venerdì 20 maggio 2011

Stephen King

L’arrivo dell’apocalisse secondo Stephen King viene attraverso un virus letale, un’influenza che non lascia scampo, e riduce l’America come a “un’enorme scatola di latta buttata via, sul cui fondo rotolassero solo alcuni piselli dimenticati”. In un paesaggio piombato in un’era primitiva, desertica e disperata si muove la consueta folla di personaggi manovrata dall’abilità di Stephen King che a ognuno di loro riesce ad attribuire una storia ben precisa. Basta prendere Larry Underwood, songwriter che al momento del disastro stava vivendo ben altri tormenti nella sua vita e nella sua carriera che Stephen King descrive così: “La sua mente ricominciò ad andare alla deriva, rimuginando gli avvenimenti delle nove settimane o giù di lì, ancora cercando di trovare una specie di chiave capace di chiarire tutto quanto e di spiegare come fosse possibile che uno sbattesse contro un muro di pietra per sei lunghi anni, suonando nei locali notturni, incidendo nastri di prova, esibendosi dove capitava, tutto questo insomma, e poi di colpo sfondasse, nel giro di nove settimane. Tentare di vederci chiaro era come cercare di inghiottire una maniglia. Ci doveva essere una risposta, pensò, una spiegazione che gli permettesse di respingere l’idea orribile che tutta la faccenda fosse stata un capriccio, un semplice scherzo del destino, per dirla con Bob Dylan”. Dylan, non a caso con Shelter From The Storm, è citato nelle epigrafi introduttive di L’ombra dello scorpione con Bruce Springsteen (una bellissima citazione del finale di Jungleland) e dei Blue Oyster Cult (la classica Don’t Fear The Reaper) e con le citazioni, tra gli altri, di Paul Simon e Chuck Berry: è un’apocalisse impregnata di rock’n’roll dall’inizio alla fine, perché proprio a partire dalla musica e dalle canzoni Stephen King, bisogna ricordare che siamo nel 1978, spiega che “tante cose erano cambiate, tante cose erano fuori posto”. L’aspetto rivelatorio del romanzo va cercato, oltre che nelle odissee dei singoli protagonisti, anche e soprattutto nella sostanza della sua trama. Quando “il peggio è accaduto. Almeno, nei libri, quando succede è finita, qualcosa almeno cambia”, come scrive Stephen King. In L’ombra dello scorpione non basta l’apocalittico sterminio (con contorno di malefiche e metafisiche figure) a far ritrovare uno spirito comune e condiviso ai sopravvissuti che invece, andando a pescare negli infiniti arsenali dell’esercito americano pensano bene di darsi battaglia. Fin qui, e siamo già alle battute finali, L’ombra dello scorpione è fedele alla natura folle e suicida del genere umano (il vero virus che sta devastando un intero pianeta) poi Stephen King fa intervenire uno dei suoi prediletti outsider, Pattumiera, un ragazzino cresciuto tra i rifiuti, a cui l’apocalisse ha consegnato le chiavi per soddisfare le sue spiccate tendenze piromani. E’ uno sgangherato deus ex machina che risolve L’ombra dello scorpione con un accecante bagliore e qui, almeno, “la verità si limita a un sorriso”, ma la visione di Stephen King è lucida e potente, anzi: biblica.  

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