lunedì 27 giugno 2011

Neil Smith

Billy Lafitte, il protagonista di Yellow Medicine, è uno vicesceriffo con una percezione piuttosto vaga della linea di demarcazione della legalità. In quelle condizioni un posto vale l’altro anche se ben presto scopre che una smalltown del Midwest ha tutti i suoi segreti e i suoi dark places che ben si adattano alle regole che s’inventa per delimitare il suo territorio di caccia. “Ero in esilio dal mondo reale” dice all’inizio di Yellow Medicine per chiarire la sua condizione esistenziale e nel passaggio che l’ha portato dal Mississippi sconvolto dagli uragani al piatto e monotono Minnesota qualcosa si è perso, è rimasto lontano o nascosto per sempre nelle pieghe della tempesta: la moglie (da cui è separato), i figli, uno o due cadaveri segnano il suo passato e il nuovo paesaggio non lo aiuta certo a ritrovarli e a ritrovarsi. Anzi, è un elemento disorientate perché “certe volte il Minnesota poteva essere sconvolgente, nelle sue bellezze naturali, ma un istante dopo ti ritrovavi a chiederti se non fosse stata soltanto una crudele illusione ottica. Avevo sentito dire che bastava spingersi verso nord per trovare diecimila laghi e foreste e una natura selvaggia che ti mozza il respiro. Il guaio era che la parte meridionale dello stato sembrava dovessero ancora completarla”. Si tratta di luoghi gelosi della propria indipendenza, compresa quella di elaborarsi le loro metanfetamine, come già in un’altra era venivano raffinati whiskey da combattimento, e dove il melting pot americano si è fermato tra le ruvide origini scandinave dei pionieri e l’ostica (e mai del tutto domata) resistenza sioux. Questo è l’humus in cui il moderno e globale capitalismo fa irruzione a Yellow Medicine con una miscela proibitiva di ambizioni strategiche sul mercato della droga destinate a finanziare operazioni terroristiche su larga scala. Figurarsi come Billy Lafitte, uno abituato al massimo a studenti ubriachi o a mariti che hanno perso la via di casa, può affrontare una formazione con ramificazioni arabe e orientali e un’organizzazione militare e micidiale. I suoi modi operativi sono molto distanti dalla normale routine dell’ufficio dello sceriffo ed è lui stesso ad ammetterlo: “Lo so, cosa state pensando. Che sono un figlio di puttana. Un autentico stronzo. L’unica mia risposta è che non obbligo nessuno a fare qualcosa che non desidera. Sono pronto a rischiare l’osso del collo ventiquattr’ore al giorno, per proteggere i miei concittadini, quindi se mi capita di andare ben oltre il mio dovere per dare una mano a una ragazza in difficoltà, il modo in cui lei decide di mostrarmi la sua gratitudine non è affar mio”. Billy è fatto così, inutile negarlo, e non è l’eroe di Yellow Medicine, il cavaliere senza macchia e senza paura (anzi), ma come un folle deus ex machina risolve la storia a modo suo. Neil Smith non concede nulla: il ritmo è denso, duro e feroce e Yellow Medicine è azione e reazione allo stato puro, crudo e genuino come un grande film di serie b, che in fondo sarebbe il suo giusto destino.

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