domenica 27 febbraio 2011

William Burroughs


“Noi siamo il linguaggio” recita il titolo di uno dei capitoli più importanti di Le città della notte rossa, un romanzo per cui William Burroughs non ha ricevuto altrettanti plausi del Pasto nudo, ma che è rimasto nel tempo, forse ancora più significativo. Contraddittorio, visionario come sempre, ma più determinato Le città della notte rossa narra le vicende di Captain Mission, un corsaro libertario e utopistico per cui “niente è vero. Tutto è permesso”. Abilissima metafora di William Burroughs per raccontare il mondo del secolo scorso e ampi squarci di futuro, con un'idea fissa, un'ossessione che è anche la trama sottile che collega tutta la sua vita. “Quello che sto cercando di dire è molto semplice. L'intera posizione umana non è più difendibile” scrive in un passaggio de Le città della notte rossa, votando Captain Mission a vittima sacrificale di questa intuizione, di quel virus che si chiama uomo. Pur mantenendo tutte le prerogative rivoluzionarie del Pasto nudo, Le città della notte rossa, architettato con maggiore esperienza, si articola su più livelli, mostrando una William Burroughs sempre più spiazzante. Continua ad essere estremamente attuale perché pur proiettato nei meandri più oscuri e folli della storia umana e nelle convulsioni linguistiche, Le città della notte rossa esprime in modo incontrovertibile il pensiero di Burroughs che lui stesso traduce così: “Quello che sto cercando di dire è molto semplice. L'intera posizione umana non è più difendibile. E un'ultima considerazione... come lei sa, un vasto cratere in quella che è adesso la Siberia è ritenuto derivare da un meteorite. Si teorizza inoltre che questa meteorite abbia portato con sé la radiazione in questione. Altri hanno supposto che potesse trattarsi non di una meteorite ma di un buco nero, un buco nella struttura della realtà, attraverso cui gli abitanti di queste antiche città viaggiarono nel tempo fino a un’impasse finale”. William Burroughs sfoggia l’abilità dei suoi giochi di prestigio (“L’essenza dei giochi di prestigio è la distrazione e il disguido. Se qualcuno si può convincere di avere, mediante la propria perspicacia, indovinato i vostri scopi nascosti, non cercherà oltre”), mascherando di volta in volta la realtà e scardinando gli schemi letterari, come se la vera indipendenza di Captain Mission dipendesse dal linguaggio. Un’ipotesi tutt’altro che irreale, visto che le popolazioni delle Città della notte rossa sono tra le più stravaganti ed elaborate che abbia mai creato, come la sempre puntuale Fernanda Pivano annotava nella prefazione: “Come John Cage ha creato composizioni dissonanti che in qualche modo costringono suoni consueti in una struttura musicale, Burroughs affolla le sue pagine di creature che dal mondo umano trasmigrano continuamente in quello fantascientifico o in quello dell’assurdo”. E queste repentine metamorfosi sono necessarie a Burroughs per spiegare che il virus umano “dopo migliaia di anni di coesistenza più o meno benigna, è ora di nuovo sul punto di una mutazione maligna”. Indispensabile, oggi più di ieri. 

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