giovedì 7 aprile 2011

Kaye Gibbons

Ellen Foster è una ragazzina giovanissima a cui gli eventi della vita hanno messo in bocca un linguaggio duro, semplice e diretto e una visione complessiva della sua esistenza che definire realistica suona un po’ troppo semplice. Un padre violento e alcolizzato, la madre che gli muore nello stesso letto, un peregrinare (drammatico) da un tribunale a una famiglia adottiva, dalle nonne alla vita scolastica che non sempre è il posto migliore per crescere e dare un senso alla propria esistenza. Tutto ciò potrebbe far pensare a un lungo e triste grido di dolore, contornato dal caratteristico paesaggio southern, ma Kaye Gibbons non si ferma alla prima emozione e offre alla sua Ellen Foster la possibilità di rispondere, volta per volta, a tutte le avversità. Così, le inventa un suo personale linguaggio, ritmatissimo e scattante, quasi fosse un ragtime o un sincopatissimo blues e, attraverso questo, una via d’uscita, una sorta di libertà che si mostra attraverso i sogni, le idee, la difesa della propria, naturale innocenza. Il tema ricorrente è questo ed è proprio nella sua ripetitività l’unico neo: piuttosto che allargare l’inquadratura su Ellen Foster, Kaye Gibbons ha preferito ribadire, puntualizzare, ridefinire le cause delle sue reazioni, del suo crescere. Logica che viene ben espressa dalla stessa voce di Ellen Foster: “Sapete, se ci si racconta per un bel po’ di volte sempre la stessa storia, alla fine i racconti diventano storie diverse, e di solito ci si può illudere e dimenticare che si è iniziato con un’unica stagione solitaria di tutta una vita”. Con il succedersi delle versioni, il narrare di Kaye Gibbons passa attraverso un fluire ben più tagliente e spigoloso di Un rimedio per i sogni e L’amuleto della felicità, successivi a Ellen Foster. Ciò non vuol dire assolutamente che Ellen Foster sia un romanzo trascurabile (specie per chi ha una predilizione nei confronti delle scrittrici e scrittori sudisti come Walker Percy, William Faulkner, Flannery O’Connor e Eudora Welty) ma che va inquadrato nell’insieme del lavoro con cui Kaye Gibbons si è affermata come una delle principali narratrici americane contemporanee. All’epoca di Ellen Foster stava ancora cercando una sua voce e, dovendo trovarla per la protagonita del suo esordio, riuscì a scovarla nelle pieghe di una resistenza (prima femminile e poi umana) a tratti persino epica. Poi, oltre quest’urgenza espressiva e linguistica, ha trovato anche un vocabolario, più di una raffinatezza e un’attenzione molto dettagliata ai paesaggi, alle storie e ai dialoghi dei suoi personaggi. E’ diventata brava, e sarebbe anche ore che diventasse famosa e riconosciuta perché a differenza di tante colleghe e di molti mestieranti ha davvero colto l’essenza del raccontare, quell’arte con cui la vita di Ellen Foster e quella di tutti noi acquista un senso e una logica. Nella memoria, che non è un polveroso archivio di ricordi, ma il magazzino di motivi da cui escono gli amuleti e gli strumenti e le parole per non dimenticare un’altra volta, per ribellarsi, per vivere.

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