei dialoghi dell’umana realtà “quando hai strappato via tutte le superfici, quando guardi sotto, ciò che resta è il terrore. E’ questo che la letteratura vuole curare”. Punto omega è un taglio chirurgico che pulisce, ma non cura la ferita della percezione che resta pur sempre “un momento, un pensiero, che arriva e scompare, ognuno di noi, su una strada in un posto qualsiasi, e questo è tutto quanto”, e niente di più. In bilico tra un mondo digitale e il deserto preistorico, tra il rumore di fondo e il silenzio totale, tra una visione rallentata per la volontà di un artista e l’osservazione immobile imposta dalla natura, il Punto omega è un bivio desertico e notturno tra “il tempo che si sgretola” e “la coscienza che si accumula”: un luogo più immaginario che concreto, più naturale che costruito in cui Elster può rivelare a Jim l’esattezza della sua filosofia: “Abbiamo bisogno di sapere cose che gli altri non sanno. E’ quello che nessuno sa di te che ti permette di conoscerti”. Il limite del romanzo è implicito nella sua forma, nella prosa: per dire che che la realtà è l’alfa non l’omega, come ha fatto Wallace Stevens, serve la poesia e quello è un estremo a cui Don DeLillo non è ancora arrivato. 

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