giovedì 28 aprile 2011

James Sallis

I cecchini hanno avuto un ruolo non relativo nella storia degli Stati Uniti. Da JFK a Martin Luther King, ogni rivoluzione finisce nel centro di un mirino lasciando il sospetto che toccare lo status quo sia un peccato mortale, nel vero senso della parola. Succede qualcosa di molto simile anche nella vita di Lew Griffin, il personaggio di James Sallis che abbiamo imparato a conoscere per le sue proverbiali capacità di finire quasi per inerzia nei meandri più oscuri dell’esistenza. Sono gli anni del movimento dei diritti civili e uno di quegli sniper destinati ad influenzare il corso degli eventi sceglie i suoi bersagli tra le vie di New Orleans. Neanche a dirlo, colpisce gli afroamericani e sembra essere imprendibile. Ovvero, qualcuno lo protegge, lo nasconde e lo difende. Una sera colpisce una giornalista che sta indagando sui suoi omicidi ma, vuole il caso (o come scrive James Sallis: “Ci mettiamo un po’ di tempo a capire che le nostre vite non hanno trama”) che proprio in quel momento al suo fianco c'è Lew Griffin, che se la vede spirare tra le braccia. Il calabrone nero diventa così una partita a due, fino a quando non irrompe sulla scena anche Don Walsh (a lui il cecchino ha ammazzato un fratello). La caccia all'uomo, sui tetti e nei vicoli di un’ombrosa New Orleans comincia da un presupposto che è più filosofico che poliziesco: “Non siamo mai invisibili come crediamo. E neanche ciò che ci muove lo è”. Con questo assunto, Lew Griffin si ritroverà persino nel bel mezzo di una rivolta, dove per la prima volta, il suo intervento farà fallire il cecchino inaugurando così la fase finale della sua esistenza. Come già successo negli altri episodi della saga di Lew Griffin (in tutto sono sei i romanzi che lo vedono protagonista e vanno segnalati, oltre al Calabrone nero, almeno La mosca dalle gambe lunghe La falena), gli aspetti noir del romanzo sono soltanto il tessuto su cui James Sallis ricama le sue prospettive sulla città, sui rapporti tra uomini e donne, e sulla vita in generale. Essendo poi il cecchino una variabile piuttosto incontrollabile, Il calabrone nero (che, detto per inciso, è il libro più immediato, diretto e forte di tutta la serie) sembra perfetto per raccontare l'insostenibile incertezza dell'esistenza: “Qualcuno ha detto, una volta, che la vita non è altro che congiunzioni, un accidente di cosa dopo l'altra. Ma gran parte della vita è disconnessa. Sei lì che te ne vai tranquillo, becchi in pieno una buca e finisci in un'altra vita, che neanche sai riconoscere. Ogni giorno ti muovi in dieci direzioni diverse, ti trasformi in dieci persone diverse; di queste, alcune riescono a tornare a casa la sera, altre no”. La filosofia di James Sallis, molto pratica e pertinente, regge sempre, anche sulla distanza perché accompagnata da una scrittura secca, immediatata, persino ruvida in alcuni passaggi, ma intonata alla perfezione con i personaggi, con i paesaggi e con le dimensioni storiche e sociali che non manca di affrontare. Consigliatissimo.

mercoledì 27 aprile 2011

Jack Ritchie

A prima vista, le brevissime short stories di Jack Ritchie, narratore geniale e per molti versi sottovalutato, sembrano compiti perfettamente riusciti di un corso di scrittura creativa. Prendete l’incipit di Fate il vostro gioco, una delle tessere di Il caro prezzo della privacy: “Harry O’Connor mi raggiunse in ufficio poco dopo le cinque del mattino, e gli affidai il locale”. C’è già tutto quello che serve, come l'attacco di una bella canzone: lo sviluppo è poi una conseguenza e se la scrittura e le argomentazioni di Jack Ritchie sembrano elementari è perché, bisogna ripeterlo spesso, la semplicità è eleganza. Lui ne ha fatta una ragione di vita, puntando sull’essenzialità, neanche fosse una scelta di vita: “Non c’è romanzo che non si possa migliorare trasformandolo in un racconto breve: nelle mie mani, I miserabili sarebbe diventato un pamphlet”, amava ripetere e gli esempi, in Il caro prezzo della privacy si sprecano. Anche perché l'arte della short story è espressa al meglio, con racconti, sì, brevissimi ma in cui vengono condensate molte delle magie della narrativa. Non manca mai qualche elemento noir o una sfumatura di mistero e c'è, costante, una nota di ironia che rende appetibili anche i monotoni paesaggi suburbani americani, dove si svolgono gran parte delle storie. Senza trucchi, perché tra le righe di Il caro prezzo della privacy, così come delle precedenti raccolte, Jack Ritchie semplifica la scrittura, scavando fino al midollo di racconti che durano cinque o sei pagine, ma che vanno dritti al bersaglio. Come dice uno dei personaggi di Fate il vostro gioco: “Sono a posto. Niente perni, piombo o ferro. Niente pendenze, inclinazioni o buchi. Un po’ meno attrito e otterreste il moto perpetuo”. Come dire, le storie di Jack Ritchie scorrono veloci e felicemente in quell’attimo che va dalla scrittora alla stampa alla lettura, che in questo caso è un vero e proprio piacere. La rapidità con cui Jack Ritchie riesce a delineare una situazione, un momento, un passaggio è sorprendente, per quanto fragile e leggera: siamo nel campo di bozzetti, di schizzi svolti con arguzia e istinto, con un sapore frizzante molto pop che con ogni probabilità non resisterebbe un altro secondo in condizioni più impegnative in termini di costruzione e/o destinazione. Del resto, per Jack Ritchie la stessa forma è l’essenza e viceversa, visto che la velocità con cui si macina Il caro prezzo della privacy è una parte non indifferente del divertimento che, a dir la verità, non capita molto spesso. Vanno presi per quello che sono: racconti che si sgranocchiano uno dopo l’altro e, nel caso (non improbabile) vi prendano la mano ce ne sono in abbondanza: con Il caro prezzo della privacy di Jack Ritchie sono disponibili una mezza dozzina di raccolte (tra le altre E' ricca, la sposo e l’ammazzo, Le tasse, la morte e tutto il resto, Un uomo al guinzaglio, Approssimativamente tuo e Un metro quadrato di Texas), tutte godibilissime. Fatevene una scorta, l'estate sarà lunghissima.

Robert Stone

La short story è un mondo ormai raro e trovare narratori in grado di muoversi a loro agio in spazi poco più grandi di una canzone è ancora più difficile. La tradizione americana recente, tra cui George Saunders, Tobias Wolff, T. C. Boyle, vanta anche Orso e sua figlia di Robert Stone. Scrittore che ha frequentato la coda dell'onda lunga della Beat Generation, scegliendo poi formule espressive più complesse e adatte ai tempi (il capolavoro di Porta di Damasco), Robert Stone ha ben chiaro il senso della narrativa sia dalla parte di scrive (“Ho sempre pensato che uno dei vantaggi della fiction (a prescindere dalle sue funzioni più importanti) sia la possibilità di evasione”) sia da quella di chi legge (“Ogni essere possiede una vena di percezione profonda. Il problema è portarla in superficie”): due estremi che si traducono in visioni liriche e durissime, a tratti così spietate e drammatiche da lasciare a disagio il lettore. Anche se i sette racconti di Orso e sua figlia sono eterogenei per ambientazione, hanno in comune la varia umanità di perdenti che li popola. Si va dallo stesso stesso Messico di Malcom Lowry in Porque No Tiene, Porque le Falta alle periferie suburbane di MiserereSenza pietà Aiuto (un racconto che con un paio di tagli appropriati potrebbe essere scambiato per Raymond Carver), dalla wilderness di Orso e sua figlia ai Caraibi di Sotto i Pitons: cambiano i contorni, non l’idea cara a Robert Stone di rappresentare le “miserie umane” che contengono. Gente che guida barche a vela tra scogli e correnti strafatta di cocaina; guardie forestali armate di revolver e imbottite di metedrina; assistenti sociali alcolizzati che si svegliano alla mattina col dito sul grilletto di un Remington calibro dodici e non sanno perché; party girls & broken poets, come direbbe Elliott Murphy che credono di essere in guerra perché, come dice uno di loro “ci sono momenti in cui penso che non sarò abbastanza morto, o morto da abbastanza tempo, per togliermi dalla bocca il gusto di questa vita”. Orso e sua figlia è però anche l’occasione di parlare ancora di Porta di Damasco, un magnifico libro che sull'endemico conflitto tra arabi e israeliani spiega più di tutta la CNN e i giornali di questo mondo messi insieme. Certo, non è una short story, ma tra CIA, fanatici di tutte le religioni, discussioni filosofiche, complotti, agenti segreti nei cunicoli di Gerusalemme, Porta di Damasco, rappresenta al meglio la percezione di Robert Stone, che così scrive: “Forse era lì che il mondo si divideva tra la razza di coloro in qualche modo responsabili e quella dei non responsabili. Era una divisione che, personalmente, gli riusciva difficile tracciare. Ma attorno a essa ruotava un perduto universo di vergogna. Ognuno era destinato a scrutare per sempre in quell'oscurità quanto più profondamente avrebbe potuto o osato. Tutti volevano una risposta, una guida per gli sconcertati. Tutti volevano che morte e sofferenza avessero un senso”. Vale anche per Orso e sua figlia

martedì 26 aprile 2011

Delmore Schwartz

Ricostruendo nei dettagli dei suoi racconti la vita della borghesia di New York, Delmore Schwartz ricostruisce il profilo ideale di un “uomo contemporaneo soggetto ai profondi disordini e ai conflitti della vita moderna”. I piccoli contrattempi della vita secondo Delmore Schwartz sono epifanie improvvise e perentorie (“E così, per la prima volta, si rese conto di quanto stretto fosse il legame che lo univa a quella gente. Il suo distacco era un fatto, certo, e tuttavia esisteva anche un'unità infrangibile. Come l’aria era piena delle invisibili voci della radio, così la vita che respirava era piena di quelle vite e degli anni in cui avevano agito e sofferto”) o intense riflessioni crepuscolari (“Nessuno di noi preferirebbe che la vita cessasse con l’infanzia o la fanciullezza, nessuno preferirebbe non aver vissuto tutti gli anni che ha vissuto. E se questo è vero del passato, è probabile che sia vero anche del futuro”). E’ tra questi estremi che la scrittura diventa una zona protetta, forse l’unico spazio con margini di sicurezza verso la realtà: “Il silenzio del foglio bianco è il mio luogo eterno. Non c’è altro per me. Tutto il resto esiste per il piacere di questa attività. Quando non riesco a scrivere versi, quando in testa non ho che vuoto, allora nient’altro vale. Quando, d’altro canto, un’accecante eccitazione m’offusca la mente allora addio felicità perché in tal caso ogni fatica, speranza, illusione, tutto mi ritrovo sulle spalle, seduto qui in questa mia solitudine, circondato dal silenzio che è come la notte prima della creazione del mondo”. Tra i suoi allievi, alla Siracuse University, Delmore Schwartz ebbe Lou Reed che racconta così il suo illustre e tormentato insegnante: “All’epoca studiavo con Delmore Schwartz. Lui odiava ogni genere di musica in cui ci fossero le parole. Pensava fosse tutta merda. Ecco, non direi mai che lui fosse il tipo di persona in grado di capire il genere di musica che mi interessava, ma aveva posto una questione rilevante. Considero Nei sogni cominciano le responsabilità uno dei migliori racconti di tutti i tempi. Linguaggio semplice, cinque pagine, la cosa più sconvolgente che ho letto fino a oggi. E’ una roba incredibile. Pensa, riuscire a scrivere una cosa del genere ma con un linguaggio semplice, accessibile a tutti. Ti manda fuori di testa. Una bomba”. Lo si può provare di persona leggendo i racconti di Il mondo è un matrimonio. Per inoltrarsi nelle pagine di Delmore Schwartz, scrittore e poeta ammiratissimo (Saul Bellow lo scelse come protagonista de Il dono di Humboldt), ma anche votato all’autodistruzione, è sufficiente l’incipit, un inizio che ha il tono del vero e proprio capolavoro: “In questa nostra vita non ci sono inizi ma solo partenze definite inizi, avvolte nelle formali emozioni ritenute proprie e tuttavia spesso forzate. Oscuramente ogni istante nasce dalla vita che si è vissuta e che non muore, perché ogni avvenimento vive per sempre nella mente assorta, in attesa di rinnovarsi”. Da non perdere.

Chester Himes

Soldi neri & ladri bianchi vede i protagonisti preferiti di Chester Himes, Coffin Ed e Grave Digger, alle prese con un caso particolare e delicato. Qualcuno ha fatto sparire i soldi raccolti da una congregazione nelle strade di Harlem per pagare il viaggio del ritorno in Africa. I due “duri” si trovano così a dover inseguire i rapinatori (bianchi) che hanno derubato i fondi l’agognata traversata verso le radici, ma anche i mistificatori (neri) che su quella storia si sono inventati un gigantesco affare. La valutazione di Chester Himes è implicita e prende forma mentre Coffin Ed e Grave Digger vanno su e giù per le strade di Harlem, tra una battuta e l’altra, diventa evidente che “la vita potrebbe essere fantastica, ma ci sono dei delinquenti in giro” ma anche che rubare la speranza è peggio che far sparire un bottino. Attraverso le gesta di Coffin Ed e Grave Digger, più risoluti che mai, Chester Himes sfoggia tutto il suo sarcasmo e una lingua che prende dalla street life il vocabolario e il gergo, ma insieme mette sul piatto una fedele ricostruzione storica dell’utopia del ritorno in Africa, che da Marcus Garvey a Bob Marley è rimasta senza risposta. In particolare la vicenda di Marcus Garvey e della sua Black Star Line, la compagnia di navigazione che avrebbe fornito i mezzi e le rotte per tornare in Africa, è il tema in sottofondo a Soldi neri & ladri bianchi. Chester Himes non insiste su un riferimento esplicito, però l’accostamento è continuo e il tono senza inibizioni o paure. La cornice che sta attorno a Soldi neri & ladri bianchi è ancora la condizione degli afroamericani che Chester Himes rilegge così nell’intenzione di tornare in Africa: “Non avevano trovato una patria in America. Quindi guardavano all’Africa, di là dal mare, dove altri neri erano sia governati che governanti. Per loro l’Africa era una grande terra libera che avrebbero potuto chiamare orgogliosamente patria, perché là erano sepolte le ossa dei loro avi, là si trovavano le radici delle loro famiglie e là abitavano i discendenti di quei loro stessi avi, e questo li apparentava a loro per sangue e razza. Tutti devono credere in qualcosa, e a loro i bianchi d’America non avevano lasciato niente in cui credere”. A maggior ragione per la condizione femminile perché, come scrive Chester Himes, le donne: “Più di ogni altra cosa volevano sfuggire a una vita grigia; se non riuscivano a far parte della middle class e vivere in una grande casa nei sobborghi, allora volevano partire e tornare in Africa, dove sapevano che sarebbero state importanti”. Per Ed Coffin e Grave Digger non è soltanto una missione per ristabilire la giustizia e la legge (in fondo, sono anche degli sbirri) perché qualche dubbio lo nutrono anche loro. Anche se non si tirano indietro (come dice Grave Digger: “Sarà un bel casino spero solo che serva a qualcosa”) perché non possono star fuori dalla mischia, lasciano con un punto di domanda grosso quanto un continente: “Hai mai visto le navi che avrebbero dovuto riportarvi in Africa?” 

Edward Allen

Edward Allen ha fatto a lungo il macellaio. Ha scritto poesie, come tutti, più o meno. Oggi insegna letteratura a Memphis, città natale del rock’n’roll e in un non lontano passato è rimasto folgorato, tra i tanti, dal gran scrivere di Jack Kerouac. A tratti alcune frasi di Via verso la notte, il suo esordio sulla lunga distanza, dopo aver sperimentato la misura delle short stories, sono una versione così perfetta della prosodia di Sulla strada e dintorni che viene spontaneo pensare dove sia il confine tra emulazione e imitazione. Un esempio, abbastanza lampante: “Mi fermerò per un giorno a Stonington, nel Connecticut, e lì magari mi prenderò una sbronza. Andrò a spasso per tutta la città, senza una meta e niente da fare, forse entrerò in un cinema. Tutt’intorno sarà verde e frondoso, e coperto di spazzatura, ma non sarà brutto, perché quasi tutta la spazzatura sarà assorbita nella dolce terra che schiuderà la sua soffice superficie. Gli automobilisti correran di qua e di là, naturalmente, e penseranno che sono un pazzo o un vagabondo, ma mostrerò la mia patente di guida e quella nautica, e spiegherò che sono un marinaio in libera uscita, e questa sarà la verità”. E’ evidente, o fin troppo palese, che negli elementi basilari dello stile di Edward Allen, Jack Kerouac e compagnia vagante hanno avuto un peso rilevante ma, non di meno, Via verso la notte offre una miscela di umori che è molto più composita: Chuck Deckle, l’antieroe del romanzo che passa di licenziamento in licenziamento, da una macelleria all’altra (magari con qualche riferimento autobiografico che non guasta) appartiene allo stesso mondo dei posti e degli autisti di Charles Bukowski e molte delle scene di lavoro appartengono di diritto all’epica della working class. Questa è la parte più personale perché Edward Allen identifica con precisione “il mondo reale, come doveva essere il lavoro: duro, rumoroso, sporco, ma con qualche piacere, un posto dove si dice sempre buongiorno, anche nei giorni peggiori”. Via verso la notte è caratterizzato proprio dall’alternarsi di momenti di fuga liberatori e di cupe sequenze al taglio e al confezionamento della carne che, tra l’altro, sono anche le parti migliori del romanzo perché permettono a Chuck Deckle di riflettere l’essenza della sua storia, partendo ancora una volta dal luogo in cui si trova: “Tutto il mercato della carne sembrava una frattura nel tempo, che emana aria in antichi rutti di vapore sotto il viale che porta l’iniziale del nulla nella stagione di Halloween, nella saggezza dei secoli, tradotta dai caratteri cuneiformi come segue: il lavoro dovrebbe far male. I giorni sono solchi di terra avvelenata che si devono faticosamente attraversare. Chi non odia il suo lavoro lo fa male. Chi sa sorridere dei propri pensieri è un drogato”. Senza aggiungerci al coro di sproloqui che salutò l’esordio di Edward Allen (era il 1989), e tenendo conto di tutta l’autoindulgenza e di una certa propensione all’iperbole va segnalato un talento ancora da verificare. 

Lenny Bruce

Lenny Bruce è stato l’animale più incontrollabile che l’America abbia mai avuto sulla schiena. Protagonista di un linguaggio apertamente provocatorio e dissacrante, di un’oralità fisica, proporompente e vitalissima, Lenny Bruce è un’alluvione di parole, idee, idiomi e battute. Tutto ciò ha concorso a renderlo una spina nel fianco dei silenzi della magioranza e un orrore per chi dialoga esclusivamente a colpi di proverbi, luoghi comuni e frasi fatte. Una vera e propria forza della natura con pochi eguali (e molti imitatori) che ha estrapolato la potenza della comunicazione verbale in monologhi (tour de force fisici ancora prima che intellettuali) che hanno messo alla gogna quell’american way of life così ambiguo e intollerante. Sperimentato in prima persona, tanto è vero che più di un sospiro di sollievo si levò quando Lenny Bruce tolse il disturbo (agosto 1966, overdose di eroina) lasciando una biografia che parla da sola. Non è difficile trovarlo impigliato tra le gesta degli eroi della Beat Generation, ma come William Burroughs, Lenny Bruce la visse come parte di un’esperienza globale, come punto di partenza per un’evoluzione della sua carriera, cioè della sua esistenza. E non è qualcosa da poco perché l’oralità, il monologo, comunque l’arte di raccontare dal vivo eleva al massimo esponente la necessità di avere qualcosa di cui narrare, senza potersi fermare. Non sono possibili inganni: la storia ci deve essere per forza, il linguaggio (o lo stile, se è più chiara l’idea) pure, l’energia anche, le idee (sulla letteratura e sulla vita in generale) necessariamente tante. Non si fermò mai, Lenny Bruce anche nel pieno delle battaglie per difendersi dai tentativi di fermarlo, nel nome della morale e per conto di una censura mai dichiarata. Gli argomenti del contendere vertevano spesso e volentieri attorno alla sfera sessuale, tema su cui Lenny Bruce ha sfoderato alcuni dei suoi monologhi più vibranti. Nel pieno del processo per atti osceni in luogo pubblico (articolo 311 comma primo del codice penale della California) venne riascoltata (anche) una sua lunga orazione che si concludeva così: “Ora, se c’è qualcuno in questa sala, o in tutto il mondo, che trova questa parola, questo verbo venire, indecente, volgare, osceno, decadente, amorale, immorale, asessuale, se il verbo venire lo mette a disagio, se mi giudica volgare perché lo pronuncio davanti a lui, ebbene, probabilmente costui non riesce a venire. E allora non serve a niente. Perché questo è lo scopo della vita: ricrearla”. Una mina vagante per cui “la verità è ciò che è, non ciò che dovrebbe essere” e che, noncurante e sprezzante continuò a “parlare sporco e influenzare la gente”, due gesti che lo distinsero fino alla fine, quando salutò così: “Non sono stato molto buffo stasera. A volte non lo sono. Non sono un comico. Sono Lenny Bruce”. Nessuna finzione: soltanto parole, parole, parole. Parole vere, non per riempire gli spazi tra un niente e l’altro, ma piuttosto per vivere sopra le righe.

martedì 19 aprile 2011

Henry James

Il più inglese degli scrittori americani sbarca a Londra e si consegna senza scrupolo al suo destino raccogliendo in queste pagine, poi rimaste incompiute le riflessioni autobiografiche destinate a raccontare tutto un crepuscolo. Le paludate presenze nelle stanze di Londra, gli omaggi e le frequentazioni accademiche non impediscono a Henry James di abbandonarsi ai suoi esercizi di memoria, visto che dice in modo esplicito che “è per un ricordo conservato tra le sconnessioni e le differenze che coltivo oggi questa libera fantasia molto piacevole: ormai è affondato nel terreno il giavellotto con cui dovrei discendere negli anni passati, e vorrei che toccasse nel suo tragitto il maggior numero possibile degli strati, rintracciando ogni singola ruga sul vecchio volto di un tempo lontano, fino a ricomporlo dinnazi ai miei occhi, fornendo i materiali per un ritratto accessibile solo a coloro ch’erano presenti prima del cambiamento”. La trasformazione, che è nell’aria, ha l’acre odore della guerra che, inevitabile, è in arrivo in Europa, ma anche “a quanto sembra, parecchie cose interessanti che stavano succedendo in America” e da cui, comunque, Henry James sembra prendere le distanze. Non è soltanto l’oceano a dividerlo dall’America, ma anche la constatazione che un tempo è ormai passato, un’era si sta avviando a spegnersi tra mille, cupe incognite. Allo scrittore in trasferta nelle amate vie londinesi rimane l’aura di un ricordo brillante: “E noi ci abbandonavamo tutti a quella luce, lasciandoci irradiare con un senso di gratitudine e immergendovi le nostre giovani menti come non sarebbe mai più capitato in futuro. Il bello stava proprio nel fatto che esistevano dei punti di riferimento, e la raccomandazione di una persona o di un oggetto rappresentava ai miei occhi il più bell’ornamento possibile, una decorazione che permetteva di distinguere i singoli elementi (animati o inanimati che fossero) dalla massa”. Per quanto indefinita, l’Autobiografia degli anni di mezzo di Henry James è uno splendido taccuino di appunti in cui il grande scrittore americano, senza rinunciare alla sua prosa eccessiva e complessa, centellina le suggestioni di incontri e idiosincrasie, le “vane speranze giovanili” e quel tentativo di far sopravvivere l’interesse che “diventa così una lezione di vita” che è in realtà il tema fondamentale delle sue riflessioni. Più degli argomenti, possono le forme e non poteva spiegarlo meglio Virginia Woolf che proprio nel caso dell’Autobiografia degli anni di mezzo ha scritto: “Tutti gli scrittori, hanno ovviamente un’atmosfera in cui sembrano più sentirsi a proprio agio e dare il meglio di sé; una sorta di stato d’animo della mente che riescono meglio a indagare e descrivere, tanto che ci ritroviamo a leggerli più per questa ragione che per il valore intrinseco di qualunque altra vicenda narrata o personaggio o scena”. E’ senza dubbio questa la dimensione ideale e per quanto postuma e incompleta nell’Autobiografia degli anni di mezzo si sente tutta.

giovedì 14 aprile 2011

Philip Roth

Nella tendenza crepuscolare di Philip Roth cominciata con L’animale morente, L’umiliazione si distingue per l’efficacia della misura e del ritmo stesso che la scrittura impone alla storia. Il “lungo viaggio nella notte” del suo protagonista, Simon Axler, è condensato in un romanzo dalle dimensioni ristrette che si evolve con sequenze elicoidali e proprio come una vite guida la trama senza la minima sbavatura. Bastano due soli cambi di scena sostanziali, molto precisi, e L’umiliazione arriva dritta al capolinea che a sua volta è l’ineludibile coup de théâtre che aleggia tra le righe fin dall’incipit. Questa non è scrittura. E’ chirurgia e Philip Roth, attraverso la crisi di Simon Axler, attore nel panico, affonda il bisturi in quella zona dei legami e delle relazioni umane in cui la finzione e la realtà si sfumano nella linea d’ombra dell’assurdo. Come scriveva uno dei protagonisti del teatro nel ventesimo secolo, Jean-Louis Barrault, “l’attore è colui il quale col suo movimento incide uno spazio e con il suono incide un silenzio. L’attore entra in uno spazio e deve raccontare. In realtà non è l’attore che recita ma è il pubblico che recita per lui. Egli è la sintesi di una storia. L’attore è un segno, un ponte fra la storia e il pubblico che vuole entrare nella storia”. Quando Simon Axler decide che il tempo del talento è scaduto perché “proprio ciò che prima aveva fatto di lui quel che era, adesso faceva di lui un pazzo”, la vita che fin lì ha vissuto diventa passato. Perde sua moglie, entra in un ospedale psichiatrico, non mangia più e si isola nel suo fallimento perché comunque “a un certo grado di infelicità, le provi tutte per spiegare cosa ti sta capitando, anche se sai che non spiegano nulla e che sono solo una filza di spiegazioni mancate”. L’arrivo di Peegen Mike Stapleford, figlia di amici d’infanzia (anche loro attori, va detto), ormai quarantenne e lesbica dichiarata scatena una metamorfosi per entrambi. La relazione che cominciano, consapevoli di vivere il momento e sicuri che nella vita conta solo “cercare tenacemente ciò che vuoi” e “smettere di cercare ciò che non vuoi più”, è incendiaria. Nonostante tutti gli avvisi,  gli allarmi e i presagi Simon e Peegen non si pongono limiti e, anzi, usano il sesso senza inibizioni come un laboratorio emotivo. L’atto finale viene da solo: un colpo di ghigliottina, automatico e perfetto. Serve piuttosto tornare indietro un attimo, quando Simon Axler era ricoverato e “tutti gli altri sedevano in un cupo silenzio, interamente tesi e intenti a ripassare tra sé, nel lessico della psicologia pop o dell’oscenità da trivio o della cristiana sofferenza o della patologia paranoide, gli antichi temi della letteratura drammatica: incesto, tradimento, ingiustizia, crudeltà, vendetta, gelosia, rivalità, desiderio, perdita, disonore e lutto”. L’umiliazione è il riflesso delle tracce di tutti questi temi fatti roteare nell’aria da un giocoliere che non sbaglia niente, tanto che sembra un prestigiatore. Il migliore.

domenica 10 aprile 2011

Sherman Alexie

Thomas-Accende-Il-Fuoco, come già succedeva in Lone Ranger fa a pugni in paradiso, si difende raccontando, dando sfogo alla propria fantasia con storie che sembrano parabole o metafore, o soltanto un’illusione di fuga dalla realtà, dura e squallida, delle riserve in cui è imprigionato. Questa volta però, la situazione si complica ulteriormente: non sono più le visioni ripetute a ritmo serrato di Lone Ranger fa a pugni in paradiso (che Sherman Alexie aveva raccolto in altrettante short stories), ma un sogno complessivo e importante, quasi un archetipo per tutti i giovani americani (e non solo): mettere in piedi una band e diventare rock’n’roll star. A Thomas-Accende-Il-Fuoco però non capita come un prurito esistenziale o una necessità giovanile, quanto piuttosto come una missione per diventare qualcuno nella riserva indiana in cui vive (e soffre). Il risultato, in quello che è ormai il tipico linguaggio di Sherman Alexie, è ancora una volta sorprendente: Reservation Blues narra la storia dei Coyote Springs (questo il nome scelto per la band) usando tutti i più classici cliché delle rock’n’roll story in maniera creativa e brillante. Dalle prime, sgrammaticate recensioni all’immancabile battle of the band, dalle canzoni (che si chiamano Canzone d’amore del ragazzo indiano o Il mio dio ha la pelle scura) alla vita on the road, per non dire dell’onnipresente fantasma di Robert Johnson, Sherman Alexie continua a usare un tratto che è un crossover tra la cultura occidentale e i linguaggi mistici dei nativi, tra ironia e disperazione, con alcuni svolazzi lirici notevoli. La sua invocazione in un momento cruciale di Reservation Blues è eloquente perché mette bene in chiaro il senso della vocazione di Thomas-Accende-Il-Fuoco e dei suoi Coyote Springs: “Conosceva le parole di un milione di canzoni, indiane, europee, africane, messicane, asiatiche. Cantò Stairway To Heaven in quattro lingue diverse, ma mai aveva saputo dove fosse quella scala. Cantava di continuo le stesse canzoni indiane ma mai che le cantasse esattamente. Voleva far sì che la sua chitarra avesse il suono di una cascata, di un arpione che colpisce il salmone ma la chitarra suonava semplicemente come una chitarra. Avrebbe voluto che le canzoni, le storie, salvassero tutti e ciascuno”. Altre spiegazioni non sono necessarie: Reservation Blues è una grande storia di rock’n’roll, visto come un modo per affrontare la realtà attraverso i sogni e le visioni e anche una piccola mappa della vita nelle riserve. Questo con ogni probabilità era già tutto noto da Lone Ranger fa a pugni in paradiso, che non mancava di appunti polemici e note dolenti. Con Reservation Blues, Sherman Alexie può pretendere di essere una voce importante di quell’America nascosta, che non fa tendenza, che non arriva sulle copertine delle riviste patinate, ma che crede ancora che il rock’n’roll (e le sue storie) possano sortire una parvenza di soluzione. Magari solo per una notte, magari solo per una canzone, o soltanto per un sogno.

giovedì 7 aprile 2011

Kaye Gibbons

Ellen Foster è una ragazzina giovanissima a cui gli eventi della vita hanno messo in bocca un linguaggio duro, semplice e diretto e una visione complessiva della sua esistenza che definire realistica suona un po’ troppo semplice. Un padre violento e alcolizzato, la madre che gli muore nello stesso letto, un peregrinare (drammatico) da un tribunale a una famiglia adottiva, dalle nonne alla vita scolastica che non sempre è il posto migliore per crescere e dare un senso alla propria esistenza. Tutto ciò potrebbe far pensare a un lungo e triste grido di dolore, contornato dal caratteristico paesaggio southern, ma Kaye Gibbons non si ferma alla prima emozione e offre alla sua Ellen Foster la possibilità di rispondere, volta per volta, a tutte le avversità. Così, le inventa un suo personale linguaggio, ritmatissimo e scattante, quasi fosse un ragtime o un sincopatissimo blues e, attraverso questo, una via d’uscita, una sorta di libertà che si mostra attraverso i sogni, le idee, la difesa della propria, naturale innocenza. Il tema ricorrente è questo ed è proprio nella sua ripetitività l’unico neo: piuttosto che allargare l’inquadratura su Ellen Foster, Kaye Gibbons ha preferito ribadire, puntualizzare, ridefinire le cause delle sue reazioni, del suo crescere. Logica che viene ben espressa dalla stessa voce di Ellen Foster: “Sapete, se ci si racconta per un bel po’ di volte sempre la stessa storia, alla fine i racconti diventano storie diverse, e di solito ci si può illudere e dimenticare che si è iniziato con un’unica stagione solitaria di tutta una vita”. Con il succedersi delle versioni, il narrare di Kaye Gibbons passa attraverso un fluire ben più tagliente e spigoloso di Un rimedio per i sogni e L’amuleto della felicità, successivi a Ellen Foster. Ciò non vuol dire assolutamente che Ellen Foster sia un romanzo trascurabile (specie per chi ha una predilizione nei confronti delle scrittrici e scrittori sudisti come Walker Percy, William Faulkner, Flannery O’Connor e Eudora Welty) ma che va inquadrato nell’insieme del lavoro con cui Kaye Gibbons si è affermata come una delle principali narratrici americane contemporanee. All’epoca di Ellen Foster stava ancora cercando una sua voce e, dovendo trovarla per la protagonita del suo esordio, riuscì a scovarla nelle pieghe di una resistenza (prima femminile e poi umana) a tratti persino epica. Poi, oltre quest’urgenza espressiva e linguistica, ha trovato anche un vocabolario, più di una raffinatezza e un’attenzione molto dettagliata ai paesaggi, alle storie e ai dialoghi dei suoi personaggi. E’ diventata brava, e sarebbe anche ore che diventasse famosa e riconosciuta perché a differenza di tante colleghe e di molti mestieranti ha davvero colto l’essenza del raccontare, quell’arte con cui la vita di Ellen Foster e quella di tutti noi acquista un senso e una logica. Nella memoria, che non è un polveroso archivio di ricordi, ma il magazzino di motivi da cui escono gli amuleti e gli strumenti e le parole per non dimenticare un’altra volta, per ribellarsi, per vivere.

mercoledì 6 aprile 2011

Joyce Carol Oates

Sarebbe una straordinaria regista, Joyce Carol Oates, se avesse un po’ più confidenza con la cinepresa piuttosto che con la macchina da scrivere. La stessa, identica scena ripetuta all’infinito per centocinquanta pagine, la medesima inquadratura su quello che in apparenza sembra un normale (per quanto può essere normale) incidente stradale e mille particolari che invece ne rivelano una ben diversa consistenza. Questo è il concentrato minimo di Acqua nera, romanzo di Joyce Carol Oates che prende spunto dalla cronaca (il fattaccio è avvenuto realmente, protagonisti il senatore Ted Kennedy e una sua giovane segretaria che non ha più visto la luce del sole) per reinventare, ancora prima della storia, un modo di scriverla e di carpirne gli insegnamenti più reconditi. Acqua nera, intanto, comincia dalla fine, quando la sciagura automobilistica è già avvenuta, inaspettata e gravida di drammatiche conseguenze. Da lì, un punto imprecisato nelle paludi del Maine, Joyce Carol Oates procede per ricostruire non tanto il passato di Kelly Kelleher e del senatore (che nel romanzo sembra non avere altro nome), quanto il meccanismo, viscido e subdolo, che, una volta incontrati, li ha proiettati verso un destino buio e minaccioso. Il percorso da seguire è solo in parte a ritroso nel tempo, perché i flashback di Acqua nera si limitano a illuminare quelle parti in cui è necessario avere gli strumenti per collegare due esistente talmente differenti come quella di Kelly e del suo potente accompagnatore. Il passato funge solo da riferimento, un orizzonte costante per mantenere saldamente legati alla vera, unica immagine di Acqua nera, che sono i due passeggeri prigionieri della Toyota sprofondata nella melma nera e odorosa, metafora, questa sì, su cui difficilmente si può discutere. Attorno a questa cupa istantatanea che viene reiterata senza pietà capitolo dopo capitolo, Joyce Carol Oates assembla un quadro brutale della tracotanza del potere e della politica e affida alla voce agonizzante di Kelly Kelleher il compito di renderlo percepibile in maniera inequivocabile. La scelta di Joyce Carol Oates è geniale, nella sua cruda essenzialità: l’atto unico di Acqua nera è riproposto con una scansione ritmica regolare e ipnotica, ottenuta aggiungendo dettaglio su dettaglio con un’attenzione maniacale. L’incidente, il fatto in sé, che all’epoca aggiunse l’ennesima e cupa ombra sulla saga della famiglia Kennedy pur essendo fondamentale rimane sullo sfondo perché, quasi come un risarcimento, la protagonista diventa Kelly Kelleher “così raggiante e sicura di sé sulla spiaggia, coi nuovi occhiali da sole fascinosi e scuri con le lenti trattate per eliminare i raggi ultravioletti, e sapeva di star bene, non era una bella ragazza ma talvolta, sai, è venuto il tuo momento e tu lo sai, e non c’è felicità pari a questa felicità. Sei una ragazza americana: lo sai”. Poi l’inevitabile crudeltà del potere che Joyce Carol Oates racconta con durezza esemplare, trasforma quella visione idilliaca in Acqua nera. Il resto è cronaca.

martedì 5 aprile 2011

Jerome Charyn

Jerome Charyn è uno dei pochi scrittori che hanno raccontato New York come l’ha cantata Lou Reed e come l’ha vissuta Miles Davis. Una sorta di mondo superiore, una Metropolis dove silenzio e rumore sono estremi che si dividono la vita quotidiana della città, un territorio dove tutto è possibile. I suoi romanzi sono costantemente ambientati della Big Apple, come se non ci fosse altro possibile scenario. Una città dove ogni giorno comincia con “piccoli schizzi di inchiostro di rame venefico” e che gli offre le quinte perfette per i personaggi picareschi e per le intricate storie noir che distinguono i suoi migliori romanzi. Soltanto con Morte di un re del tango Jerome Charyn ha provato a trasferire il suo mondo misterioso e colorito nella giungla colombiana, forse coadiuvato dall’amico Paco Ignacio Taibo II a cui, per inciso, è dedicato il libro. L’autore stesso conferma l’amicizia con lo scrittore spagnolo naturalizzato messicano, ma smentisce il suo intervento a favore di una trasferta sudamericana e gli si può credere perché i personaggi di Morte di un re del tango sono tipicamente e naturalmente di Jerome Charyn. Il percorso da New York alla Colombia è tortuoso e pieno di imprevisti: è una gold rush che permette a personaggi spietati di dettare legge e a Yolanda, l’eroina di Morte di un re del tango, di sfoderare tutta la sua grinta. Nel dettaglio, Jerome Charyn spiega così la situazione: “Tutta l’America Latina stava inseguendo una sola meta. El Dorado. La sete dell’oro. Non aveva importanza che quell'oro assumesse la forma di smeraldi, di cocaina, di banane, di alberi della gomma o di piccole pepite nel rio Amacayacu. I conquistadores avevano sognato l’El Dorado e fatto sorgere tra i brividi un intero continente, una terra perduta dell'oro”. Yolanda non ha grande scelta: o segue questi traffici, con tutto ciò che comporta, o rimane nel carcere di Harrington Hills dove le Hell Sisters, una gang femminile dai propositi tutt’altro che gentili, ha messo gli occhi su di lei, con intenzioni non proprio politically correct. Dalla padella alla brace: Yolanda è aiutata ad uscire legalmente, ma il pegno che dovrà pagare la porterà in Colombia. Il suo obiettivo è cercare un alleanza con il cugino Ruben Falcone, plenipotenziario del cartello della cocaina di Medellín per intervenire a difesa della foresta colombiana. I propositi ecologisti per cui si deve battere la portano nel mezzo di una lotta intestina di cui è difficile tracciare un profilo morale. Forse non serve nemmeno: Jerome Charyn è infatti a suo agio quando scrive in quella terra di nessuno dove la giustizia è un’opinione e se la Colombia non è esattamente il Bronx certe dinamiche sono simili, se non spietatamente uguali. La nota differente è che il ballo a cui tutti sono invitati è una metafora piuttosto colorita perché, come scrive Jerome Charyn “il tango è una questione di vita e di morte. I paisas non hanno prodotto altro, all’infuori di questa danza folle”. Per lui, è l’occasione di una trasferta languida e scoppiettante.

Peter Matthiessen

E’ un lungo excursus sulla storia delle vessazioni subite dal popolo nativo americano dalla colonizzazione dell’America alla creazione delle riserve. La reazione fiera, dignitosa è Nello spirito di Cavallo Pazzo, come dice il titolo e come viene espresso e articolato più avanti: “Noi non vi ostacoliamo, e ancora ci chiedete perché non ci civilizziamo. Non vogliamo la vostra civiltà. Vogliamo vivere come i nostri padri”. E’ il nucleo della saggezza lakota, la forza di una tradizione affondata nei tempi e nei rituali, il riconoscersi di un popolo a cui, per motivi più o meno velati (dai contrasti geografici alle necessità economiche) la civiltà occidentale ha opposto una strenua resistenza, tanto dispendiosa (in tutti i sensi) quanto inutile. Nello spirito di Cavallo Pazzo non lo dice in modo chiaro, perché Peter Matthiessen è un narratore abbastanza abile da sapere che se vuole rivelare qualcosa, lo deve nascondere, ma ci sono tutti gli strumenti per capire: non sono gli indiani a dover resistere ai continui attacchi dell’FBI, del generale degrado, degli interessi (più o meno puliti) dell’industria e del commercio, della violenza e della corruzione. E’ il mondo dei cosiddetti americani, inserito in una folle spirale di decadenza e autodistruzione che deve continuamente riciciclarsi, a discapito delle minoranze di ogni tipo per non accasciarsi su se stesso. Si giunge a questa conclusione dopo le trecentocinquanta pagine circa di Nello spirito di Cavallo Pazzo e non per difendere un partito preso o una romantica (spesso comoda) posizione da perdenti. Spulciando nella fitta serie di eventi, date, documenti, processi e verbali (la vicenda ruota essenzialmente attorno alla sparatoria di Oglala in cui vennero uccisi due federali e alla successiva, imponente caccia all’uomo, il tutto poi ripreso, come si sa, da Michael Apted) è evidente che alla volontà indiana di difendere la propria gente, lo stato di diritto degli Stati Uniti oppose, oltre a una durissima reazione militare, un’infinita serie di complotti, falsificazioni, intrighi politici ed economici atti a ribaltare gli estremi del caso giudiziario. Scoperti da Nello spirito di Cavallo Pazzo che, non a caso, subì gravissime censure e dovette attraversare un paio di processi per calunnie intentati dall’FBI e dal governatore del South Dakota. Per inciso, la Viking, primo editore, ebbe un danno intorno ai due milioni di dollari per il ritiro dalle librerie e per l’impossibilità di tradurre il libro all’estero, ma qui c’è un fondo di verità. Sia l’autore, Peter Matthiessen (detective serio e arguto racconta con la precisione di un’inchiesta e la fluidità di un romanzo), sia la Viking vennero assolti con formula piena in tutti i gradi del cammino della giustizia. A sbagliare, quindi, deve essere stato qualcun altro e la storia raccontata Peter Matthiessen dovrebbe far riflettere, tanto per i nativi americani, quanto per gli aborigeni australiani, le popolazioni indigene africane o amazzoniche e migliaia di altre etnie di figli della terra che rischiano l’estinzione. E noi con loro.

lunedì 4 aprile 2011

Mark Twain

La verve di Mark Twain è indiscutibile: non c’è narratore che abbia saputo trasmettere così tanto, usando la scrittura con lo stesso piglio di chi maneggia una frusta. Le sue radici sono rimaste inalterate inalterate in un’istintività primordiale (pur nella consapevolezza che “abbiamo perso in stupore quello che abbiamo guadagnato in conoscenza”) e nel gusto certosino per l’applicazione ai particolari perché, come scriveva lo stesso Mark Twain, “nella vera bellezza, conta soprattutto la giusta collocazione e la distribuzione sapiente dei dettagli più che la loro molteplicità”, e qui, a tenere insieme tutto conta soprattutto l’ironia. Frutto della profondità, della conoscenza della cultura popolare e popolana, l’ironia di Mark Twain è eletta a forma di filosofia che comprende e diffonde un po’ tutte le materie e gli argomenti della conoscenza umana. Un maestro di stile che se la spassa, lezione dopo lezione. Lo scandaglio di questa agile e sintetica antologia passa attraverso spicciole lezioni di scrittura creativa (sempre utili quando bisogna prendere una decisione, per esempio: “Per quanto riguarda l’aggettivo: nell’incertezza, cancellalo”) e lapidarie annotazioni sullo “stato delle cose” che suonano attualissime, ancora oggi, soprattutto quando riguardano la gestione del potere. “La necessità non conosce legge” sentenzia con un aforisma ambivalente che si sposa in modo automatico con la convinzione che “le abitudini dei popoli sono determinate dalle circostanze”. Per completare il trittico che da solo può spiegare la “politica” nei secoli dei secoli va aggiunta la definizione, perfetta, di audience di cui Mark Twain, già due secoli fa, diceva: “So tutto sull’audience. Credono a tutto quello che si dice, eccetto quando si dice la verità”. Si può manovrare in libertà in questo arcobaleno di brevi frasi, sempre pertinenti e pungenti, perché Mark Twain non si risparmia e non concede nulla al suo avversario ideale, che è poi la solita, noiosa maggioranza benpensante, senza rispetto o falsi timori né per l’ordine costituito né per la patria nascosta dietro la stars’n’stripes tanto che si permette di scrivere: “Scoprire l’America è stata una cosa fantastica, ma sarebbe stato ancora più fantastico non scoprirla”. La sua è l’espressione irriverente di un uomo e uno scrittore che si è coltivato la propria libertà a colpi di frasi caustiche, spietato anche come critico, visto il trattamento sprezzante riservato, tra i tanti, a Jane Austen: “Anche i libri di Jane Austen mancano nella mia libreria. Questa semplice omissione già di per sé farebbe di una biblioteca senza nessun libro una buona biblioteca”. Condividendo il parere, il ghigno finale è inevitabile e destinato a scatenare una reazione a catena perché “la risata che non può essere soppressa è contagiosa. Prima o poi sbaraglia le nostre difese, mette in crisi la nostra dignità e ci associamo, vergognosi della nostra debolezza e scocciati per la motivazione, ma è inevitabile, dobbiamo ridere”. Unico.