lunedì 4 aprile 2011

Mark Twain

La verve di Mark Twain è indiscutibile: non c’è narratore che abbia saputo trasmettere così tanto, usando la scrittura con lo stesso piglio di chi maneggia una frusta. Le sue radici sono rimaste inalterate inalterate in un’istintività primordiale (pur nella consapevolezza che “abbiamo perso in stupore quello che abbiamo guadagnato in conoscenza”) e nel gusto certosino per l’applicazione ai particolari perché, come scriveva lo stesso Mark Twain, “nella vera bellezza, conta soprattutto la giusta collocazione e la distribuzione sapiente dei dettagli più che la loro molteplicità”, e qui, a tenere insieme tutto conta soprattutto l’ironia. Frutto della profondità, della conoscenza della cultura popolare e popolana, l’ironia di Mark Twain è eletta a forma di filosofia che comprende e diffonde un po’ tutte le materie e gli argomenti della conoscenza umana. Un maestro di stile che se la spassa, lezione dopo lezione. Lo scandaglio di questa agile e sintetica antologia passa attraverso spicciole lezioni di scrittura creativa (sempre utili quando bisogna prendere una decisione, per esempio: “Per quanto riguarda l’aggettivo: nell’incertezza, cancellalo”) e lapidarie annotazioni sullo “stato delle cose” che suonano attualissime, ancora oggi, soprattutto quando riguardano la gestione del potere. “La necessità non conosce legge” sentenzia con un aforisma ambivalente che si sposa in modo automatico con la convinzione che “le abitudini dei popoli sono determinate dalle circostanze”. Per completare il trittico che da solo può spiegare la “politica” nei secoli dei secoli va aggiunta la definizione, perfetta, di audience di cui Mark Twain, già due secoli fa, diceva: “So tutto sull’audience. Credono a tutto quello che si dice, eccetto quando si dice la verità”. Si può manovrare in libertà in questo arcobaleno di brevi frasi, sempre pertinenti e pungenti, perché Mark Twain non si risparmia e non concede nulla al suo avversario ideale, che è poi la solita, noiosa maggioranza benpensante, senza rispetto o falsi timori né per l’ordine costituito né per la patria nascosta dietro la stars’n’stripes tanto che si permette di scrivere: “Scoprire l’America è stata una cosa fantastica, ma sarebbe stato ancora più fantastico non scoprirla”. La sua è l’espressione irriverente di un uomo e uno scrittore che si è coltivato la propria libertà a colpi di frasi caustiche, spietato anche come critico, visto il trattamento sprezzante riservato, tra i tanti, a Jane Austen: “Anche i libri di Jane Austen mancano nella mia libreria. Questa semplice omissione già di per sé farebbe di una biblioteca senza nessun libro una buona biblioteca”. Condividendo il parere, il ghigno finale è inevitabile e destinato a scatenare una reazione a catena perché “la risata che non può essere soppressa è contagiosa. Prima o poi sbaraglia le nostre difese, mette in crisi la nostra dignità e ci associamo, vergognosi della nostra debolezza e scocciati per la motivazione, ma è inevitabile, dobbiamo ridere”. Unico.

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