martedì 18 gennaio 2011

Cormac McCarthy

Il vero serial killer di Figlio di Dio, un titolo che con ogni evidenza vorrà pur dire qualcosa, non è Lester Ballard (che comunque è un freak il cui nome è già destinato a entrare nella leggenda), ma la wilderness americana, che Cormac McCarthy racconta spietatamente e senza un briciolo di enfasi. L’afa, la neve, la terra che si squarcia e inghiotte tutto, la furia degli elementi, l’acqua che inonda la contea di Sevier, Tennessee, il fuoco e le gallerie umide dove Lester Ballard si nasconde: lui è il protagonista di una follia senza giustizia, ma sono l’humus, l’atmosfera, il paesaggio dove cresce gli elementi fondamentali di Figlio di Dio. Diventano una geografia attiva attraverso una scrittura fatta di frasi taglienti, brevissime, sincopate, uno stile ben lontano da lirismo della Border Trilogy: l’aria è quella irrespirabile di Il buio fuori ed appartiene al Cormac McCarthy crudo e violentissimo (quello che ha il suo apice nel capolavoro di Meridiano di sangue), ma con una vena urbana livida, come se i suoi primi romanzi (Figlio di Dio risale al 1973) fossero attraversati da una luce dipinta da Edward Hopper in acido. Nell’aura malefica e inquietante dell’amorfa, bucolica, bizzarra e paurosamente abbandonata provincia americana, la stessa in cui oggi covano le loro rabbie le milizie, i fondamentalisti e altre genialità simili, Lester Ballard è un outsider che ha deciso, e ha deciso di andare fino in fondo, “di continuare il suo viaggio perché tornare indietro non poteva, e quel giorno il mondo era bello come lo era stato tutti i giorni fin dal principio, e lui viaggiava verso la morte”. L’unica soluzione definitiva e in qualche modo eccitante che può offrire un paesaggio di allucinante desolazione, forse anche una prima avvisaglia dei paesaggi “fotografati” per La strada la fornisce Cormac McCarthy che incastra l’abominevole vita di questo figlio di Dio con apparizioni letali e disastrose che, però, visto il contesto in cui maturano, sono difficili da distinguere dal resto e da definire, in qualche modo, criminali. Non c’è ombra di dubbio che Lester Ballard abbia un legame perverso con la vita e che le sue orme siano piene di sangue, ma il suo punto di vista è univoco ed elementare: “Io non ho chiesto niente a nessuno in questa merda di città”. La comunità, gelida quanto il clima che la circonda, gli risponde senza esitazioni: “O trovate un altro modo di vivere, oppure vi trovate un altro posto al mondo per viverci”. E’ lì che Lester Ballard diventa un “sotterraneo”, un outsider assoluto tanto che “ci fossero state più buie regioni della notte, lui le avrebbe trovate”, eccome se le avrebbe trovate. In una contea, in una regione, in un’America dove violenza, razzismo, ignoranza formano un inestricabile groviglio di miserie (poco) umane, Lester Ballard alla fine risulta, se non proprio simpatico, almeno comprensibile nel suo delirio. Merito di uno scrittore, Cormac McCarthy, che pur nel suo privilegiato isolamento, era già da allora destinato ad occupare un posto importante nella letteratura americana. 

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