venerdì 24 giugno 2011

Charles Bukowski

Il Bukowski che lotta nel Post Office è ancora il principe delle contraddizioni che prova a integrarsi in un mondo che, in tutta evidenza, non è e non sarà mai il suo. “Cominciò per sbaglio” come recita il memorabile incipit di Post Office, ma almeno all’inizio il lavoro non è male: “c’era tempo per starsene un po’ al bar, per leggere i giornali, per sentirsi umani”, ed è già qualcosa. Lo stesso John Prine, per raccontare un’esperienza molto simile al Post Office bukowskiano, trovò il modo e il tempo di avviarsi verso quella splendida carriera di songwriter che ben conosciamo. Il problema è che “non si può imparare più di tanto” da un lavoro che si ripete e nemmeno da un capo portato al delirio d’onnipotenza (sono tutti uguali) anche perché “ non è vero che ci si abitua, si è sempre più stanchi, semplicemente”. Le condizioni di lavoro sono faticose, in qualche caso umilianti, il più delle volte soltanto monotone e frustranti. Tirare avanti è il minimo sindacale. Trovarci un significato che possa avere un senso e durare qualcosa in più di un stagione, è già un altro discorso. Per Chinaski alias Bukowski, ci vuole qualcosa in più del tran tran di un Post Office, essendo uno capace di trovarsi un sacco di impegni, lavoro escluso: le corse dei cavalli, bere e scopare non sono solo le voci in cima alla sua personale classifica delle priorità vitali. Sembrano delimitare, insieme all’indimenticabile carrellata di personaggi femminili (Betty, Joyce, Vi, May Lou e Fay) una linea difensiva, un modo per proteggere una zona vitale intoccabile e impenetrabile, tutta ed esclusivamente sua. Gli servirà tutta una vita per esprimere fino in fondo la speciale natura del suo mondo. Il percorso verso la scrittura non è semplice (non lo è mai, in effetti), ma per Bukowski alias Chinaski trascrivere le sue esperienze quotidiane e incontrarsi sulle pagine è qualcosa di molto simile a una rivelazione. Quello che nasce come un diario blue collar, con molta passione e senza tanti fronzoli, si trasforma via via mentre ribadisce l’essenza delle sue indispensabili necessità, in un manifesto degli outsider, come dice alla girlfriend del momento: “Senti, tesoro, mi dispiace, ma non so se ti rendi conto che questo lavoro mi manda ai matti. Senti, lasciamo perdere, eh? Facciamo come prima, eh? Niente lavoro, l’amore tutto il giorno, qualche passeggiata, chiacchieriamo un po’. Andiamo allo zoo. A guardare gli animali. Andiamo alla spiaggia a guardare l’oceano. Ci vogliono solo 45 minuti. Andiamo al luna park. Andiamo alle corse, al museo, agli incontri di boxe. Facciamoci qualche amico. Ridiamo. Questa vita è monotona, come quella di tutti gli altri: ci sta uccidendo”. Post Office non è solo il cahier de doléances di un loser dall’inguaribile vena polemica, che si cimenta con passione e abilità soltanto in poche attività (non certo edificanti, almeno secondo i luoghi comuni): è l’addio definitivo ai tentativi di rientrare nei ranghi e insieme un sano sberleffo alla maggioranza silenziosa. 

2 commenti:

  1. Ciao, complimenti per il blog! Ho letto anche quello che hai scritto riguardo a Cheever, e mi sto chiedendo quanto il vecchio Hank non abbia preso anche da lui. C'è qualche saggio in cui si può trovare questo confronto, che tu sappia?

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  2. Non che io sappia, anche perché tra i due mi pare ci sia una bella distanza, anche se hanno molto in comune. Grazie mille per i complimenti.

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