sabato 26 febbraio 2011

Hunter S. Thompson

Il telegramma è chiarissimo, elementare e, nella sua sintesi, perfetto: “Corri qui stop c’è ancora posto nel barile del rum stop non si fa un cazzo stop soldi a palate stop si sbevazza tutto il giorno stop si chiava tutta la notte stop corri perché potrebbe durare poco”. La risposta è altrettanto eloquente: “Non ho programmi particolari. Vado lì e mi butto nella mischia. Una bella sbronza tranquilla”. A dispetto dell’incarico per cui s’imbarca per Puerto Rico, un lavoro che ben presto messo in un angolo, H. S. Thompson ha solo l’intenzione di spassarsela, come facevano Hemingway e Fitzgerald, i suoi eroi. Gli basta attraversare la spiaggia e buttarsi nell’oceano per mettere la sua bandiera sull’isola: “Ora mi sentivo meglio, caldo e sonnacchioso e libero come un fringuello. Con le palme che scorrevano veloci e quel solleone che bruciava la strada, ho provato una sensazione che non avevo dai primi mesi in Europa, quel misto di inconsapevolezza e tranquillità scazzata vada-pure-tutto-al-diavolo che ti prende quando il vento si alza e cominci a filare verso un punto sconosciuto all’orizzonte”. La meta, sempre più spesso, coincide con il fondo della bottiglia e un drink dopo l’altro H. S. Thompson s’inventa una guerra civile con se stesso, e se all’inizio le Cronache del rum sono euforiche e sopra le righe, piano piano e sbornia dopo sbornia emerge un fondo di consapevole amarezza. E’ proprio mentre sta per affogare nell’alcol e nella dissoluzione che H. S. Thompson si rivela un grande scrittore. Gli basta un minimo sindacale di lucidità per accorgersi di aver varcato una soglia pericolosa: “Mi è sembrato di vedere qualcosa strisciare sul soffitto e le voci fuori che mi chiamavano per nome. Ho cominciato a tremare e sudare, poi è cominciato il delirio”. Ogni notte diventa sempre più minacciosa (uno dei tanti party finisce con uno stupro), i soldi svaniscono negli ingorghi di rum e mantenere, anche soltanto per un altro giorno, quello scapestrato lifestyle diventa un incubo. Le Cronache del rum riportano, passo dopo passo il diario di un fallimento. L’escalation è emblematica. Prima H. S. Thompson comincia ad avere una vaga percezione del caos in cui si ritrova: “Provavo l’oscuro presentimento che la vita che facevamo fosse una causa persa, che non facessimo altro che recitare, prendendoci per il culo a vicenda in un’odissea senza senso”. Un attimo dopo è convinto che “andiamo tutti verso gli stessi posti del cazzo, facciamo le stesse cazzo di cose che la gente ha fatto per cinquant’anni, e aspettiamo che succeda qualcosa”. L’attesa è una vana promessa perché “le dolci illusioni che ci fanno tirare avanti reggono solo fino a un certo punto” e H. S. Thompson confessa di essere arrivato in fondo: “se quella era la libertà assoluta allora ne avevo assaporata in abbondanza”. Si smentirà, spesso, H. S. Thompson e scriverà di altre “paure e deliri”, ma nelle sue Cronache del rum (siamo soltanto nel 1959) c’è già tutta l’essenza di un grande, folle e geniale outsider.

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