giovedì 27 gennaio 2011

Kurt Vonnegut

Tutto ruota attorno a un bombardamento a tappeto visto da dentro, dall’interno di un mattatoio che è nello stesso tempo luogo e metafora, ventre malato e osservatorio privilegiato. L’obiettivo è Dresda, siamo negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, e della città non resterà nulla, a parte moncherini anneriti di edifici, brandelli di carne sulle strade e un’aria irrespirabile. Kurt Vonnegut, testimone involontario della tempesta di fuoco (e qui non in senso figurato: a causa delle turbolenze e degli spezzoni incendiari si sviluppò un vero e proprio vortice di fiamme che avvolse tutta la città) in quanto prigioniero di guerra, una volta sulla soglia del suo nascondiglio legge quell’apocalittica realtà con frasi di una precisione millimetrica: “Non fu prudente uscire dal rifugio fino a mezzogiorno dell’indomani. Quando gli americani e le loro guardie vennero fuori, il cielo era nero di fumo. Il sole era una capocchia di spillo. Dresda ormai era come la luna, nient’altro che minerali. I sassi scottavano. Nei dintorni erano tutti morti. Così va la vita”. Un romanzo dalla forza dirompente e di un capolavoro, qual è Mattatoio Numero Cinque non si può dire molto di più, se non che  il protagonista si chiama Billy Pilgrim ed è affetto da una curiosa patologia, ovvero ogni tanto scoppia in lacrime (forse perchè, tra l'altro, ha scoperto il segreto del tempo, e non so quanti vorrebbero saperlo). Kurt Vonnegut è uno scrittore che riesce a sintetizzare ironie, polemiche, storie e paesaggi con una verve visionaria, sapendo soprattutto che “non c’è alcun rapporto particolare tra i messaggi, se non che l’autore li ha scelti con cura in modo che, visti tutti insieme, producano un’immagine della vita che sia bella, sorprendente e profonda. Non c’è principio, parte di mezzo o fine, non c’è suspence, né morale, né cause ed effetti. Quella che amiamo nei nostri libri è la profondità di molti meravigliosi momenti visti tutti in una volta”. Attualissimo, ancora oggi, in modo straordinario, (basta rileggere le pagine che dedica al rapporto tra gli americani e la povertà) anche perché la storia si ricicla senza fantasia, le vite vengono travolte dalla guerra senza riuscire a capire come ci si è arrivati e perchè non finirà mai. Il coraggio e la bellezza in un narratore come Kurt Vonnegut stanno nel fatto che lui le grandi domande se le pone, magari con il sorriso sulle labbra e tra le righe, ma senza temere le polemiche o le critiche o entrambe. Senza fuggire in trame di circostanza e personaggi edulcorati, anche a costo di dire: “Ho fatto cattivo uso della fiction per diffondere le mie strampalate idee sugli Stati Uniti d'America, follie che sarebbero più consone  alla pagina degli editoriali di qualche giornaletto mal stampato dai fanatici delle france più estreme. Prima tra queste idee, quella che il morbo più diffuso tra i miei connazionali è la solitudine”. E’ vero, poi, come dice lo stesso Kurt Vonnegut che “nella vita ci sono più cose di quelle che si leggono nei libri”, ma i suoi romanzi sono una sorta di rimedio, un modo per sognare di versamente o per leggere più a fondo la realtà, senza aver paura di riderci sopra. 

mercoledì 26 gennaio 2011

Tom Kromer

Quando sei sulla strada ti serve “cervello e immaginazione” che funzionino in modo rapido e preciso perché un nuovo giorno non è mai garantito e dipende tutto dalle risposte alla fame e al freddo. Cercare un posto caldo dove dormire o un pasto appena appena decente, fuggire ai balordi e alle guardie, salire e scendere da un treno in corsa, camminare nella polvere e nel gelo, rannicchiarsi nel sonno malato tra gemiti e spazzatura: una vita da cui non c’è niente da aspettarsi è raccontata da Tom Kromer in modo plateale, caustico, diretto. Il tono della sua scrittura, le voci dei suoi personaggi non sono levigati da alcuna necessità letteraria: Vagabondi nella notte è una lunga e aspra ballata senza mediazioni, uno sguardo fisso sulla ferita aperta in una nazione travolta dalla crisi economica. Lo sguardo è disincantato, livido, duro, sempre punteggiato da uno schizzo di indignazione. Ecco l’inquadratura in attesa del pasto quotidiano: “Aspetto e, cristo, il tempo non passa mai. Me ne sto qui, in questa fila per la minestra. Davanti e dietro c’è un sacco di gente, centinaia di persone. Mi rannicchio nel mezzo della fila. Sono qui da due ore. E’ notte, e mancano ancora dieci minuti alla distribuzione della minestra. Il vento sibila da dietro l’angolo e mi taglia come un coltello. Sono qui solo da due ore. Alcuni di questi vagabondi sono qui da quattro. Dall’altra parte della strada, la gente si ferma sul marciapiede. Ci guarda. Siamo un bello spettacolo, per loro. Una fila la minestra lunga due isolati è qualcosa da non perdersi. Non sono in fila, quelli lì che si fermano sul marciapiede. Dev’essere comodo non avere nulla di cui preoccuparsi”. Il bianco e nero è quello delle fotografie di Walker Evans, l’accento stridulo è lo stesso delle tempeste di parole di Woody Guthrie, gli umani soggetti (da una parte e dall’altra della strada) sono sempre quelli dei reportage di James Agee: i volti scavati, gli abiti sdruciti, le scarpe sfondate, gli occhi che chiedono perché senza mai ottenere risposta. Qualcosa di feroce, invisibile e malefico nascosto nella crisi economica (allora come oggi, le differenze sono relative) ha spazzato le loro vite, lasciandoli nella miseria attoniti, disperati, abbandonati e, più di tutto, soli. A differenza di altri testimoni, per quanto validi, Tom Kromer è uno di loro, così dentro e vicino da poter cogliere i dettagli più crudeli: “E’ notte, e siamo in questa giungla. E’ la nostra casa per stanotte. La nostra casa è una discarica d’immondizia. Tutt’intorno ci sono mucchi di scatole di latta e di bottiglie rotte. Tra i mucchi, dei fuochi. Alla nostra destra, un uomo e una donna sono rannicchiati intorno al fuoco. Un bimbo piccolo rantola tra le braccia della donna: ha la difterite. Tossisce tanto che gli si illividisce il faccino. La donna è terrorizzata. Gli dà dei colpetti sulla schiena. Per un po’, quello torna a respirare, poi da capo smette. Non riesci a curare un bimbo malato di difterite a forza di colpetti sulla schiena”. E’ la pura e semplice verità.

Anne Michaels


Forse le immagini nelle prime pagine di In fuga nascondono qualche significato metaforico: un bambino emerge dal fango di un’antica città polacca, ma l’archeologia non c’entra niente. Il bambino si è nascosto nella terra per sfuggire alla furia della persecuzione nazista, che ha sterminato l’intera sua famiglia. C’è già tutto quello che bisogna sapere in questi primi passi: è come se fosse una seconda nascita, certo non una resurrezione, ma proprio un tentativo di venire al mondo di nuovo, ancora innocente. Il problema è che non si può dimenticare che “l’ombra del passato è formata da tutto quello che non è mai successo. Invisibile, squaglia il presente come la pioggia con il calcare. Una biografia di desiderio e della nostalgia. Ci guida come un campo magnetico, una forza che torce lo spirito”. Il bambino si chiama Jakob Beer e diventerà poeta e traduttore grazie all’assistenza di Athos Roussos, geologo e filosofo che lo condurrà con sé prima in Grecia e poi in Canada. E’ il “maestro migliore”, come scrive Anne Michaels, “quello che insegna la dedizione del cuore, e non della mente”. Il suo sforzo per educare il piccolo salvato dal fango e dall’odio nazista sarà quello di restituirgli l’amore per la vita, e nello stesso tempo di aiutarlo a non dimenticare perché “la memoria umana è codificata nelle correnti d’aria e in ciò che sedimenta sul fondo dei fiumi. I fiocchi di cenere attendono di essere raccolti, le vite di essere ricostruite”. Non è tutto qui, perché Jakob Beer lascerà tracce fortissime della sua esistenza e altri le seguiranno, cercando di non lasciarsi inghiottire dal “pozzo avvelenato” della storia, “l’istante graduale” che fornisce soltanto un lungo elenco di defunti, “il libro dei morti, tenuto dagli amministratori dei campi”. Costretto dall’esilio a ricostruire i suoi ricordi, a viverli all’infinito e a cantare “vecchie canzoni”, Jakob Beer vede in modo nitido, scolpita nelle frasi, l’abissale differenza tra storia e memoria e, quasi come un monito, si accorge che “non è il passato sconosciuto che siamo condannati a ripetere, ma quello che conosciamo. Ogni evento registrato è un mattone di potenziale, di precedente, scagliato contro il futuro. Alla fine l’idea colpisce qualcuno alla nuca”. La memoria, dunque, “sono i Memorbucher, i nomi di quelli che bisogna piangere, letti a voce alta nella sinagoga”, l’unico modo per restare uniti, almeno nel suono di parole condivise. La fuga di Jakob Beer non ha fine, anche perché “il tempo è una guida cieca” ma la storia, la sua storia, va vista, ovvero letta per intero: Ann Michaels ha il privilegio di una scrittura florida e insieme misuratissima e lirica, che non lascia dubbi sul suo talento e sulle sue intenzioni. Un modo di narrare che costringe, con grazia, a riflettere, a cogliere tra le righe qualcosa in più di un bel romanzo: In fuga appartiene infatti a quella terra incognita dove poesia e testimonianza riescono a colmare il silenzio di chi potrebbe ancora perdonare, ma non può più parlare.

martedì 25 gennaio 2011

Donna Gaines

Nel marzo del 1987, il New Jersey e l’intera America furono scosse dalla notizia del suicidio collettivo di quattro ragazzi di neanche vent’anni. Donna Gaines, rock’n’roller e sociologa, decise di andare sul luogo, una minuscola e arida smalltown, Bergenfield, per scoprire cosa c’era dietro quel desiderio che “porta alla terra di non ritorno”. Una scelta coraggiosa perché “le ragioni, le scuse, i silenzi coprono le delusioni. I sogni umani. Quello che la gente sperava di raggiungere, i loro desideri”. Quando è sul territorio, uno di quei posti di provincia che devono avere ispirato Paul Westerberg quando scrisse “anywhere is better than here”, Donna Gaines si accorge che non ha alcun strumento per confrontarsi con i genitori, o più in generale con gli adulti, fin troppo assorti nei loro problemi e poi incapaci, in modo palese, di affrontare la tragedia. Con i coetanei dei suicidi, non è molto differente: apatia e indifferenza sono due pareti dello stesso muro, la loro “terra desolata” coincide con quattro isolati delimitati dalle scuole e dalla ferrovia e il salto mortale dall’anonimato ai notiziari nazionali ha trasformato il dolore in rabbia. A volte svelata in risposte violente contro chiunque provi a superare invisibili linee di demarcazione; più spesso tradotta in minacciosi silenzi. Donna Gaines, forte delle esperienze vissute “nella strada” si avvicina con circospezione perché sa che non c’è modo di osservare asettico e scientifico e il dramma, più che sociologico e psicologico, è umano, troppo umano. Lei ha una piccola, grande chiave in più per poter aprirsi un varco e cercare di comprendere, se non proprio di condividere, il disagio di un’intera generazione. Il confronto con gli adolescenti, molti sopravvissuti a diversi tentati suicidi, diventa serrato, costante, aperto e utile perché parlando di musica (heavy metal, soprattutto), si lasciando andare a raccontare anche dell’inevitabile dramma del crescere e del trovarsi contro gli adulti, scoprendo le reali distanze tra sogni e delusioni, desideri e fallimenti. Ne esce un reportage vivido, che non fa sconti ed è capace di dare un nuova prospettiva (“Ecco cosa significa realmente cultura: redefinizione del passato nel presente”) nell’affrontare l’età, il tempo e un’America grigia e ammutolita che non sa parlare ai propri figli: “Da qualche tempo, i ragazzi trovano da soli le risposte e a modo loro interpretano le fratture dell’ordine sociale. Nonostante il degrado dei media e le disgrazie degli adolescenti, molti ragazzi americani hanno capito come sopravvivere. Hanno ricevuto meno delle generazioni precedenti, ma sono più forti e coraggiosi. Per questo meritano il nostro rispetto: se lo sono guadagnato giorno per giorno. Stiamo attraversando un periodo di declino ed è più difficile voler bene, essere forti, avere un’etica, tener fede agli ideali e restare a galla quando le cose vanno male”. Un libro forte e importante, per il suo coraggio e per la bellezza che riesce a scovare nelle pieghe della tragedia. 


lunedì 24 gennaio 2011

Jim Carroll

Per Jim Carroll i rituali di iniziazione alla vita non escludono nessun gradino della discesa negli inferi della civiltà metropolitana: droga (tanta e pesante), prostituzione, violenza, cinismo. Gli anni di un bambino “ingoiati dalla città” diventeranno i suoi “basketball diaries”, andata e ritorno nelle ombre della città che poi è sempre New York City. Agli elementi instabili e pericolosi della vita “wild in the streets”, Jim Carroll ne aggiunge un altro, altrettanto selvatico e velenoso, la scrittura (il rock’n’roll per il “catholic boy” arriverà in forma di salvezza, attraverso Patti Smith, ma questa è davvero un’altra storia) a cui affida il tormento e la bellezza delle sue visioni. C’è qualcosa di genuino nel perverso entusiasmo con cui Jim Carroll affronta le pagine dei suoi “basketball diaries” sbattendo nero su bianco il caos quotidiano di spacciatori, poeti, cestisti, musicisti, tossici, disperati di varia forma e naturata e almeno qualche altro milione di modi di vivere e (più spesso) morire. La sua narrazione, che qualcosa deve a William Burroughs, è scheletrica, grezza, eppure intensa. Con abbondanti dosi di autoironia, un colto fraseggiare e qualche punta di sarcasmo, non priva di una verve polemica (“Siete tutti vecchie palle al piede, governi di morte e accecanti capelli bianchi” scriveva, e come non è difficile condividerlo) i suoi “basketball diaries” rimangono una pagina cruda e indelebile di quella letteratura che ama frugare nell'oscurità, nelle backstreets, nei sogni asciutti e nei letti sfatti del Chelsea Hotel in cerca di una qualche luce. Il suo taglio è spietato, frutto della darkness metropolitana piuttosto che della ricerca intellettuale, delle esperienze “sul campo”, dove il tempo è scandito da quell’orologio chimico che non lascia scampo. La prima ancora di salvataggio sarà proprio la scrittura, una forza rivelatoria che si manifesta proprio con i “basketball diaries”, quando Jim Carroll scopre che “alla fin fine la droga è solo una delle tante versioni della gran menata dalle nove alle cinque, solo che le ore sono un po’ più spostate verso le ombre”. Una gabbia, una camicia di forza, un peso che ha l’effetto di costringere Jim Carroll a liberarsi per annusare un’aria diversa e per scoprire cos’ha dentro, per provare a sciogliere quel groviglio di decadenza umana di cui si è nutrito, ancora prima di conoscere tutto l’alfabeto. Il primo passo, ormai in fondo ai “basketball diaries”, sarà scoprire lettura e scrittura: “Più leggo, più capisco, ormai, un fatto che diventa ogni giorno più evidente, che ho bisogno di scrivere. Penso alla poesia e per come la vedo io è un blocco di pietra grezza che aspetta solo di essere modellato, cosicché le parole per me non sono mai un orribile limite, ma solo strumenti con cui dare forma. Prendo le immagini che mi vengono dall’archivio al piano di sopra (mi vengono sempre come immagini) e io le uso come mattoni, certe volte impilandoli bene bene e certe altre incasinandoli, così c’è il rischio che poi ti cascano addosso”. Sì, il rischio c’è sempre.

sabato 22 gennaio 2011

Amy Tan

In questo bel romanzo, stracolmo di personaggi femminili, Amy Tan comincia con un trucco piuttosto elementare (è un fantasma che racconta tutta la storia) ma che è efficace nel raggiungere un suo scopo preciso perché ad un certo punto dice: “come lettori siamo disposti a sospendere ogni scetticismo quando ci immergiamo in un romanzo. Vogliamo credere che il mondo in cui siamo entrati attraverso i portali dell'immaginazione altrui esista davvero, vogliamo credere che il protagonista sia, o sia stato, fra di noi”. Infatti la voce principale, è della compianta Bibi Chen, scomparsa in circostanze piuttosto misteriose e complicate nel suo negozio d’arte orientale di San Francisco. E’ lei l’ectoplasma che osserva dal suo nuovo status etereo le peripezie di un composito gruppo di turisti americano che si perde in un angolo remoto delle foreste della Birmania. E’ piuttosto relativo che il viaggio sia stato preparato nei minimi dettagli proprio da lei e che l’avventurosa comitiva si sia ritrovata, tutta insieme, al suo funerale: Perché i pesci non affoghino racconta con ironia e anche con una sottile patina di paura la scoperta di mondi ancestrali, di primitive realtà tribali, ma anche delle assurdità di un regime dispotico e crudele attraverso il picaresco viaggio degli amici di Bibi Chen. I quali non sono esenti (anzi) dalle nevrosi della civiltà occidentale: c'è chi soffre di ipocondria, chi non si capisce, chi è troppo giovane e chi si sente già vecchio, e praticamente tutti sono alla ricerca di un equilibrio o almeno di un punto di appoggio dove possa essere presa in considerazione la parola amore. Situazione che viene messa in risalto ancora di più dalle condizioni estreme in cui si vengono a trovare. La voce di Bibi Chen vorrebbe essere comprensiva e indulgente verso di loro ma con il tempo ha imparato che l'arte è “deliziosamente sovversiva, puoi vedere ciò che trapela a dispetto dell'autolimitazione, o forse grazie a essa. L'arte disprezza la placidità e le superfici lisce”. Allora si concede tutto un repertorio di commenti, racconti, storie e acidità che, insieme al gran movimento di personaggi e interpreti rendono Perché i pesci non affoghino quasi una sceneggiatura per un film sull’esotismo della nostra decadenza. E, pur affrontando snodi e passaggi piuttosto ingombranti, a partire dall’isolamento di un’intera nazione, con molto garbo, una scrittura florida e al tempo scorrevolissima, Amy Tan incanta il lettore lungo tutto l’arco del romanzo. Fornendo anche, in modo piuttosto esplicito, le motivazioni che stanno davanti e dietro le pagine, cioè il nocciolo duro che tiene insieme scrittura e lettura, due entità diverse e agli antipodi ma che non possono mai viaggiare separate. Una contraddizione che Amy Tan risolve in modo brillante lasciando dire a uno dei personaggi di Perché i pesci non affoghino: “Leggo per scappare in un mondo più interessante, non per essere rinchiusa in una prigione angusta e immaginarmi al posto di un altro”. Un'odissea tutta da scoprire.

martedì 18 gennaio 2011

Cormac McCarthy

Il vero serial killer di Figlio di Dio, un titolo che con ogni evidenza vorrà pur dire qualcosa, non è Lester Ballard (che comunque è un freak il cui nome è già destinato a entrare nella leggenda), ma la wilderness americana, che Cormac McCarthy racconta spietatamente e senza un briciolo di enfasi. L’afa, la neve, la terra che si squarcia e inghiotte tutto, la furia degli elementi, l’acqua che inonda la contea di Sevier, Tennessee, il fuoco e le gallerie umide dove Lester Ballard si nasconde: lui è il protagonista di una follia senza giustizia, ma sono l’humus, l’atmosfera, il paesaggio dove cresce gli elementi fondamentali di Figlio di Dio. Diventano una geografia attiva attraverso una scrittura fatta di frasi taglienti, brevissime, sincopate, uno stile ben lontano da lirismo della Border Trilogy: l’aria è quella irrespirabile di Il buio fuori ed appartiene al Cormac McCarthy crudo e violentissimo (quello che ha il suo apice nel capolavoro di Meridiano di sangue), ma con una vena urbana livida, come se i suoi primi romanzi (Figlio di Dio risale al 1973) fossero attraversati da una luce dipinta da Edward Hopper in acido. Nell’aura malefica e inquietante dell’amorfa, bucolica, bizzarra e paurosamente abbandonata provincia americana, la stessa in cui oggi covano le loro rabbie le milizie, i fondamentalisti e altre genialità simili, Lester Ballard è un outsider che ha deciso, e ha deciso di andare fino in fondo, “di continuare il suo viaggio perché tornare indietro non poteva, e quel giorno il mondo era bello come lo era stato tutti i giorni fin dal principio, e lui viaggiava verso la morte”. L’unica soluzione definitiva e in qualche modo eccitante che può offrire un paesaggio di allucinante desolazione, forse anche una prima avvisaglia dei paesaggi “fotografati” per La strada la fornisce Cormac McCarthy che incastra l’abominevole vita di questo figlio di Dio con apparizioni letali e disastrose che, però, visto il contesto in cui maturano, sono difficili da distinguere dal resto e da definire, in qualche modo, criminali. Non c’è ombra di dubbio che Lester Ballard abbia un legame perverso con la vita e che le sue orme siano piene di sangue, ma il suo punto di vista è univoco ed elementare: “Io non ho chiesto niente a nessuno in questa merda di città”. La comunità, gelida quanto il clima che la circonda, gli risponde senza esitazioni: “O trovate un altro modo di vivere, oppure vi trovate un altro posto al mondo per viverci”. E’ lì che Lester Ballard diventa un “sotterraneo”, un outsider assoluto tanto che “ci fossero state più buie regioni della notte, lui le avrebbe trovate”, eccome se le avrebbe trovate. In una contea, in una regione, in un’America dove violenza, razzismo, ignoranza formano un inestricabile groviglio di miserie (poco) umane, Lester Ballard alla fine risulta, se non proprio simpatico, almeno comprensibile nel suo delirio. Merito di uno scrittore, Cormac McCarthy, che pur nel suo privilegiato isolamento, era già da allora destinato ad occupare un posto importante nella letteratura americana. 

lunedì 17 gennaio 2011

Diane Thomas

Tra il 1955 e il 1956, Elvis Presley si sta lasciando alle spalle le sue prime incisioni per entrare nella televisione e diventare una delle più grandi leggende del ventesimo secolo. In quell’anno, The Year The Music Changed, appunto, intrattiene un rapporto epistolare con Achsa McEachern, una giovane, appassionata e intraprendente ragazza incastrata in una famiglia con troppi segreti. Con la precisione di una ricercatrice e l'affetto di un’appassionata, Diane Thomas inventa, per il suo esordio narrativo, un romanzo epistolare che nei suoi corrispondenti ha i due estremi dello stardom system: il fan da una parte e la rock'n'roll star dall'altra. Una condizione già vista e consumata in altre mille storie che però Diane Thomas fissa in un attimo speciale, quanto entrambi stanno per varcare una sottile linea oscura. Elvis Aaron Presley, l'impacciato figlio della working class, sta per diventare Elvis The Pelvis (e lui stesso se ne sta accorgendo tanto che Diane Thomas gli fa scrivere: “E sta succedendo tutto così in fretta. Sembra quasi che mi sono addormentato che ero ancora un camionista che stava studiando per diventare elettricista. Poi mi sono svegliato e cantavo il rock and roll e c'erano donne che mi strappavano i vestiti di dosso e avevo tanti fan quanto Hank Snow. Muoio dalla paura di addormentarmi di nuovo. Non ho idea di dove mi sveglierò la prossima volta”) e sa, l’ha sempre saputo, che non sarà un passaggio indolore perché, come confessa alla sua giovane amica “sembra che ci sono solo due strade davanti a me. O smettere di fare felici i miei fan. Oppure smettere di fare del male alle persone che amo. Devo scegliere”. Achsa McEachern, un nome che è già un programma, sta sgusciando dal bozzolo di un’educazione rigida e monotematica. Il dialogo, per quanto frutto della fiction, è avvincente proprio perché sottoscritto ai due diversi e controversi destini che però hanno qualcosa di molto profondo in comune: Achsa deve confrontarsi con le proprie radici mentre Elvis le sta abbandonando, destinazione Hollywood e/o Las Vegas. Il confronto è biunivoco e serrato. Lui le suggerisce come muoversi nei suoi primi passi all’aria aperta: “Il modo in cui cammini, i vestiti che indossi, dicono che tu sai di essere una bella ragazza. E la gente crede a quello che gli dici. Io ne sono la prova vivente”. Lei lo vede dal vivo e gli lascia un post scriptum che ha il sapore della premonizione: “Non avevo mai immaginato che cantare fosse così pericoloso. Grazie al cielo sei ancora vivo!”. Lettera dopo lettera, non prende forma soltanto un curioso e intenso rapporto tra fan e rock'n'roll star, che Diane Thomas sa leggere nelle sue più intime profondità, ma anche tutto un immaginario particolare che comprende James Dean e Bill Haley, i "southern accents" e il gospel, Ray Charles e Robert Mitchum e un’America ancora e sempre sospesa tra innocenza e ignoranza. Tra gli innumerevoli libri scritti per celebrare il fantasma più famoso del mondo questo è il più utile, il più garbato e anche il più intelligente.

lunedì 10 gennaio 2011

Jon Ronson

Uomini che uccidono le capre con lo sguardo, interrogatori a base di telepatia, armi segrete nascoste nel cervello di ogni soldato, LSD distribuito per vedere l’effetto che fa, pillole stop & go per restare svegli tre giorni di fila e dormirne altrettanti senza interruzioni: gli esperimenti senza fine dell’esercito americano per conquistare cuori e menti nella battaglia non hanno mai avuto limiti né di budget né di immaginazione, e su questa ricostruzione non si discute. Bisogna però partire con il piede giusto: L’uomo che fissa le capre, a differenza dalla sua interpretazione cinematografica, ha ben poco del romanzo. Jon Ronson, come succede spesso con giornalisti e storici americani e anglosassoni, usa un tono narrativo, se non proprio confidenziale, e questo può indurre in errore e pensare che tutto quello che racconta sia frutto di una fantasia illimitata e bizzarra. In qualche modo lo è davvero soltanto che non è la sua: è quella dei comandanti americani che nella sfrenata corsa a soluzioni sempre più micidiali e devastanti si sono infine rivolti all’unica, vera arma di distruzione di massa presente sul pianeta, il cervello umano. Jon Ronson, incontrando di persona ufficiali e responsabili di quelle esercitazioni a base di sforzi del pensiero e tentativi di attraversare i muri e superando una comprensibile incredulità iniziale (“Per un agnostico non è facile accettare l’idea che a volte i nostri leader e i leader dei nostri nemici sembrino convinti che la gestione delle faccende mondiali debba svolgersi, oltre che sul piano del reale, anche in una dimensione soprannaturale”) descrive una minima parte dei progetti speciali dell’esercito americano, con un particolare riguardo alle cosiddette operazioni psicologiche. Alcune hanno radici filosofiche indiscutibili (“Se capisci il nesso tra osservazione e realtà impari a danzare con l’invisibile”: lo direbbe anche Alejandro Jodorowsky), altre servono solo a dissipare enormi quantità di risorse pubbliche e altre ancora non nascondono l’unico obiettivo. Il solito, che uno degli intervistati di Jon Ronson spiega in maniera fin troppo chiara: “La guerra è sia una realtà fisica, sia uno stato mentale. La guerra è ambigua, incerta e sleale. In guerra, dobbiamo pensare e agire diversamente. Dobbiamo prepararci per tempo all’ultima e più importante prova dei fatti: il combattimento. Dobbiamo vincere sia la guerra, sia la pace. Dobbiamo essere pronti a dubitare di qualsiasi cosa”. Jon Ronson è brillante, acuto e coinvolgente e il suo reportage, pur tra le inevitabili omissioni e le frasi lasciate a mezz’aria rivela molti lati oscuri (e criminali) degli uomini che fissavano le capre ed è una lettura inquietante anche perché lascia intuire che abbia soltanto raschiato la superficie. Mettendo almeno in chiaro che la vera arma segreta della mente umana è la menzogna perché “chi travisa i fatti li controlla perfettamente, fin dall’inizio. E’ molto difficile leggere in controluce il significato di una storia che ci è stata propinata in un certo modo”. Efficace.

 

Samuel Fuller

Come Richard Schickel nell’introduzione a Il grande uno rosso “sono ben pochi i libri o film di guerra che danno in maniera così persuasiva al lettore e allo spettatore la sensazione di che cosa significhi combattere da soldato semplice in un’immensa impresa bellica, della distinzione puramente casuale tra chi deve vivere e chi deve morire e dell’altrettanto casuale elargizione ai soldati dei momenti di gloria”. Una contraddizione non è mai facile da spiegare, ma c’è qualche romanzo che, cercando di raccontare la seconda guerra mondiale, ha infine ricreato un’immagine concreta della follia nella vita e nella morte dei soldati nel ventesimo secolo. Tra gli altri, Il nudo e il morto di Norman Mailer, Comma 22 di Joseph Heller, La sottile linea rossa di James Jones e, appunto Il grande uno rosso, hanno molto in comune nella loro “lettura” della guerra perché, come dice Samuel Fuller nel suo epilogo sanno che “la guerra significa morte”, ma non solo. Significa la follia di vivere, e più spesso morire, in “un sogno dal quale non ci si poteva riscuotere, perché non c’era nessun sogno da scacciare. Era realistico in un mondo irreale”. “Vivere, vivere, vivere” che è poi l’unica e l’ultima vera conquista in guerra, o “l’unica vera gloria” per dirlo ancora con Richard Schickel, dipende per gli uomini che portano il grande uno rosso, così come per tutti gli altri soldati, dalla gestione quotidiana, secondo per secondo, di un linguaggio che si nutre di superstizioni, di storie, di battute, di fantasmi, di aneddoti. Come se fosse in grado di bilanciare il caso che aspetta nel secondo successivo, qualche millimetro più in là, nella forma di un frammento di metallo che viaggia più veloce del suono. “Una pallottola vagante non aveva coscienza. Uccideva soldati armati e disarmati con la stessa oggettività con cui uccideva i civili. Non c’erano spettatori innocenti. Tutti erano bersagli in una zona di guerra. Chiunque si trovasse di fronte alla canna di un’arma da fuoco era il nemico” e si capisce già da questo passaggio che le linee di demarcazione se non il senso vero e proprio della battaglia sono imponderabili, una volta sul campo. Le immagini sono in grado di descrivere solo fino ad un certo punto il terreno scivoloso che, al fronte, divide la realtà dalla sua ricostruzione. E’ già un argomento metafisico e filosofico in condizioni “normali”, figurarsi nelle sabbie del deserto africano, per le strade italiane e sulle spiagge normanne dove la morte coltivava una delle sue più esuberanti stagioni. Per inciso, il viaggio nel Mediterrano e poi attraverso lo stretto di Gibilterra ha dell’epico, anche se, senza dubbio, il soldati del grande uno rosso direbbero di “non appestare l’aria con il tuo gas intellettuale”. E’ più spontaneo e naturale trovare un collegamento Comma 22 di Joseph Heller, diventato l’emblema delle follie militariste quando Samuel Fuller fa dire a uno dei suoi guerrieri: “Sapeva che in guerra esistevano leggi sui civili, ma sapeva anche che, siccome la guerra era pazzia, non potevano esistere regole tra pazzi”. Senza via di scampo.

giovedì 6 gennaio 2011

Jerome Charyn

Cosa succede se un poliziotto dalla morale inattaccabile e dal cuore fin troppo tenero, ma cresciuto rispondendo colpo su colpo alle durezze delle strade del Bronx diventa sindaco di quella Babilonia in terra che risponde al nome fittizio di New York? La risposta a questa domanda vale un milione di dollari, anzi di più: tutto il campionato di baseball americano e un intero quartiere a cui Isaac Sidel, detto il Puro, non esiterà un attimo a dedicare ogni sua forza per reagire a chi oserà calpestare impropriamente la terra del suo Bronx. Degno capitolo di quella saga metropolitana che annovera altri gioielli noir come Occhiblù e Marylin la Selvaggia, Bronx  sembra piuttosto un particolare estratto di Metropolis, probabilmente il capolavoro narrativo di Jerome Charyn. Perché è sempre New York (“L'unica città al mondo dove le comunità esplodono e muiono con tanta regolarità che nessuno se ne accorge”: la definizione è dello stesso Jerome Charyn, proprio in Metropolis), quella ragnatela di interessi, razze, uomini e donne che sembra vivere una vita propria, nascondendosi dietro le gesta insieme epiche e confusionarie di personaggi che si chiamano Joey Barbarossa, Candida Cortez e, al di là del bene e del male, lui, El Caballo, Isaac Sidel detto il Puro. Un sindaco che crede ancora di essere il poliziotto di un tempo e che non esita un secondo a tirar fuori la sua pistola (sempre nella cintola perché il Bronx è un posto dove una Glock è uno status symbol) per ristabilire la (sua) legge. Non inganni lo stile picaresco, volutamente caotico e surreale di Jerome Charyn: la visione alterata (ma nemmeno tanto) di eventi che potrebbero essere cronaca (nera) e dramma garantisce un ritmo serratissimo che fanno, sì, di Bronx  un perfetto romanzo noir (o thriller, o giallo o poliziesco) ma anche un bellissimo affresco della vita metropolitana americana: poliziotti che diventano delinquenti, circoli culturali dove si decidono i destini della città, bande metropolitane con nomi di tribù indiane, strade trasformate in campi di battaglia, squadre sportive dal taglio di associazioni a delinquere. Difficile credere sia soltanto Bronx, l'ultimo romanzo di Jerome Charyn. O è Jerome Charyn che, pur divertendosi ad inventare un noir dopo l'altro, ha capito tutto. O quasi, perché laggiù, come ovunque, la scrittura è anche autodifesa: “Ho cominciato a scrivere perché le parole erano l'unico mezzo per collegarmi al mondo. Non ho mai considerato la scrittura una professione, malgrado mi consentisse di guadagnare qualche soldo. E’ stata l’arma con cui combattere le scariche elettriche che mi vibravano nel cervello, un modo per trovare coerenza e musica, per risolvere il caos e allo stesso tempo per avvicinarmici senza essere risucchiato da qualche suo buco nero”. Come si può vedere, gli bastano poche righe di un'intervista (tratta da L'arte dello scrivere, a cura di Sybil Steinberg) per farsi capire e per suggerire uno spunto, un'idea, un briciolo d'ispirazione: un uomo del nostro tempo. 

mercoledì 5 gennaio 2011

John Cheever

Attorno a un laghetto, destinato a diventare discarica, e a un enigmatico personaggio Lemuel Sears, che si vota a difenderlo dall’inquinamento e dall’ingordigia, si sviluppa una rete di rapporti, di legami e di intenzioni che viene dipanata da John Cheever come una lunga suite jazzistica. John Cheever asseconda i suoi personaggi e “il loro andare alla deriva” costruendogli attorno un ambiente linguistico perfetto tanto per la loro mutevole moralità quanto per il suo tagliente stile. Va da sé che è proprio il protagonista di Sembra proprio di stare in paradiso, Lemuel Sears, persona che attira a sè tutta la storia, molto loquace (“Aveva voluto bene ai suoi cari genitori, aveva voluto bene a insegnanti e amici, e il suo bene era stato ricambiato, e un sentimento amorevole aveva perfino illuminato la sua esperienza nell’esercito; perché, allora, era così suscettibile a una ostilità che non aveva mai conosciuto prima?”) e molto presente, a riassumere la somma e il riflesso di tutti personaggi e il “paradiso” di cui parla il titolo con la consueta ironia (se non proprio sarcasmo), è un posto destinato a diventare una discarica che attira l'attenzione e, a sua volta, è lo snodo di tutte le storie che si intrecciano nel breve romanzo. Uomini, donne e ambiente in realtà si intersecano in una luce livida che nel linguaggio di John Cheever, nella sua cifra stilistica, si traduce in dialoghi brucianti, senza pietà, spesso conditi da nozioni tecniche e piccoli frammenti di introspezione in un collage molto postmoderno. John Cheever tende ad allargare lo sguardo arrivando a compiere ampie panoramiche storiche (“Proprio perché inespugnabili, le fortezze dell'antichità hanno vinto il tempo più dei mercati di piazza facendo prevalere la convinzione che paura e bellicosità fossero le pietre miliari nelle nostre prime comunità, mentre in realtà erano proprio quei crocevia, dove gli uomini si incontravano per barattere pesce con cesti, verdura con carne, oro con spose, i veri posti dove per la prima volta abbiamo imparato a conoscerci e a comunicare gli uni con gli altri”) che hanno portato la civiltà occidentale ad una decadenza irreversibile, ma anche repentine svolte nei microcosmi umani, in particolare quello piuttosto tormentato di Lemuel Sears (“Può darsi che per un uomo della mia età l'amore sia qualcosa di sfuggente”). Ne esce così un piccolo capolavoro di equilibrio dove l’habitat non è minacciato soltanto in luogo del laghetto ghiacciato dove Sear ama pattinare, ma anche nella complessa delicatezza e nell’instabile equilibrio dei rapporti umani. L'ecologia di John Cheever, diventa, sulla pagina, una scrittura in forma superiore, anche se molto spigolosa, che è la lingua perfetta per un “paradiso” piuttosto noir, acido e molto americano (e in questo ancora oggi molto attuale). “Una storia da leggere a letto, in una vecchia casa, in una sera di pioggia” come scrive nel brillante incipit e forse, visto che lo scrisse a poche settimane dalla morte, persino una specie di testamento. 

martedì 4 gennaio 2011

Elliott Murphy

Quello che vede John Little (o Petit Jeanne) ancora bambino lo segnerà per tutta la vita: il padre ammazzato senza pietà e per motivi ancora meno che futili dallo sgherro di un politicante prepotente e corrotto. E’ solo l’inizio, drammatico e feroce, di una lunga saga ambientata nelle terre di frontiera (americane) alla fine del diciannovesimo secolo, ma anche nei bassifondi di New York e lungo i meandri della storia di una nazione. La cui sorte, per parafrasare un passaggio dedicato alle figure femminili del romanzo, è stata infine molto, molto diversa dalle sue ambizioni. Qualcosa dipende anche dalla difficoltà nel distinguere la vendetta dalla giustizia, nel considerare una libertà individuale (intoccabile) quella di possedere e usare le armi da fuoco, fin dai primissimi giorni della frontiera. In quelle condizioni John Little si accorge che la sua scelta del tutto personale, come è evidente, e dettata dall’istinto, è invece piuttosto comune perché nonostante il “destino manifesto” nell’America di frontiera “bisognava essere folli per credere che il timore del castigo potesse dettare legge e mettere ordine nel cuore di un uomo, quando le possibilità di farsi arrestare per i crimini più atroci dipendevano dalla velocità del proprio cavallo di partire al galoppo verso una giurisdizione più clemente”. Quando non si può più fuggire, la scelta è obbligata e l’altra ferita, lacerante e a suo modo definitiva, che impone a John Little d’impugnare le sue pistole, è vedere, dopo il padre ucciso, la madre costretta a uccidere e a giustificarsi senza particolari tentennamenti: “Figlio mio, ho perso tutto quello che c’era di buono e di puro nella mia vita, e a quel punto non potevo che sposare il male. Era l’unica forza che poteva farmi smarrire del tutto e cancellare per sempre la felicità perduta. Il male era più forte del mio dolore”. Indurito da un’educazione così feroce, John Little diventa un cavaliere solitario, ma dato che “la vendetta, quella vera, non è mai anonima”, le sue missioni e la sua abilità con grilletto e mirino diventano sempre più richieste in terre di nessuno dove tra autodifesa e giustizia non c’è molta differenza. Il finale è tutto meno che scritto (“Non sono certo di essere sopravvissuto a niente” dice John Little) anche se questo “romanzo western” come si premura di precisare il sottotitolo, Elliott Murphy incarna tutto lo spirito di quell’epopea e lo fa riassumere al suo protagonista in una dichiarazione che è qualcosa di più del proposito di una vita: “Vendicare l'onore di un uomo non m’interessa e non ammazzo neanche gli indiani. A modo mio faccio rispettare la legge, proprio come voi. Non sono altro che un'appendice della legge in queste regioni senza legge”. Il cuore e l'anima del romanzo sono, con ogni probabilità, proprio in queste righe, anche se poi Elliott Murphy sfoggia una padronanza di miti e leggende americane che è pari soltanto al suo talento musicale. A partire da Walt Whitman che è il vero compagno di viaggio e di vendetta del piccolo e indomito eroe.

lunedì 3 gennaio 2011

Joe Bageant

Raccontare una nazione retta da un’economia che “consiste nel far circolare 250 milioni di veicoli fra i sobborghi residenziali e i centri commerciali e nel mangiare pollo fritto” è un’impresa più impossibile che complicata, già soltanto da un punto di vista peculiare, per quanto strategico. Joe Bageant, veterano di mille battaglie giornalistiche che ha scoperto il mondo della rete, ha scelto di cominciare da quel luogo comune che è la provincia o meglio, per usare un termine che ben conosciamo, quell’“heartland, cioè l’America profonda, cioè tutto quello che sta tra una grande città e l’altra”. Nello specifico, il suo è un ritorno a casa perché è da lì che proviene, da Winchester, Virginia, uno dei tanti avamposti dove vivono quegli “americani semplici, separati dal resto del mondo dalla certezza che è meglio essere americani piuttosto che qualsiasi altra cosa, anche se in realtà non siamo in grado di dimostrare perché”. Joe Bageant, Joey per gli amici e i parenti, è uno di loro benché in gioventù abbia abbracciato Allen Ginsberg, l’LSD, il rock’n’roll e qualche altro piccolo sogno. Torna nella sua hometown non per nostalgia o per la famiglia: per spiegare che “se si vuole prestare fede alla leggenda nazionale, tutti questi lavoratori senza nome in competizione fra loro rappresentano una sorta di grande classe media americana. Ma la verità è che siamo un paese di proletari”. Di poveri, detto in parole più consone al tenore usato da Joe Bageat visto che La Bibbia e il fucile è scritto in modo crudo, sciatto come il gergo, il linguaggio white trash che ha dovuto affrontare seduto ai tavoli del Royal Lunch, nome altisonante per la birreria locale che ha scelto come base di partenza. Lo storytelling, persino le chiacchiere a un passo dalla sbronza, diventano uno strumento d’inchiesta giornalistica e producono un un libro scomodo e coraggioso, che scoperchia realtà inquietanti. La distanza tra l’heartland e la classe dirigente, per snobismo da una parte, per interesse dall’altra, è soltanto un aspetto, nemmeno il più rilevante. La cultura delle armi (“Il diritto di possedere armi per loro è sinonimo di libertà”) narrata in La valle del fucile, un capitolo illuminante e spiazzante, quella dei consumi (e dei relativi debiti) o ancora il propagarsi del fondamentalismo religiosio hanno ruoli decisivi nel definire le apocalittiche condizioni dell’heartland, però Joe Bageant, una birra dopo l’altra e conversazione dopo conversazione si accorge che la sua gente “non cita fatti reali. Recita quello che assimila dall’atmosfera”. Alla Bibbia e il fucile, due simboli che sintetizzano la “militarizzazione” della cultura americana va aggiunta la televisione, “tutta questa fantasmagoria frenetica, sfavillante e digitale” che ha intrappolato la repubblica in un ologramma tanto che “gli americani, ricchi o poveri, ormai vivono in una cultura intessuta esclusivamente di illusioni”. Il prezzo da pagare non si è ancora rilevato per intero, anche se tra guerre infinite, crisi economiche e disastri ambientali non è difficile immaginare chi paghi il conto dell’american dream in chiave di assistenza, istruzione, sicurezza e, più in generale, convivenza civile: più che di America “profonda” si dovrebbe parlare di America “sprofondata”. 

Charles Bukowski

La sua storia, esemplare, è quella di un fuoriclasse che si distingue ancora nitida, netta, senza possibilità di errore, a distanza negli anni. E’ un solido macigno che pesa ancora sulla coscienza di tutti gli intellettualoidi che non si sono mai sforzati di capirlo, forse perché raccontava la vita (e la letteratura) in maniera troppo cruda e sincera per loro. In questa prova di forza si distingue Il Capitano è fuori a pranzo, una specie di diario surreale, e nello stesso tempo lucidissimo, che Charles Bukowski ha tenuto tra il 1991 e il 1993, poco prima di morire. Le scommesse alle corse, i suoi gatti, i visitatori più o meno graditi, la sua vita (“A volte mi sento come fossimo tutti prigionieri di un film. Sappiamo le battute, sappiamo dove metterci, come recitare, manca solo la macchina da presa. Però non possiamo uscire dal film. Ed è un brutto film”) sono il centro focale del libro, ma più che in altre situazioni, Bukowksi si dedica volentieri anche a qualche meditazione sulla scrittura, sulla narrativa, sui libri. Con una generosità che ribalta l’immagine da pigro incallito e incontinente e ce lo riconsegna come “un gran lavoratore”, definizione offerta per gentile cortesia di Fernanda Pivano, la cui voce è unica e riconoscibile, come quella voce di un vecchio amico. Le sue “lezioni” di scrittura creativa sono perentorie e minimali, ma tradiscono una passione sterminata e con uno stile che non lascia adito a molte interpretazioni è prodigo di consigli, suggerimenti e aforismi: “Il primo compito della scrittura è salvarti il culo. Se ci riesce, allora è automaticamente vivace, divertente”. Le difficoltà non sono escluse, ma “non c’è niente che possa impedire a un uomo di scrivere, tranne se stesso. Se uno desidera scrivere, lo farà. I rifiuti e il ridicolo serviranno solo a rafforzarlo”. Anche perché in fondo “c’è solo un giudice ultimo della scrittura ed è lo scrittore” e il Buk si è inventato una versione tutta sua del rigore e della disciplina che riassume così: “Uno scrittore non ha niente da dare se non quello che scrive. Al lettore deve nient’altro che la disponibilità della pagina stampata. E il peggio è che molti di quelli che bussano alla porta non sono nemmeno lettori. Hanno solo sentito parlare di te. Il miglior lettore e il miglior essere umano sono quelli che mi fanno la grazia della loro assenza”. E’ una delle tante teorie che gli scappano tra un resoconto di una corsa e una bottiglia di vino, con il contorno dei disegni di un altro superbo outsider, ovvero Robert Crumb, quanto mai appropriati al personaggio e al libro. La sua stessa biografia svela come Charles Bukowski sia riuscito a “ribaltare tutti i pronostici” che, come sembra ovvio, lo davano perduto e fallito in partenza. Invece no, eccolo qui, a scadenze regolari, a raccontarci che “alla fine non vince nessuno, si cerca soltanto una tregua, qualche momento fuori dalla luce”. L'unica cosa che possiamo rimproverare, al grande Buk, è solo che non amava un granché il rock'n'roll. Poco male: nessuno è perfetto, ma lui ha vinto la sua scommessa più importante.