lunedì 29 novembre 2010

Don DeLillo

Don DeLillo cominciò a lavorare ad Americana nel 1966 e continuò per quattro anni, “scagliando le parole sulle pagine”, come ha detto lo stesso autore. Pubblicato per la prima volta nel 1971 e in seguito in un'edizione rivista (e tagliata da Don DeLillo in persona di una decina di pagine) Americana è un viaggio on the road che non ha nulla da spartire né con gli storici precedenti né con le cicliche e successive imitazioni. La trama è esigua: Dave Bell è un giovane produttore televisivo con base a New York a cui la propria vita comincia a dare la nausea. Le voci di corridoio, il rumore di fondo delle feste (“Eravamo lì per incontrare gente interessante con cui chiacchierare, quindi rivederci alla fine della serata e dirci quanto ci eravamo annoiati e com'era bello ritrovarsi. E' questa l'essenza della civiltà occidentale”), le sbrigative pratiche sentimentali, il sottofondo impersonale ed insistente della televisione lo spingono a compiere “il grande balzo nelle profondità d'America”. Con pochissima olografia e senza retorica: l'umanità e il paesaggio visti da Dave Bell passano attraverso l'obiettivo della sua cinepresa portatile, nel tentativo di ricreare qualcosa di irrimediabilmente perduto. Lui e i suoi compagni di viaggio ammettono candidamente: “Non avevamo tempo per ricordare niente”, e forse anche un film può contribuire a costruirsi un bagaglio di memoria, di storia, utile a capirsi trent'anni dopo. L'interpretazione è stata suggerita dallo stesso Don DeLillo in un articolo uscito un anno dopo la pubblicazione di Americana, romanzo talmente proiettato nel futuro che ritorna costantemente nelle sue riflessioni. In un'intervista del 1993 ha provato a darne una definizione più completa: “Non è un caso che il mio primo romanzo si chiami Americana. Era una personale dichiarazione d'indipendenza, la dichiarazione ufficiale della mia intenzione di usare l’intera immagine, l’intera cultura. L’America era ed è un sogno di immigranti, e come figlio di due immigranti ero attratto dal senso di possibilità che ha trascinato i miei nonni e i miei genitori”. Per capire dove quel sogno è diventato paranoia bisogna seguire David Bell fino in fondo, nelle ultime righe, quando, così vuole la coincidenza, si sta muovendo nel centro di Dallas: un percorso destinato a diventare un enigma e un luogo da cui ha preso forma il successivo romanzo di Don DeLillo, Libra, ma questa, come si dice sempre, è tutta un'altra storia. In apparenza Dave Bell è concentrato sul suo viaggio (“Giorno dopo giorno, mi sento sempre più profondo. Spesso mi sento alle soglie di grandi rivelazioni filosofiche. Sull’uomo. La guerra. La verità. Il tempo. Per fortuna, finisco sempre per tornare a me stesso”) almeno quanto DonDeLillo, attraverso il suo protagonista, è teso a capire e spiegare una nazione spaccata tra un passato tutto da costruire e una modernità fin troppo evanescente che gli fa scrivere “l’America può essere salvata solo da ciò che cerca di distruggere” e il senso di Americana (sia il romanzo, sia, nello specifico, il termine) forse sta tutto lì.

venerdì 26 novembre 2010

Richard Yates

Richard Yates non è uno scrittore a cui è stato concesso molto (almeno quando era in vita) non meno di quanto si sia concesso lui. Un certo rigore, ai limiti dell’autolesionismo, si percepisce distintamente leggendo questi racconti (ancora di più i romanzi, tra cui il fondamentale Revolutionary Road) e si traduce in una narrativa contagiosa che ha influenzato, tra gli altri, Richard Ford, Tobias Wolff, Robert Stone. Non uno scrittore qualsiasi, quindi: la sua scrittura è sempre un confronto con l'inadeguatezza, che in Undici solitudini sembra essere il destino ultimo della varia umanità che lo popola. Più beffardo, che drammatico. I personaggi di Richard Yates anelano infatti a fare la cosa giusta, ma finiscono sempre per farne un’altra, quella sbagliata. C’è qualcosa che va al contrario nelle loro intenzioni, un piano inclinato che improvvisamente si mette di traverso e che Richard Yates non risparmia a nessuno. La loro goffaggine, a volte surreale, altrimenti crudele, sempre e comunque disarmante, è raccontata senza filtri anche perché la considerazione del genere umano di Richard Yates è piuttosto esplicita, e nemmeno tanto edificante: “Se il mio lavoro ha un tema, sospetto che sia un tema molto semplice. Gli esseri umani sono irreparabilmente soli, e lì c'è la loro tragedia”. La solitudine non è vista come una condizione esistenziale, un momento della vita, piuttosto come un elemento disgregante, una sintesi delle frustrazioni, delle ambizioni e degli orizzonti perduti di una civiltà, di una nazione, di un mondo. Non c'è sogno americano che tenga, non c'è terra promessa. Richard Yates non concede nulla nemmeno ai suoi personaggi, l’happy end non è né previsto né preso in considerazione e le sue “solitudini” sono amare, e basta (nemmeno tristi, neanche malinconiche, spesso, invece, piuttosto livide), ma hanno l'importanza da chi vede il mondo da una prospettiva particolare, davanti a tante esistenze e a tanti mondi che non fanno altro se non mascherare il proprio fallimento, la propria inadeguatezza, nascondendosi dietro certe condizioni di luce. Sarà per quello che i racconti di Richard Yates si aprono davanti al lettore come scenari teatrali: nella cornice dettata dalle convenienze e dalle consuetudini, irrompe il disturbo, la frattura e persino l’assuefazione diventa un problema. Le immagini si svolgono su un ritmo secco, preciso, scandito nitidamente dalle parole e dalla loro organizzazione della scrittura. Un ritmo che, a differenza delle logiche di molta letteratura di consumo, non si vuole imporre, non cerca di trascinare (il lettore), ma lo accompagna passo per passo in un mondo dove regna sovrana l’inadeguatezza del genere umano, la stessa che Richard Yates rifletteva per sé e per tutti così: “Nessuno di noi sa mai quanto tempo gli rimane, né come sarà in grado di usare questo tempo, e in ogni caso, anche se lo userà bene, il suo lavoro dovrà sempre affrontare la terribile, inesorabile indifferenza del tempo stesso". Un grande scrittore.

James Agee

Il giovane Richard, adolescente portato all’introspezione, deve misurarsi con l'intenzione di vegliare tutto il venerdì di Pasqua. Il proposito nasce anche “dalla paura e dall’orrore che gli procurava la sola idea che altri, qualunque altro al mondo, potesse conoscere le assurde fantasie del suo cuore”. Nell’atmosfera di ombre e silenzi della notte, Richard si scopre a dialogare su una linea metafisica che separa maledizione e innocenza con toni tutt’altro che infantili. “Nessuna cosa ne compensa un’altra. Confessa che tu invece lo avevi creduto. Cercò d’immaginare come confessarlo. Sono caduto nel peccato d’orgoglio e in qualche altro peccato che ignoro” dice mentre si avvia ad affrontare il crepuscolo della sua ingenuità. Una specie di atto di fede che si sviluppa in tre capitoli, durante i quali Richard diviene sempre più “consapevole del proprio fallimento e della notte”. La storia funziona benissimo (e sembra di vedere le radici più antiche di Stand by Me ) e ha un ottimo finale, ma come annota William Rewak nella postfazione, ogni paragone con Sia lode ora a uomini di fama  è controproducente perché La veglia all’alba “non ha la stessa ampiezza, gli stessi tratti audaci, le stesse aspre contrapposizioni di colori, ma esteticamente è più maturo con le sue tinte tranquille, con l'uso attento delle immagini che mirano a suggerire più che a evidenziare le opposte realtà, con le sue pennellate delicate, quasi tenere, e con sua consapevole intenzione di costituire un'opera d'arte, ordinata e formale”. Molto curiose anche le reazioni che seguirono all'apparizione di un nuovo e scomodo adolescente americano, pronto a far compagni ai vari Holden o Huck Finn: qualcuno ci vide una sorta di rifiuto dell'american dream, altri un'addio all'innocenza, che non guasta mai. E' forse più probabile invece che il senso elegiaco de La veglia all’alba e quel continuo tentativo di confrontarsi con la morte siano dipesi dalle tensioni vissute da James Agee. “L'umanità in generale è ancora largamente inconsapevole della situazione in cui si è venuta a trovare. Si parla molto di come rinchiudere il nuovo mostro in una gabbia indistruttibile, ma pochi ammettono che il vero mostro è la razza umana” scriveva nel novembre 1945, e il mostro in questione è la bomba atomica che, soltanto un paio di mesi prima aveva cambiato completamente la percezione della vita e della morte. E’ anche per questo che dietro al breve e classico romanzo d'iniziazione, che suonerà un po’ strano per chi ha conosce James Agee solo attraverso Sia lode ora a uomini di fama, La veglia all’alba è anche il caso raro e atipico di uno scrittore dichiaratamente comunista e pieno di domande, come è giusto che sia (“In che modo siamo rimasti intrappolati? dove, lo sbaglio che abbiam fatto? cosa, come, dove quando, in che modo, tutte queste cose avrebbero potuto essere diverse, se solo avessimo agito? se solo avessimo saputo” scriveva in Sia lode ora a uomini di fama.) che affronta un tema di fede, con tatto indiscutibile e grande lirismo. 

Edward Bunker

L’educazione, se si può chiamare così, di Alex Hammond, il nostro Little Boy Blue, è una lunga, crudele e spietata teoria di case di correzione, affidamenti, manicomi, riformatori, ghetti e vicoli ciechi. Qualcosa che si può scoprire anche nella stessa autobiografia di Edward Bunker, Educazione di una canaglia (dove confessa senza censure quel disagio che è nello stesso tempo la spinta principale che lo tiene aggrappato alla vita: “Io non avevo nessuna idea di ciò che volevo, tranne che sentivo in me la rabbia di attraversare le esperienze della vita e un desiderio altrettanto potente e urgente di conoscenza”) o altrimenti in Cane mangia cane o Come una bestia feroce. In fondo, il mondo che racconta Edward Bunker è sempre lo stesso e le sue storie sembrano lunghi blues che spesso si ripetono in circoli viziosi, ma il punto è che non è un mondo che viene raccontato molto spesso perché per respirare l’aria dei bassifondi, delle autorità ciniche e violente, della freddezza della burocrazia che non distingue un bambino solo e disperato da un criminale incallito, ci vogliono coraggio, sensibilità e altrettanta esperienza. Ad Edward Bunker, che ha frequentato la miglior scuola di scrittura creativa possibile, ovvero la strada, le doti e i vissuti non sono mai mancati: è entrato ancora adolescente in uno dei peggiori carceri americani, San Quentin, e, in diversi periodi e per varie condanne, dietro le sbarre ha passato quasi vent’anni. L’hanno salvato la lettura, prima, e la scrittura, poi, perché in quei momenti bui, tristi e violenti “un libro era un libro, un varco possibile verso luoghi lontani e meravigliose avventure”. Di riflesso, succede ad Alex Hammond. Anche Little Boy Blue “infatti, finché aveva dei libri, preferiva vivere nei mondi che narravano, piuttosto che nelle brutture del mondo reale”. Fuori, c’è la California, Hollywood, l’oceano, il deserto, ma non c’è mai un happy end. Anzi, spesso è proprio nel finale che tornano ad aprirsi gli abissi della vita criminale, come nelle ultime, spietate pagine di Cane mangia cane o nell’ormai disperata determinazione di Come una bestia feroce (“Fanculo alla società. Fanculo al suo gioco. E se anche le difficoltà erano molte, fanculo anche a quelle) o per lo stesso Little Boy Blue che vede disintegrarsi, in una spirale sempre più subdola e straziante anche le ultime, residue possibilità di una vita più o meno normale. Con questo, non si perde nulla di ciò che potete scoprire leggendo Edward Bunker (magari proprio a partire da Little Boy Blue) perché la sua storia, le sue storie, non vivono della suspense del thriller o del fascino maledetto del noir (come nei libri di James Ellroy, suo dichiarato ammiratore, tra i tanti). Sono un affresco vivo, tagliente, privato di qualsiasi edulcorazione e senza un filo di consolazione di un mondo di outsider, di fuorilegge e di disperati a cui, se non altro, Edward Bunker è riuscito a restituire la dignità di un ricordo. Se non serve a questo la scrittura, allora non serve a niente.

giovedì 25 novembre 2010

James Lee Burke

È difficile invecchiare, anche per un duro come Dave Robicheaux, il personaggio di tanti romanzi di James Lee Burke che in Ti ricordi di Ira Durbin? è più crepuscolare e contradditorio che mai. È solo con il suo gatto e il suo procione e si sposa una suora. Dovrebbe avere l’età per andare in pensione, ma attira più guai di un parafulmine in una tempesta del Golfo. Sostiene che il passato è alle spalle (“Ho imparato per esperienza personale che l’età non porta molti doni, ma uno di questi è la consapevolezza che il passato è passato”) e, giusto per completare l’opera, va a riesumare la storia di Ira Durbin, una ragazza di cui si era perdutamente innamorato il fratellastro, Jimmie. Il flashback riporta tutti all’ultimo scorcio degli anni Cinquanta, “la fine di un’epoca che, credo, gli storici potrebbero considerare l’ultimo decennio dell’innocenza americana”, come scrive nell’incipit. 
Dave e Jimmie sono a mollo nell’oceano e non si accorgono della tempesta e degli squali in arrivo. Una bellissima ragazza li avvicina con un’imbarcazione di fortuna e li aiuta a raggiungere alla riva. Colpo di fulmine, e dato che nei romanzi di James Lee Burke tutti vivono due o tre vite contemporaneamente, si scopre che Ira Durbin suona il mandolino (in verità avrebbe sempre desiderato una chitarra, una Martin, per la precisione, ma questa è un’altra storia) e canta straordinariamente bene, ma è anche una prostituta. L’innamoratissimo Jimmie farebbe qualsiasi cosa per lei. Le paga persino delle incisioni delle sue canzoni e le spedisce alla Sun Records, a Memphis perché “è lì che hanno cominciato Johnny Cash e Elvis Presley. Anche Jerry Lee Lewis”. La love story finisce subito in rissa perché una prostituta è un investimento redditizio e a lungo termine e due sbarbati non hanno molte possibilità di cambiare le regole del gioco e della strada. Ida Durbin sparisce nel nulla, ma ci sarà sempre il suo nome al centro di un vortice promiscuo e ambiguo in cui si intersecano gli efferati omicidi di un serial killer, i contorti legami famigliari di una casta che crede di vivere ancora gli ultimi giorni della guerra di secessione, l’intreccio sordido tra politica, informazione e inconfessabili business criminali che rende irrespirabile l’aria del bayou, di New Orleans, della Louisiana e dell’America tutta. Dave Robicheaux, per quanto confuso e disordinato (nonché seguendo le convinzioni sbagliate, le sue) se ne va contro i mulini a vento con un moralità scricchiolante, viene preso a legnate, non fa mai quello che pensa e pensa troppo a quello che ha già fatto (dei bei disastri, solitamente) ma in fondo, se proprio non aveva visto giusto fin dall’inizio, almeno è l’unico ad avere una visione d’insieme. 
Niente di nuovo, si dirà: il paesaggio e i personaggi (compreso il folle socio di Dave Robicheaux, Clete Purcel, che arriva in scena con la forza di un ciclone tropicale) non sono cambiati, ma va bene così. James Lee Burke è come il tabasco: è sempre lo stesso, ma è bello saporito e in Ti ricordi di Ira Durbin? è anche molto ispirato perché, per citare una delle letture preferite di Dave Robicheaux (Sant’Agostino) “il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuito, il presente del futuro è l’aspettazione”, e tutto quello che succede in quel particolarissimo angolo d’America attorno al Delta e davanti all’Africa è sempre un viaggio nel tempo.

John Steinbeck

E' organizzata molto bene quest'antologia di saggi di John Steinbeck che recupera articoli, estratti e altri frammenti in una serie di percorsi piuttosto logici, introdotti con chiarezza dalla prefazione, in aggiunta all'originale, di Bruno Osimo. Una nota non relativa dove si spoglia di ogni residuo ideologico e/o politico la figura di John Steinbeck, capace di esprimersi a favore di Arthur Miller (e contro la commissione reazionaria del senatore McCarthy) ma anche di appoggiare l'intervento americano in Vietnam, pur ricordando le deformazioni della guerra e l'essenza alienante degli eserciti, su cui si esprimerà spesso e che in questo caso vengono ricordate così: “Ci sono molti modi di portare il cappello o il berretto. Uno può esprimere qualcosa inclinandolo di lato o in avanti, ma non con l'elmetto. L'elmetto lo puoi portare in un modo solo, non ce ne sono altri. Si appoggia sulla testa, giù sugli occhi e le orecchie, giù sulla nuca. Con l'elmetto addosso uno è solo un fungo in una distesa di funghi”). Ne emerge, alla fine, un ritratto elaborato e composito che prende il via dai “luoghi del cuore” (Salinas, la California) e in qualche modo vi ritorna, in chiusura, quando John Steinbeck eleva una sorta di apologia in nome dell'America e degli americani, dichiarando “la nostra vergogna per i fallimenti, il nostro orgoglio per i successi, la nostra meraviglia per le sue dimensioni e la sua diversità e, soprattutto, la nostra devozione per l'America, tutta l'America, la terra, l'idea e il mistero”. Racchiuso tra questi due estremi c'è tutto il mondo di uno scrittore, i suoi viaggi (“Ho casa ovunque e molte case che ancora non ho visto. Forse è per questo che sono inquieto. Non ho ancora visto tutte le mie case”), le sue polemiche, le idee sul ruolo che è chiamato a interpretare (“L'antico mandato dello scrittore non è cambiato. Ha l'incarico di esporre difetti e fallimenti dolorosi, di portare alla luce sogni oscuri e pericolosi allo scopo di migliorarci”) e su quello che vorrebbe essere: “Come tutti, voglio essere buono e forte e virtuoso e saggio e amato. Credo che scrivere possa semplicemente essere un modo per comunicare con altri individui, un impulso che nasce nella nostra innata solitudine”. Da Woody Guthrie a Lili Marleen non mancano tutti i riferimenti e le connessioni alla vita e alla cultura popolare di cui, come è noto, John Steibeck fu attento esploratore e che aggiungono una nota caratteristica a un libro più che utile a scoprirlo e a riscoprirlo. Anche per la sua alta e nitida percezione della letteratura, che è poi stata la solida base su cui ha elaborato una visione destinata a diventare un punto di riferimento: Per sempre e non soltanto in America, perché secondo John Steinbeck “la letteratura è vecchia quanto il parlare. E’ nata da un bisogno umano e non è cambiata se non per diventare ancora più necessaria. Gli scaldi, i bardi, gli scrittori non sono diversi. Dall’inizio le loro funzioni, i loro doveri, le loro responsabilità sono stati stabiliti dai nostri simili”. Una grande lezione. 

mercoledì 24 novembre 2010

Harry Crews

Ognuno ha i suoi santi protettori e i suoi patroni. Se gli abitanti di Mystic, Georgia hanno scelto di identificarsi con i crotali, e altri serprenti non del tutto innocui, qualche motivo ci sarà. Forse non è nemmeno importante saperlo, forse è anche meglio non saperlo perché la passione cittadina diventa un vero e proprio delirio collettivo quando, una volta all’anno, a Mystic si danno convegno tutti gli appassionati d’America (con i rettili al seguito, naturalmente). La fiera dei serpenti, ecco il perché del titolo, oltre a prevedere la caccia ai crotali, fiumi di birra e whiskey (con le relative sbronze e le altrettanto inevitabili risse), duelli tra cani e altre raffinatezze, è la migliore occasione perché i cittadini di Mystic e i loro ospiti offrano il meglio, che poi è anche il peggio, delle loro vite. Tutti insieme appartengono a un grande coro tragico che celebra la follia, gli orrori e la disperazione che aleggia su Mystic. C’è qualcosa di gotico e di “sudista” in modo palpabile nella ricostruzine della vita senza troppi orizzonti in una “smalltown” della provincia, giusto nel bel mezzo del nulla. Le parole di Harry Crews, lapidario come sempre, non lasciano dubbi sul tenore di vita a Mystic: “Per alcuni le cose cambiavano. Ma per altri no. In ogni caso, rimanevano aperte molte possibilità. Per esempio impazzire, rincorrendo l’illusione che un giorno sarebbe stato diverso”. Ogni personaggio è una storia a parte. Lo sceriffo, tanto per cominciare, è un reduce del Vietnam che ha lasciato laggiù una delle sue gambe e ha un concetto della legge e della giustizia tutto suo, soprattutto nei confronti dell’altro sesso, specie se giovane e di colore. Joe Lon Mackey che dovrebbe essere il protagonista della Fiera dei serpenti (il condizionale è d’obbligo perché l’insieme dei volti è una massa deforme che sembra muoversi all’unisono) alleva crotali (sono un’ossessione, in questo romanzo), smercia whiskey illegale a tutte le ore e coltiva un buco nero nella sua anima perché è marito e padre senza riuscire a essere né l’uno né l’altro. Essendo anche il figlio di un allevatore di cani da duello abituato ad ammazzarli a calci se non vincono (dopo averli cresciuti con un particolare gusto sadico), il quadro famigliare dovrebbe essere completo, e va detto che loro non sono nemmeno i peggiori, tra gli abitanti di Mystic. Quando si entra nel vivo della festa, con bestie che strisciano ovunque, gran rumore di “rattlesnake” e un’alluvione di alcool che sfocia in un generale delirio, l’affresco di Harry Crews si completa e diventa una cruda, spietata e nello stesso tempo imponente rappresentazione delle miserie umane. Si capisce fin da qui che La fiera dei serpenti non è un romanzo accomodante e come Harry Crews fugge qualsiasi accento consolatorio: è eccessivo, rocambolesco e tagliente. Punta all’abisso e, con un ritmo travolgente e una precisione martellante, arriva a toccare il fondo. Dove i crotali, al confronto delle tragedie umane, non fanno più nemmeno paura.

Thomas McGuane

Per uno strano vizio del destino nell'autoradio di Frank Copenhaver, il protagonista di Solo un cielo blu, arriva sempre l'accento di Bob Dylan a guidarlo nei suoi pellegrinaggi senza senso. Una voce importante ed evocativa: una volta disse persino che non c'è nulla di più importante del fallimento e/o della sconfitta. Una frase che si può interpretare in migliaia di modi e assecondando la propria luna, ma che si addice alla perfezione alla storia raccontata da Thomas McGuane in Solo un cielo blu: la disfatta esistenziale, economica, affettiva (in una parola: totale, e su tutti i fronti) di Frank Copenhaver, già “uomo d’affari” e allevatore benestante nel Montana, si annuncia con una lunga serie di notizie imperscrutabili e a prima vista innocue e si risolve in un'altrettanto caotica odissea sottolineata dalle figure femminili (moglie, amante, figlia, segretaria) più vicine al protagonista e da altri personaggi destinati a rovinargli, nell'ordine, il conto in banca, l'appetito e la salute mentale. In tutta onestà, Frank Copenhaver se la cava egregiamente nei suoi quotidiani alti e bassi, fino a quando, praticamente nel finale di Solo un cielo blu, si scopre che il fallimento non è di sua esclusiva proprietà, ma è generalizzato all'intero genere umano. Anche perché tutto è con una perfida riflessione: “Era convinto di porsi i grandi quesiti esistenziali. Sapeva che scienziati e artisti credono di essere gli unici detentori di questo privilegio. Gli scienziati e gli artisti sono convinti che sia compito loro porre le domande che la gente comune non si fa mai, pur avendo bisogno delle risposte per vivere bene. Perché? Perché viene ovvia la risposta, la gente comune è maledettamente stupida. Questa convinzione è all’origine dell’opinione, assai diffusa tra la gente comune, che gli scienziati e gli artisti siano fanfaroni o coglioni”. Per cui, in buona compagnia, Frank Copenhaver non se la prende più del tanto (e lo ammette: “Era piacevole abdicare a tutto pensando che, al confronto dello spazio esterno, non siamo che un atomo”): va in giro con la radio a tutto volume, pesca, prova a rimettersi in carreggiata e, soprattutto, offre a Thomas McGuane (uno scrittore americano che meriterebbe ben altra riconoscenza) il modo di esprimere uno stile ineccepibile, florido ed epico nel suo equilibrio tra il dramma incombente e una comicità talmente innocente da sembrare involontaria. Provate a leggere, nei capitoli iniziali, l'episodio della sua visita a casa dei futuri suoceri, e poi non vi sarà difficile avvicinarvi a questo stralunato personaggio che ha più di un'assonanza (persino nel nome) con il Frank Bascombe di Sportswriter, Independence Day e di Lo stato delle cose. Per cui Solo un cielo blu, è caldamente consigliato a chi ama Richard Ford o Jim Harrison, ma anche Neil Young, Otis Redding, Sam Cooke, Van Morrison, i Jefferson Airplane (o Bob Dylan, va da sé), ovvero la colonna sonora di un loser che, pur non illudendosi, riesce a credere ancora in un minimo di integrità morale quale ultima, irrinunciabile frontiera.

James Reasoner

Una ragazza scompare nell’arida aria del Texas. Si chiama Mandy, è ricca (di famiglia), canta (in un trio) e l’ultima volta che è stata vista era in compagnia del chitarrista (ma non del suo fidanzato). Le triangolazioni non finiscono qui perché l’incarico per ritrovarla viene affidato a Cody, un private eye solido e disilluso con la passione per l’arte e per i dubbi che se la cava con una visione filosofica tutta sua: La maggior parte degli investigatori privati, me incluso, spendono più tempo aspettando che facendo qualunque altra cosa. E’ la parte principale del lavoro, e non può essere evitata. Ma non ci si abitua mai. Il tempo trascorso nell’attesa passa lentamente come quando eri bambino e non riuscivi a capire perché per tutto quello che facevano gli adulti ci voleva così tanto”. Mentre il “vento del Texas” sfoglia le pagine di una storia che, si intuisce fin dalle prime battute, è chiusa su se stessa (per quanto ci proviamo a considerarli estranei, forse nel tentativo di autodifenderci, i mostri e le mostruosità sono sempre più vicini), con il suo quotidiano tran tran e pur sconfitto a più riprese dalle evidenze Cody riesce ancora a suggerire una scintilla di salvezza e/o di giustizia. Anche nel duro Texas che, parole sue, una volta “era un bel posto dove vivere, prima che cercasse di diventare un’altra California o un’altra New York. Adesso basta l’ultima novità o trovata di moda e tirano fuori i longhorn di cartapesta. Forse è più furbo, ma di certo così è molto meno reale”. James Reasoner scrive un noir asciutto, essenziale, dove conta moltissimo il silenzio, lo spazio tra una parola e l’altra, l’insinuazione di un dubbio, un’ombra, un linea oscura. L’azione è limitata (in sostanza comprende un pestaggio e l’inevitabile resa dei conti finale, fine dello spettacolo) e lo svolgimento è insolito perché la trama cresce attraverso la natura delle supposizioni e delle ipotesi di Cody, un detective che davanti a un caso senza indizi o moventi apparenti deve frugare nel nulla o nel “vento del Texas” affidandosi più all’intuito che all’intelligenza. E’ un detective abbastanza originale perché pur essendo coinvolto notte e giorno nelle ricerche di Mandy non trascura la sua vita privata che si divide nella fattispecie tra la passione per i tratti pittorici di Frederic Remington e la crescente love story che s’insinua parallela al principale flusso noir del romanzo. Sarà anche per questo che Cody è un investigatore che si ritrova nel cuore dell’azione senza volerlo: il più delle volte collega soltanto piccoli punti, mette sul piatto un sacco di domande, si segna nomi e passaggi e anche se riesce a vedere e a sentire nello spazio tra bianco e nero, sembra assistere agli eventi come un testimone qualsiasi e inconsapevole deus ex machina. Almeno fino al decisivo showdown, quando il quadro è completo e pronto a staccarsi dalla cornice. Alla storia manca solo un dettaglio, visto che, private eye innamorato a parte, i protagonisti sono tre musicisti: non si capisce qual è il loro repertorio. Essendo pure texani (quindi con un’ampia, a dir poco, possibilità di scelta) il particolare sarebbe stato molto a utile (tanto a Cody quanto a noi lettori).

venerdì 19 novembre 2010

Annie Proulx

Quoyle è uno di quei caratteri a cui la vita ha riservato più nodi degli altri, e anche un’incapacità cronica di risolverli. Nella sua professione, è un giornalista, è costantemente a un passo dal fallimento, visto che non riesce a uscire dalla grigia routine del giornale di provincia per cui scrive. A fatica, perché viene licenziato, assunto, licenziato e assunto di nuovo con un ritmo abbastanza regolare. Non un granché come curriculum. Vive in case prese in affitto e tra uno sbadiglio e l’altro, neanche a dirlo, sposa la donna sbagliata. Lui ingrassa e diventa sempre più goffo. Lei, a matrimonio non ancora avviato, comincia a tradirlo, senza nemmeno premurarsi di nasconderlo più del tanto. Non è tuto, perché il peggio è sempre in agguato e, fedele alla sua natura e a quella di Quoyle, non tarda ad arrivare. A quel punto, più per inerzia che per coraggio, decide di dare un taglio alla squallida vita nelle periferie di Brooklyn e di prendere il largo. La metafora nautica non è caso: Quoyle si rimette in strada con un saggia zia, le due figlie (scampate per un pelo a un infelicissimo destino, ma per i dettagli bisogna spulciare in Avviso ai naviganti) e riparte verso il nord e il mare, Terranova, alla ricerca delle proprie radici e probabilmente anche di una vita meno ingarbugliata. Tema ricorrente e amatissimo della letteratura americana, tanto è vero che a suo tempo Annie Proulx con Avviso ai naviganti ha fatto incetta di premi (Pulitzer compreso) con una rapidità sorprendente. Non tutto è dovuto però: se la storia alla base di Avviso ai naviganti (il riscatto di Quoyle, uomo senza qualità a cui la vita ha riservato, non gradito e nemmeno voluto, il dovere di ribellarsi agli eventi) è molto concreta nel suo plateale neorealismo, se è vero che c’è della sostanza narrativa nei tratti dei personaggi e dei paesaggi (dalle anguste panoramiche suburbane agli spazi marini e incontaminati di Terranova), è anche evidente che nel quadro complessivo Annie Proulx aggiunge troppi sfondi, troppe parole, come se non si fidasse di quello che sta raccontando e continuasse ad aggiungere elementi in continuazione per coinvolgerci e renderci partecipi. Sembra che la rivincita di Quoyle dipenda dalla sua capacità di restare ad ascoltare (deformazione professionale e interpretazione univoca del mestiere di cronista) le storie, le leggende o soltanto le chiacchiere che gli abitanti di Terranova gli rivolgono. E qui si perde un po’ la genuinità dell’intuizione originale di Avviso ai naviganti: nella sua trasformazione Quoyle poteva diventare un altro di quei perdenti le cui sconfitte equivalgono ad altrettanta dignità, ma così come viene sviluppato, il suo carattere rimane sfocato, sullo sfondo. Il tono consolatorio è sempre dietro l’angolo e non risolve i nodi, li guarda soltanto da un punto di vista meno drammatico. Lettura da notte estiva, senza troppo impegno, con la colonna sonora di Joni Mitchell e di Fisherman’s Blues. La prima per il Canada, il secondo per il mare.

mercoledì 17 novembre 2010

Nick Tosches

La ricostruzione di una figura come quella di Michele Sindona è un esercizio che mette a dura prova l’equilibrio del narratore e anche quello del lettore. Il travaso da una realtà misteriosa a una biografia tutto sommato lineare è un’impresa perché di lineare nella vita di Sindona non c’è stato nulla. La sfida, che insieme era giornalistica e narrativa, non riguardava tanto le rivelazioni, le indiscrezioni, le omissioni di un uomo che per un quarto di secolo ha avuto nelle mani una ragnatela economica e finanziaria in grado di influenzare le decisioni di un’ampia percentuale della civiltà occidentale. Non che Nick Tosches, pur con tutte le precauzioni che usa, sia inconsapevole di chi ha davanti e basta sapere leggere un minimo (ma davvero un minimo) tra le righe per comprendere la collocazione storica, politica e umana di Michele Sindona e snocciolarsi una propria verità. Lo stesso banchiere siciliano, ormai incarcerato a Voghera, nel confessarsi a Nick Tosches è lapidario: “Ho comprato e venduto la mia parte di mondo”, e la sua autobiografia in nove parole suona come l’ammissione di colpevolezza di chi ha messo gli affari sopra e davanti a tutto. Per cui inchieste, processi, legami pericolosi, omicidi (compreso il suo) sono una congrua parte della storia, ma il nodo che affronta Nick Tosches è un altro ed è un nodo narrativo, ovvero far sentire la voce del personaggio e, in questo caso, del vero e proprio protagonista. Un’arma a doppio taglio visto che a parlare è un uomo che ormi ha perso tutto il potere e teme, essendo rinchiuso in una cella, di non potersi più difendere. “Ciò che era cominciato nelle tenebre, nelle tenebre finiva” e il “mistero” è tutto lì: nel raccontare una storia  che non è per niente simmetrica e che ha molti spigoli, primo fra tutti perché è vera cercando di rendere credibile la voce di un uomo che ormai è ex. Quando Michele Sindona, ormai travolto dai suoi nemici all’interno dell’establishment, si accorge di essere stato abbandonato dai suoi amici e clienti di sempre, reagisce con questi toni: “Così in definitiva, scoprii quanto valeva essere un buon cristiano. Ora so che la potenza del Vaticano risiede nei tempi lunghissimi coi quali opera. Noi moriamo, quello no. Una vita è nulla in confronto ai secoli che sono il lento battito del polso del Vaticano. Condannano Galileo e poi ne fanno ancora il processo 300 anni dopo”. Nick Tosches lo segue sul terreno degli studi classici, rendendo drammatica una storia che aveva in sé i tratti dell’epica e svelandone senza reticente il fragile lato umano: “E’ di nuovo Macchiavelli a dire che gli uomini vi feriscono o perché vi temono o perché vi odiano. Come ticchettio di pioggia primaverile su oro cesellato, la chiara, semplice, meravigliosa verità di queste parole riecheggiava nelle mille e mille notti di prigione di Michele Sindona. Anche il giovane che aveva conseguito la laurea con una dissertazione su Il principe era diventato un principe del potere mondiale; ma anche quella semplice verità come pioggia su oro era stata oscurata da ben altri temporali”. La parola fine è (appena) sufficiente alla storia. Cala il sipario, restano molte ombre.

martedì 9 novembre 2010

Bob Dylan

Un mosaico di stati di allucinazione connessi e sconnessi tra loro in perfetta simbiosi con le radici e i collegamenti sotterranei e le amicizie di Bob Dylan con e per la Beat Generation. Un lungo e intricato monologo, frutto di un personalissimo flusso di coscienza come della scrittura dell’uomo “della strada”, che usa le parole dei menù, delle insegne, dei titoli, dei cartelli stradali e dei suoi stralunati appunti per giocare con il linguaggio, per inventarne uno nuovo. Tarantula va preso per quello che era ed è ancora: un esperimento, l’alchimia impossibile di una forma in via di evoluzione, un’onda irregolare, un segmento relativo in un contesto, la storia di Dylan, dove nulla è relativo. Per la sua contorta realtà, Tarantula rende bene lo spirito e le logiche di un’epoca in cui la creatività aveva una valenza assoluta, persino politica ed è un fenomeno misterioso perché è denso di una passione per il linguaggio e per le idee che il linguaggio esprime che si fa musica, ma come ben sappiamo “il mondo è gestito da coloro che non ascoltano mai musica”, e allora meglio confinare certi exploit nelle riserve dell’ignoto, dell’eccentrico e del bizzarro, se non proprio del freak. Dylan che qui interpreta Dylan & Dylan & Dylan procede senza esitazioni con le sue “associazioni da drogato” (così nell’affettuosa definizione di Fernanda Pivano) con l’ingenuo entusiamo di uno che si è “svegliato con la fissa della libertà in testa”. Più che una trama, per comprendere a fondo Tarantula serve la cassetta del pronto soccorso di William Burroughs perché è con una sorta di evoluzione del “cut & fold-in” che Dylan tiene insieme illusioni (“Mi piacerebbe fare qualcosa che valga la pena, come ad esempio piantare un albero in mezzo all’oceano ma sono soltanto un chitarrista”), precisazioni (“Io qui presente non voglio aver niente a che fare con le tue fissazioni. Non m’importa quel che pensi del mio lavoro dato che ora so che comunque non lo capisci”), ossessioni (“Se hai intenzione di mandarmi qualcosa, mandami una chiave, troverò la porta in cui entrare, dovessi provarci vita natural durante”). Tarantula sembra fatto apposta per sviare, distorcere, confondere e provocare, ma nella sua folle autonomia riesce a indirizzare un paio di messaggi che, anche a distanza di mezzo secolo, suonano logici e lucidi. Il primo è una “risposta che soffia nel vento” piuttosto convincente e senza controindicazioni: “Non farti le tue idee, quelle ce le hanno tutti, fa’ che siano le idee a farti e parla con melodia”. Il secondo è una linea di demarcazione netta perché, diceva Dylan, non ho niente da “prendere da voi tranne che una coscienza sporca”, e tanto basta. Tarantula non è solo una grande apologia della Beat Generation, è un mosaico folle & intenso di voci, una cacofonia che diventa orchestra. E’ un’accozzaglia di esortazioni & ritagli & epitaffi & scongiuri, una forma che non è poesia e nemmeno prosa, non è nemmeno una forma, in fondo perché Tarantula “ti costringe a imparare cose che non hanno niente a che fare col mondo esterno e poi ti butta fuori a calci”. Ancora meglio dell’anarchia, è la bellezza del caos. 

venerdì 5 novembre 2010

James Lee Burke

New Iberia non è New Orleans, e Dave Robicheaux non è l’eroe che vuole o deve salvare a tutti i costi l'America, “quell'America immutabile di cui non si può fare a meno”. Lo è stato in un passato che torna con gli incubi notturni e i fantasmi che tornano dalle strade della Big Easy o dai sentieri del Vietnam, due posti in cui lui e l’America hanno sbagliato direzione. Adesso i casi della sua vita (o della sua giurisdizione, ma nella Louisiana di James Lee Burke non c'è molta differenza tra l’una e l’altra) gli piovono letteralmente addosso come in Prigionieri del cielo o gli arrivano in casa come L'angelo in fiamme, proprio mentre lui vorrebbe vivere con la sua famiglia (Bootsie, una donna tutta d'un pezzo e la figlia adottiva Alafair) e mandare avanti il negozio sul pontile dove, con il fido Baptiste, offre una colazione a base di gamberi a prezzi ottimali. Dave Robicheaux, se non si era capito, è il protagonista assoluto dei romanzi di James Lee Burke, storie che sarebbe riduttivo chiamare thriller o anche soltanto noir perché pur contenendo e rielaborando tutti i cliché della letteratura di genere puntano a definire un'umanità variegata e colta in fallo su una terra di nessuno dove la differenza tra legalità e illegalità non è poi così netta. Questa condizione emerge nettamente ne L'angelo in fiamme: un personaggio carico di significati oscuri, Sonny Boy Marsallus (è proprio lui il misterioso angelo in fiamme presentato già dal titolo) appare nel distretto di New Iberia con un carico sterminato di guai e di ricordi. E’ una vecchia conoscenza di Dave Robicheaux ed è anche il personaggio attorno a cui ruota tutta la trama del romanzo di James Lee Burke che comunque non è determinante quanto il paesaggio (le paludi, il bayou e la costa della Louisiana) e le persone che lo popolano. In una riflessione di Dave Robicheaux, James Lee Burke si lascia sfuggire un'opinione precisa sugli uomini e sui luoghi, una chiave di volta per tutto L'angelo in fiamme: “Mi sono spesso trovato a pensare che la storia non sia una sequenza lineare, e che tutti i protagonisti della vicenda umana conducano le loro esistenze simultaneamente, forse in dimensioni diverse, ma occupando gli stessi luoghi a insaputa gli uni degli altri, come se tutti gli esseri umani fossero figli di un unico concepimento spirituale”. Lo spunto morale non è una novità per James Lee Burke e per Dave Robicheaux ed è proprio un lembo di terra dimenticato da tutti l’oggetto del contendere de L'angelo in fiamme: mafiosi, mercenari, poliziotti corrotti, Sonny Boy Marsallus, Dave Robicheaux e soci ingaggiano una battaglia senza esclusione di colpi che emula quelle già lette e rilette in Rabbia a New Orleans, Black Cherry Blues o Piccola notte cajun o in tutti gli altri romanzi di James Lee Burke. Leggeteli con il contorno piccante di pollo fritto, gamberi, gumbo e tanto tabasco e con la colonna sonora dei Neville Brothers di Yellow Moon e l'aria del golfo del Messico che tira sulla contea di New Iberia entrerà anche nelle vostre finestre.

Sam Shepard

E' difficile, se non proprio impossibile, decifrare cosa sia quel paradiso che evoca il titolo di questa raccolta di racconti di Sam Shepard. Sembra un posto dove “tanto per incominciare, non c'era nessuna città” e dove tutto, più o meno, è stato abbandonato al proprio destino. Un paesaggio desertico, bucolico che strani personaggi, uomini e donne, attraversano quasi per inerzia: gli basta pochissimo, un niente, per dare, fosse solo per  un'ultima volta, un senso alle proprie vite. Una notte d’amore in albergo, una canzone di rock’n’roll, un cane randagio, un materasso buttato in una discarica, un gallo da combattimento, un pugno di serpenti intagliati nel legno, una vecchia leggenda messicana: l'inventario potrebbe continuare lungo tutti i quaranta racconti di Attraverso il paradiso perché cominciano e finiscono proprio con questi minuscoli dettagli o frammenti di dialoghi lasciati a metà o lettere mai spedite o rimaste senza risposta. Visti tutti insieme sembrano relitti di un naufragio di cui Sam Shepard, con David Mamet il più grande drammaturgo contemporaneo americano, è testimone consapevole e osservatore minuzioso. Per certi versi si ritorna, ed è inevitabile, alle atmosfere di Motel Chronicles, ma ci sono luoghi e situazioni che rimandano ancora a Paris, Texas o alle tante sceneggiature di Sam Shepard. Con un taglio finale più personale e probabilmente autobiografico quando racconta del set cinematografico in Messico: è facile immaginare nel regista tedesco un Wim Wenders ed è altrettanto naturale scivolare nella lettura di Colorado non è un vigliacco, uno dei racconti più belli (e anche divertente) di Attraverso il paradiso. Conferma, dove ce ne fosse bisogno, del talento narrativo di Sam Shepard anche per via di: 1) Nuevo Mundo,  perché è un bellissimo racconto che sembra uscire dalla penna di Cormac McCarthy; 2) La natura alla natura,  che ricorda i ragazzi di Stand By Me cresciuti abbastanza da impegnarsi in una rock’n’roll band, ma non ancora capaci di stare lontano dai guai; 3) Spencer Tracy non è Morto  vista l'esilarante (per chi legge) situazione on the road dove il protagonista principale potrebbe benissimo essere Hunter S. Thompson; 4) Omaggio a Céline, e non c'è bisogno di spiegare perché; 5) Emergenze più urgenti, un esercizio di scrittura in puro stile Raymond Carver; 6) Un gruppetto di amici, un racconto che non sfigurerebbe una volta incastrato in Solo un cielo blu di Thomas McGuane. Sarà un caso, ma i nomi che Attraverso il paradiso ricorda appartengono a scrittori americani che non vanno molto per il sottile quando devono raccontare il proprio paese. Forse è proprio quello, l'America, il paradiso che non c'è e che i personaggi di Sam Shepard cercano di attraversare indenni ascoltando o sognando Elvis, Frank Sinatra, Willie Nelson, Merle Haggard, i Kinks o Duke Ellington. O forse quel “paradiso” è solo una menzogna della mente, un'immagine sullo sfondo, il ricordo di un sogno, ma con Sam Shepard è facile credere che sia tutto vero. 

Leonard Cohen

Il gioco preferito è uno splendido romanzo o un lungo poema in forma di prosa (secondo Michael Ondaatje) che attraversa la twilight zone tra l’infanzia e l’età adulta con un entusiasmo per le parole istintivo e passionale e una dedizione per la scrittura che trascinano il lettore in un pozzo senza fondo di emozioni e suggestioni. Per avvicinarsi al Gioco preferito è inevitabile mettere da parte pregiudizi e idiosincrasie verso la forma e la natura del romanzo che qui tende a essere qualcosa di più e di diverso perché per Leonard Cohen “la poesia è una cosa sporca, cruenta, rovente che all'inizio deve essere afferrata a mani nude”. Siamo nel campo dell’intimo e dell’introspezione perché se non è proprio autobiografico, Il gioco preferito allinea moltissime fotografie dell'album di famiglia di Leonard Cohen a quelle di Lawrence Breavman, il suo protagonista, come lui alla ricerca di un volto che sappia parlargli la stessa lingua perché, fanno notare con una sola voce, “abbiamo tutti molte immagini di noi stessi. E’ sempre una sorpresa vedere quale assumiamo”. In comune i due hanno la solitudine lancinante dovuta alla comune esperienza della perdita, in tenera età, del padre. E’ un momento drammatico, che aggiunge uno scenario crepuscolare alla complessa magia dell’infanzia: “Dai sette agli undici anni è un bel pezzo di vita, pieno di ottusità e oblio. Si favoleggia che lentamente abbiamo perso il dono di saper parlare con gli animali, che gli uccelli non vengano più a visitare i nostri davanzali per chiacchierare. Man mano i nostri occhi si abituano alla vista, si corazzano contro lo stupore. Fiori di un tempo grandi come pini tornano ai vasi di terracotta. Anche il terrore diminuisce. I giganti e le gigantesse della stanza dei bambini rimpiccioliscono a insegnanti acide e padri umani”. Poi Il gioco preferito (e conoscendo Leonard Cohen non è difficile intuire a cosa si riferisca) prende forma con le ossessioni che lo seguiranno per tutta la vita: le donne e l'amore, la religione e il sesso, la musica e ancora, e sempre, la poesia che, come vuole la sentenza, “è un verdetto, non un'occupazione”. Basta seguire (Lawrence) Breavman nel suo labirinto d'emozioni e Il gioco preferito scorre via: morbida, accogliente lettura, che ha la strana atmosfera di un sogno ad occhi aperti dove qualunque tema trova una sua collocazione perché, come scrive Leonard Cohen “la notizia è fantastica. La notizia è triste, ma si trova dentro una canzone e quindi non è poi tanto male”. Un romanzo di formazione, direbbero i più informati, e c’è del vero, perché dentro Il gioco preferito, cresce quella spregiudicatezza nel trasfomare le parole che farà grande Leonard Cohen in tutte le versioni. Se all’epoca di Beautiful Losers, sosteneva che “il peccato va insegnato”, già con Il gioco preferito “la tentazione della disciplina” diventa un’urgenza feroce e lo rende, parole sue, “spietato”. Leonard Cohen, negli anni, è stato più volte cattivo maestro e buon allievo, o viceversa, ma, se non altro, direbbe Pablo Neruda, almeno ha vissuto.