domenica 31 ottobre 2010

Michael Herr

Una ricerca linguistica approfondita nel gergo e nello slang delle forze armate. Una sorta di lettura analitica di un codice di comunicazione che comprende piccoli e infiniti gesti di superstizione, ordini in termini burocratici incomprensibili, grida di dolore e sagaci battute figlie di un umorismo che sfida le situazioni più macabre. E di molto rock’n’roll: nel Vietnam “ognuno si fa il suo film”, ma il suono, il ritmo, persino l’ortografia sono dettate dalle chitarre e dalle canzoni di Frank Zappa, dei Doors, dei Grateful Dead, di Bob Dylan e soprattutto di Jimi Hendrix. Per Michael Herr il Vietnam e il rock’n’roll vivono un legame simbiotico e il tono autobiografico di chi ha vissuto da vicino “il fascino della guerra” trasforma Dispacci in un romanzo pulsante, denso di intrecci linguistici, storici, che usa la narrativa per creare una realtà altrimenti impossibile da raccontare. In queste condizioni, il reporter deve farsi ben presto da parte, il gioco è pesante e i volti dei vivi e dei fantasmi si sovrappongono: “Si parla di impersonare un’identità, di rinchiudersi in un ruolo, di ironia: andai là per seguire la guerra e fu la guerra a seguire me; una vecchia storia, sempre che, naturalmente, tu non l’abbia mai sentita. Ci andai con la convinzione, grossolana ma seria, che si deve essere capaci di guardare qualsiasi cosa, seria perché agii di conseguenza e partii, grossolana perché non sapevo nulla, ci volle la guerra per insegnarmelo, che eri responsabile di tutto ciò che vedevi proprio come di tutto ciò che facevi. Il problema era che non sapevi sempre cosa vedevi, se non dopo, forse anni dopo, che buona parte di quel che vedevi non arrivare mai alla coscienza, si limitava a restare immagazzinato nei tuoi occhi. Tempo e informazioni, rock’n’roll, la vita stessa, non sono le informazioni a essere bloccate, tu lo sei”. Dispacci non è soltanto “il” romanzo sul Vietnam e sull’America perché, come scrive Michael Herr nelle ultime pagine, “dopotutto le storie di guerra non sono altro che storie di persone”. E’ una visione multiforme (a cui non a caso il cinema attingerà, in modi e in tempi diversi, da Apocalypse Now a Full Metal Jacket) e un breviario per leggere dentro un’era sanguinante, nelle pieghe di un conflitto tanto feroce quanto surreale. La dimensione allucinatoria, onirica o, in modo più banale, tossica di quella guerra, ancora oggi una faglia vuota nel ventesimo secolo, si attorciglia con naturalezza, e anche con una certa inevitabilità, al rock’n’roll, fino alla fine e persino oltre: “Fuori in strada non riuscivo a distinguere i veterani del Vietnam dai veterani del rock’n’roll. Gli anni sessanta avevano fatto talmente tante vittime, la guerra e la musica di quell’epoca avevano prelevato energia dallo stesso circuito così a lungo da non avere neppure bisogno di fondersi. La guerra ti aveva preparato per anni di sfortuna mentre il rock’n’roll era diventato più terribile e pericoloso della corrida, tanto che le rockstar cominciarono a cadere come i sottotenenti; estasi e morte e (naturalmente e certamente) vita, ma non sembrava così allora”. Un capolavoro, ancora oggi. 

Carl Hiaasen

In una notte piovigginosa di una crociera per l’anniversario di matrimonio, Chaz, marito irrequieto e con parecchio da nascondere, afferra le belle caviglie della moglie e la fa volare nell’oceano. I motivi dell’agguato sono incomprensibili per Joey, la consorte che lotta nelle acque turbolente, ma hanno radici profonde in una storia di corruzione, di debolezze, di ambiguità e di violenza che inevitabilmente chiama vendetta. Non contento di aver fatto volare la moglie nell’oceano, Chaz sparerà anche all’amante, non prima di averla denigrata declassandola, in una conversazione, a “donna delle pulizie”. Errore ancora più grave di puntarle contro una pistola: nella vita di Chaz c’è sempre “una donna di troppo” e dato che la sua incontenibile (diciamo così) energia lo spinge a considerare la condizione femminile soltanto nella cornice delle prestazioni sessuali ed erotiche (e anche qui siamo nel campo degli eufemismi) non sono insolite o fuori luogo altre voglie che mettono, più del piacere, la vendetta in cima alle preoccupazioni quotidiane. Una donna di troppo è una commedia degli equivoci guidata da un personaggio così viscido, imbranato, imbelle e improbabile nel suo incontinente priapismo da risultare persino simpatico, visto che alla fine gliene combinano di tutti i colori (la vendetta, qui, oltre ad essere gustata fredda, ha parecchie portate). Se non bastasse Chaz c’è soltanto l’imbarazzo della scelta a partire dalla sua guardia del corpo (o custode, la differenza con il passare delle pagine si fa minima) che viene chiamato Tool (il nome dice già tutto) e a cui non sembra vero che il destino abbia riservato un minimo di redenzione. Per andare in pareggio con i tratti comici ed esilaranti che in fondo sono gli elementi trascinanti di Una donna di troppo, la commedia prende fosche tinte noir, anche se Carl Hiaasen non rinuncia mai all’ironia, al sarcasmo e a una divertita perfidia nel rivelare per gradi una storia molto intricata ma anche piuttosto attuale. Come se il gesto inconsulto di Chaz all’inizio di tutto, fosse un sasso buttato nello stagno e i cerchi concentrici si fossero allargati fino a schiarire la misteriosa trama. Svelata con un riflesso ecologista proprio dov’era cominciata, nelle paludi delle Everglades, nell’acqua, metafora nemmeno tanto velata dell’essenza femminile di tutta la vicenda. E’ anche logico perché è da lì che prende forma l’intrigo, che però viene tenuto sommerso per gran parte del romanzo, come se i danni maggiori, comunque, gli esseri umani li facessero sempre a se stessi. Brillante, divertente, frenetico Carl Hiaasen (uno che scrive sotto una fotografia dei Rolling Stones a New York nel 1964) oltre al film di riferimento (Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese) fornisce anche la colonna sonora ideale: tra gli altri cita Neil Young (con una certa frequenza e sempre nei momenti giusti), ma soprattutto George Thorogood che pare accostarsi alla perfezione alla spensierata vitalità di Chaz e dedica il libro a Warren Zevon a cui non sarebbe affatto spiaciuta questa storia di donne risolute e dure a morire.

giovedì 28 ottobre 2010

Bob Dylan

Indossando una delle sue infinite maschere, Bob Dylan infine ha deciso di raccontare la sua versione della storia. Con lo stile florido di un narratore con il gusto per le variazioni linguistiche e un debole per l’iperbole, ha calato il suo personaggio in un viaggio nel tempo adatto a ricostruire, con un distacco appropriato, la sua biografia. La prima puntata delle Chronicles (ammesso e non concesso che quel Volume 1 sia in effetti l’inizio di una serie) si svela quindi più vicina alla natura del romanzo, con l’idea di ridisegnare i contorni di ere e mondi che Bob Dylan ha attraversato con una certa disinvoltura ma che, almeno nella limitata versione della realtà, appaiono parecchio distanti e in contrasto tra loro. Tra la New York del 1961 e la New Orleans del 1989, dove è ambientata, un po’ a sorpresa, la parte centrale (dedicata ai retroscena e alle storie legate alla gestazione di Oh Mercy, uno dei suoi dischi più belli nella parte recente della sua carriera) c’è un abisso temporale, politico e umano, persino meteorologico. Il Dylan di allora, risalendo quel “fiume di ghiaccio” che infine chiude ancora il cerchio delle Chronicles è un giovane “poeta musicista” (la definizione è tutta sua) con più di una perplessità sul proprio destino e su quello dell’umanità in generale: “Che cos’era il futuro? Il futuro era un muro solido, senza promesse né minacce, una vuota chiacchiera insensata. Non garantiva nulla, nemmeno che la vita non è una grande burla”. Non bisogna essere degli esegeti per vedere in quel “muro” la cortina che all’epoca divideva in due il mondo, lasciandolo sempre sul filo del rasoio di un’apocalisse nucleare, dove Bob Dylan trovò la sua voce. Nelle Chronicles racconta con dovizia di particolari e nomi e cognomi le fonti d’ispirazione, gli ospiti, i ricordi e le fidanzate, una ricostruzione di un passato teso a guardare verso il futuro e a cercare “la strada più difficile”. Il varco nello spazio e nel tempo che si apre nella New Orleans del 1989, un’era di grandi metamorfosi nel “political world” sembra messo apposta dal Dylan narratore per giocare l’ennesimo bluff, per svelarsi nell’ombra o nascondersi nella luce e infine comprendere che il futuro non è scritto e le trasformazioni partono dall’infinitesimo: “Sono le piccole cose ad adombrare quello che sta per accadere, ma non è detto che uno le riconosca. Poi succede un che di inaspettato ed ecco che ci si ritrova in un altro mondo, si fa un salto nell’ignoto e si ha l’istintiva consapevolezza di essere liberi. Non serve fare domande, si sa già qual è la posta in gioco. Quando succede sembra che succeda in fretta, come una magia, ma la realtà è tutta diversa. Non è che si senta una sorda esplosione e tutto a un tratto ci si ritrova pronti e sicuri. La transizione è più lenta. E’ come aver lavorato sempre alla luce e un giorno scoprire che viene scuro più presto, che non importa dove se e saperlo non servirebbe a niente in ogni caso. E’ una cosa riflessiva. Qualcuno regge uno specchio, toglie il catenaccio alla porta, la spalanca, si viene spinti dentro e la testa deve orientarsi in un posto che è del tutto differente. Qualche volta ci vuole qualcuno di molto speciale per poter capire che le cose stanno così”. Nessuno, meglio di lui.

venerdì 22 ottobre 2010

Bertha Thompson

E' difficile capire quale sarà il capolinea di un treno merci: forse chi ci salta sopra, rischiando ogni volta la vita, non pensa mai a dove o a come andrà a finire. Prende un treno qualsiasi, perché ha perso tutti gli altri o anche perché, come nel caso di Bertha Thompson, meglio nota come Box-Car Bertha, semplicemente gli servirà per “imparare tutto sulla vita e in particolare tutto sui bassifondi”. La sua autobiografia di nomade radicale e ribelle, datata 1937, racconta “con assoluta veridicità tutta l’America, un’America lacerata e in rotta”: scioperi e arresti, hobo e bordelli, puttane e rivoluzionari, ladri e biscazzieri, hobo e semplici disperati costituiscono il paesaggio umano raccolto binario dopo binario e raccontato da Bertha Thompson. Sono passati solo pochi anni dal 1929 e il clamoroso crollo dell'economia americana (niente di nuovo sul fronte occidentale, nemmeno un secolo dopo) ha disintegrato per sempre sogni e illusioni: le ultime occasioni per sopravvivere sono sulla strada, lungo l'asse ferroviario (quasi fosse l’ultimo appiglio all’idea di nazione), nei quartieri malfamati e dietro l'angolo di ogni giorno ce n'è un altro più povero, più triste, più umiliante. Affiorano anche oasi di resistenza, dove il senso della comunità riaffiora nella solidarietà delle sisters of the road, le sorelle della strada, per cui non è solo importante viaggiare gratis (che per loro è proprio “una questione di principio”), ma anche organizzarsi ed eguagliare l’altro sesso nella pratica del tagliare i ponti e fuggire, spesso e volentieri saltando sul primo treno merci di passaggio. Il nomignolo Box-Car Bertha non è casuale, visto che si riferisce proprio ai vagoni che l’hanno ospitata nella sua personalissima odissea: per raccontarla, Bertha Thompson sceglie un linguaggio diretto, deciso, senza tanti fronzoli letterari e con l'urgenza di testimoniare un mondo sfuggente per la sua stessa natura. La sua ricchezza va cercata nello slang, nel valore di storie che altrimenti andrebbero perdute, storie che “si somigliavano tutte, niente lavoro, una famiglia disastrata, nessuna prospettiva di matrimonio, tanta voglia di divertirsi, di libertà sessuale, di vita, e la curiosità di sapere quello che altre donne stavano facendo”. Nelle crisi, che non sono mai soltanto economiche, c’è sempre qualcuno che paga più degli altri, le donne prima di tutti, e il valore aggiunto di Box-Car Bertha è nel suo cercare, tra le macerie, nel disordine della fuga, della fame e della disperazione, non soltanto una formula di sopravvivenza, ma anche un nuovo e risoluto modello di emancipazione. E' un libro che rende possibile un riscatto, tutto femminile, e quindi a maggior ragione Box-Car Bertha è unico perché Bertha Thompson si può sistemare con tranquillità tra i John Steinbeck, i James Agee, i Woody Guthrie, i Tom Kromer nella posizione scomoda, ma indispensabile, di chi ha scelto di raccontare le miserie americane, e il sogno quotidiano di una fermata che non sia l'ultima.

mercoledì 20 ottobre 2010

Norman Mailer

Nell'ottobre 1967 tutti i fermenti artistici, esistenziali, sessuali ed emotivi di un paio di generazioni e di un'intera nazione chiamata provvisoriamente Stati Uniti trovarono un'inedita unità di vedute e di orizzonti nella più significativa manifestazione del ventesimo secolo. In via del tutto teorica doveva essere essenzialmente una manifestazione pacifista e antimilitarista, un'espressione definitiva contro la guerra del Vietnam, ormai prossima al suo crudele zenith, ma raccontandone gli sviluppi, momento per momento, Norman Mailer “arrivò finalmente alla più triste delle conclusioni, perché andava oltre la guerra del Vietnam. Era arrivato a pensare che forse la pazzia era al centro dell'America. Il paese aveva vissuto in una schizofrenia controllata, anche ferocemente controllata, che era andata aggravandosi col passare degli anni. E forse il punto di rottura era stato superato. Ogni uomo o donna che fosse devotamente cristiano e lavorasse per l'azienda americana, era prigioniero di una morsa invisibile la cui pressione poteva scindere la sua mente dalla sua anima”. Le differenti armate della notte che marciarono, da una parte o dall'altra, su Washington e attorno al Pentagono professavano in modo diverso e stridente lo stesso amore per l'America e Norman Mailer seppe cogliere alla perfezione l’attimo  in cui la dicotomia si manifestò, irreversibile e carica dei presagi di tutto ciò che sarebbe successo in seguito: gli scontri di Chicago, le fughe dei renitenti verso il Canada e la Svezia, gli incidenti alla Kent University, Ohio e l'esplosione di un conflitto generalizzato che il Vietnam,  attraverso la rapida evoluzione (o, forse, involuzione) dei mass media (televisione in testa), avrebbe propagato come un virus risvegliato dopo anni di letargo. Documento storico ineccepibile, la cronaca della manifestazione che riempie Le armate della notte è anche uno straordinario patchwork narrativo perché, come scrive lo stesso Norman Mailer “il romanziere recalcitra sotto il giogo, mentre lo storico tiene ben strette le redini”: giornalismo (inteso come reportage), fiction, scelte di campo (personale, letteraria e politica), invenzioni linguistiche si intrecciano e si fondono per testimoniare (ecco il verbo che mancava) “il carattere misterioso” di un avvenimento “essenzialmente americano”. Uscito praticamente in tempo reale (“romanzo come storia, storia come romanzo” direbbe Norman Mailer), Le armate della notte  è un capitolo fondamentale nella sua bibliografia (e nella prosa americana) ed è anche un modello di confronto sull’utilità e sulla finalità stessa della letteratura: “il romanzo infatti, concediamoci questa parentesi, quando è buono, è la personificazione di una visione che ci permetterà di comprendere meglio altre visioni; un microscopio, se si vuole esplorare lo stagno, un telescopio sul tetto di una torre se si scruta una foresta” scrive Norman Mailer nelle battute finali di Le armate della notte che, oltre ad essere “buono” è, ancora oggi, parecchio scomodo. 

martedì 19 ottobre 2010

Kinky Friedman

Il Kinkster questa volta si trova davanti ad un caso da cui non può esimersi: c'è un serial killer che ammazza i cantanti del Lone Star Café. Le uniche tracce che lascia sono frammenti di canzoni di Hank Williams che, come abbiamo letto su qualche giornale, non sono il solito mieloso country & western. Come è noto, Hank Williams è un'icona fondamentale della musica popolare americana nonché il prototipo della rock'n'roll star moderna: vita brevissima e intensa, grande genio,  troppa droga e infine un bel cadavere, ancora giovane sul fondo di una “lunga Cadillac bianca”, come avrebbe detto Dave Alvin molti anni dopo. E’ stato anche una grandissima icona della cultura americana prima dell’avvento della televisione (per quella, è bastato Elvis) per cui ancora legato a un passaggio di comunicazioni e informazioni dove il mezzo tecnologico più moderno era la radio. E' ovvio che tra tutti i poliziotti, gli investigatori e i detective di New York sia proprio lui, il Kinkster alias Kinky Friedman, il candidato ideale a risolvere i casi del Lone Star Café: la sua ammirata carriera come songwriter, con una spiccata propensione all'ironia e al country & western, gli offre tutti gli strumenti per svelare l'arcano di questo strambo serial killer perché sarà proprio studiando le canzoni di Hank Williams che il Kinkster e i suoi Irregolari arriveranno alla soluzione del caso. Di più della trama di A New York si muore cantando non si può proprio dire: gli intrecci e le battute portano ad un finale a sorpresa che ogni bravo lettore può (e deve) scoprirsi da solo. Piuttosto è divertente vedere questo impunito cowboy a spasso per New York (“Comprai un paio di nuovi sigari al Village Cigars e attraversai freddamente Sheridan Square senza dare confidenza a nessuno. Con un clima come questo è necessario rimanere freddi e tirare dritti. Se non lo fai, qualche artista avant-garde di Soho potrebbe scambiarti per una scultura di ghiaccio e montarti nella sua galleria. Ma Sheridan Square bisogna stare attenti ad attraversarla con qualsiasi clima. Qualcuno potrebbe semplicemente cercare di montarti”) o nella sua vita quotidiana alle prese con i gatti, le bollette, l'organizzazione dei fine settimana e altre quisquilie che Kinky Friedman racconta sempre con una verve tanto divertente quanto intelligente. Quando cerca di comprendere Hank Williams attraverso le pagine di una biografia (quella di Chet Flippo, per inciso) si ferma all’autografo dell’autore: “Non amavo molto leggere biografie. La vita vera faceva già sufficientemente schifo per conto suo”. Il personaggio è fatto così: chi a suo tempo l'ha scoperto con Elvis, Gesù e Coca-Cola (il Kinkster più in forma che mai) non avrà quindi molte remore a seguirlo in questa avventura; gli altri hanno, con A New York si muore cantando, un'occasione ghiotta (anche per la sua brevità) per introdursi nel mondo di un narratore squisitamente vicino all'immaginario del rock’n’roll e non soltanto per il suo passato di songwriter o per la presenza del fantasma di Hank Williams, ma proprio per il ritmo, le scansioni dei dialoghi, le atmosfere picaresche e il senso generale di leggerezza della sua scrittura. 

lunedì 18 ottobre 2010

Richard Ford

E' fin troppo facile, quando si indovina un personaggio come il buon Frank Bascombe, lasciarsi trasportare dall'entusiasmo e concedergli una seconda puntata. A Richard Ford è successo e dopo aver indagato in lungo e in largo nei quattro giorni di Sportswriter (il suo miglior romanzo) ha scelto di dargli un'altra occasione per l'Independence Day del 1988. Se generalmente i sequel, in tutti i campi, smarriscono per strada quello che le prime puntate avevano colto, qui siamo davanti alla classica eccezione che conferma la regola perché Il giorno dell’Indipendenza è un magnifico romanzo dove la vena lirica di Richard Ford si esprime in assoluta libertà con tutto il suo gusto per il dettaglio e per la lentezza. Sotto la sua lente di ingrandimento, la vita di Frank Bascombe svela piccoli cambiamenti: non è più lo sportswriter di un tempo, ma un agente immobiliare fedele al motto “non vendi una casa a qualcuno, vendi una vita”; ha smesso di chiamare X la sua ex moglie e l’incognita è diventata più umanamente Ann; si ritrova con un figlio adolescente con qualche problemino comportamentale. Insomma: tutto a posto, niente in ordine: “Una volta arrivata a una certa età, la maggior parte delle persone sfila davanti ai propri giorni lottando tremendamente con il concetto di completezza, continuando a praticare tutto ciò che era parte di loro, come modo di conservare l’illusione di vivere pienamente”. A Frank Bascombe difficilmente riesce, anche se ormai ha trovato un senso nella sua esistenza nell'attenzione a cui si dedica ad ogni momento della sua giornata: lo salvano un filo d’ironia (“Il meglio è un concetto senza riferimento una volta che sei sposato e hai incasinato il matrimonio; forse persino dopo che hai mangiato il primo banana split, a cinque anni, e hai constatato, finendolo, che potevi anche farne fuori un altro. In altre parole lasciate perdere il meglio. Il meglio non c’è più”) e il calore con cui si avvicina agli altri anche se “comunque la verità è che conosciamo ben poco, e riusciamo a scoprire ancora meno, degli altri, anche se li abbiamo davanti, ascoltiamo le loro lamentele, andiamo con loro sulle montagne russe, vendiamo loro case, teniamo conto della felicità dei loro figli, solo per vederli sparire per sempre in un lampo o in un sussulto o nel tonfo di uno sportello d'auto. Perfetti estranei”. Questa è la sostanza: Richard Ford conosce fin troppo bene la voce di Frank Bascombe e se a questo romanzo si può imputare qualche difetto è nel suo eccesso di zelo per le descrizioni, per le minuzie, per tutti quegli angoli della quotidianità in cui s’infila per pagine e pagine. E' chiaro: Il giorno dell'Indipendenza chiama a vivere accanto a Frank Bascombe, e ci vuole pazienza per seguirlo passo per passo, visto che quell’ossessione diventerà anche la cifra del capitolo successivo, Lo stato delle cose. Ultime due note: a) i viaggi periferici di Frank Bascombe, che in apparenza sono monotoni e senza senso, prendono via via, persino nel corso di tutti e tre i romanzi, una forma ben precisa perché comunque “le destinazioni in un raggio breve sono di gran lunga le migliori”; b) ogni collegamento con l'Independence Day di Bruce Springsteen non è affatto casuale, anche se Richard Ford fa di tutto per tenerlo nascosto, ma il titolo del romanzo e la canzone di The River (nonché l’intero disco) parlano delle stesse “cose”. 

Denis Johnson

La mappa, in fondo, è quella di Apocalypse Now, tutto compreso: il colonnello che diventa troppo autonomo, gli americani in acido che si sparano tra di loro, la violenza e la brutalità gratuite, la CIA, gli agenti dalle mille identità segrete, volontari in missioni impossibili, piccole e inadeguate forze di pace nel vortice di un conflitto che divora tutto e tutti. L’intero catalogo dell’immaginario della guerra del Vietnam. Anche la realtà storica perché quando sul terreno erano più gli uomini in borghese di quelli in divisa, più i filosofi della guerra che i guerrieri, l'atmosfera non doveva essere molto diversa da quella che racconta Denis Johnson nelle prime pagine de L'albero di fumo. Una sorta di vacanza sperimentale, dove tutto era lecito o perlomeno tollerato perché l'intenzione dichiarata era “gonfiare le idee fino a farle scoppiare. Siamo all'avanguardia della realtà. Ai confini del sogno”. Con Denis Johnson, il Vietnam diventa un campo di battaglia psicologico, dove i risultati sul campo, le strategie, le missioni più o meno segrete si confrontano e si confondono con una guerra molto più complessa e irrisolvibile, quella tra illusione e realtà. Come dice uno dei protagonisti: “Non c'è un cazzo di differenza se vinciamo o perdiamo. Viviamo nel post-trash, bello. Sarà un eone molto breve. Nel circuito ectoplasmico, bello, dove i leader dell'umanità sono tutti collegati inconsapevolmente tra loro e con le masse, è stata presa l'unanime decisione mondiale di devastare questo pianeta e trasferirci altrove. Se lasciamo che questa porta di chiuda, se ne aprirà un'altra”. Seguire le gesta di Skip e Francis Sands o dei fratelli Houston o di Kathy Jones diventa relativo, per quanto stimolante: nel “merdaio con fuochi d'artificio” ogni ossessione, ogni paranoia vive di vita propria e nella scrittura densa e elegante di Denis Johnson si trasforma in dialoghi sferzanti, immagini vividissime e una fitta trama di legami, interpreti, comparse, personaggi, maschere, fantasmi imprigionati per sempre nei propri ruoli perché, come dice James Houston, “non è mai domani, in questo film del cazzo. E’ sempre oggi e basta”. La dimensione temporale, e quel “film” che ritorna come se ogni dettaglio fosse frutto di una costruzione fantastica, è il cuore delle tenebre che Denis Johnson riesce a stringere in pugno con una scrittura torrenziale, allucinata e psichedelica nel senso più stretto della parola. L’albero di fumo divarica in modo sensibile la consapevolezza sulla guerra del Vietnam, plasmando dagli elementi storici, geografici e politici del conflitto, una forma astratta adatta a comprendere meglio tutta la follia di quella realtà, e della realtà tout court. E’ un paradosso della letteratura e in fondo, senza alcun dubbio, la sua unica utilità. Come se il tempo si fosse fermato, come se la guerra fosse solo un’altra delle porte della percezione, come se l'orrore fosse infinito, come se il Vietnam fosse ovunque e per sempre. Un capolavoro maestoso e visionario.

Jack London

Due racconti ambientati sul quadrato del ring portano nella boxe la tensione umana e sociale di tutta la narrativa di Jack London: nel primo il boxeur combatte per la fame; nel secondo, per la rivoluzione. Uno è un pugile alla fine della carriera, l’altro un giovane pronto a tutto: stessa lotta, due risultati opposti. L’accostamento magari non era  previsto da Jack London, visto che i due racconti sono usciti distanziati e differenziati, ma qui combaciano alla perfezione. Sia per Tom King che per Felipe Rivera la boxe è un mezzo: al primo serve per non mandare a letto i figli senza cena; per il secondo è lo strumento per finanziare la rivoluzione (messicana) e non fa nulla per dissimulare il suo odio: “Odiava la boxe. Era lo sport odioso dell’odiato gringo. Se aveva cominciato a incrociare i guantoni, facendo da sacco da allenamento per gli altri pugili, era stato per fame. E il fatto che sembrasse costruito apposta per quello sport non voleva dir nulla. Lo odiava”. Da quel grande narratore che era, uno dei maggiori del ventesimo secolo, Jack London mette in scena un’altra versione della sfida tra preda e predatore in cui le parti spesso s’invertono. In entrambi i combattimenti le figure sono riprese (il termine cinematografico ha qui tutta una sua logica) con inquadrature ravvicinate: i muscoli, le smorfie, lo stesso quadrato del ring occupano il primo sguardo. La rappresentazione plastica della boxe ha una teatralità che lascia intuire infinite metafore, però tutte intrise di sangue, sudore e lacrime a livello del ring e complotti, intrighi, scommesse nella platea ululante. Lo stesso boxeur vive di quelle “visioni infuocate e terribili che coglieva nitidamente, come se le stesse vivendo di nuovo mentre sedeva solitario nel suo angolo, gli occhi spalancati, in attesa del suo consumato e furbo avversario”. La stessa costruzione dei personaggi è florida, volitiva e colorita. Felipe Rivera, il giovane pugile che si batte per finanziare la rivoluzione, “è la personificazione di ciò che è potente”, ed è anche “il primitivo, il lupo selvatico, il serpente pronto a colpire, il centopiedi velenoso”. Altrettanto vale per il calcolo delle probabilità: se l’atmosfera di miseria che avvolge Tom King pare avviarlo verso l’ineluttabilità della sconfitta, pur accompagnato dalla speranza (compresa quella del lettore), per attentare alla fiducia di Felipe Rivera si scomodano immagini ai margini della metafisica perché secondo qualcuno “ha tante probabilità di farcela quanto una goccia di rugiada che cada all’inferno!”. Eppure, nonostante tutto e nemmeno per un istante Jack London perde la visione d’insieme o dimentica i motivi per cui quegli uomini stanno combattendo e incisa con graffi chiarissimi tra le pieghe dei due racconti c’è una sottile eppure precisa dedica in cui si ritrovano i loser, gli outsider, i perdenti, gli emarginati, “in una parola, tutta la schiuma di spiriti ribelli prodotti da quel folle e complicato mondo moderno”. La boxe diventa uno strumento di riscatto e i destini di Tom King e Felipe Rivera prima si sommano e poi si elidono, come due boxeur che nel pieno del combattimento si abbracciano sfiniti, ed è una tattica pure quella.

venerdì 8 ottobre 2010

Mark Leyner

Istruzioni per l'uso: Mark Leyner è uno scrittore nel vero senso della parola, e cioè un operaio del linguaggio, un acrobata delle frasi, un fenomeno della natura letteraria, un ventriloquo del punto e virgola. Quindi, chi va in cerca di romanzi consolatori, di biografie più o meno elegiache, di politici che scrivono libri facendosi intervistare da giornalisti che sono deputati che non sono mai in parlamento perché devono intervistare politici che scrivono libri, e il cerchio qui si chiude per il momento, lasci perdere. Mark Leyner, classe 1956, un passato da poeta e copywriter, un presente da marito e da affermato romanziere è una sorta di proiezione futuristica e reale delle visioni di William Seward Burroughs, l'Omero della letteratura americana moderna. La sua ossessione, il linguaggio, è al centro di tutto il lavoro, anzi, è l'epicentro per veri e propri terremoti grammaticali che ribaltano i consueti schemi narrativi. “A me interessa tutto quello che succede nel mondo: sono come un satellite, ho una grossa antenna, ogni giorno immagazzino le notizie” ha detto in un'intervista a Fernanda Pivano che, non la dimenticheremo mai, a suo tempo era riuscita a farlo tradurre, e se l'idea dello scrittore come un’antenna nello spazio e nel tempo sempre pronta a nuove ricezioni non è nuovissima (il precursore in questo senso è stato Ezra Pound) rende bene l'idea del lavoro di Mark Leyner. Che è uno zapping folle attraverso lo strumento della scrittura, una sorta di patchwork linguistico che supera ogni schematismo postmoderno per approdare ad una formula innovativa ed eccitante. Cosa raccontino i suoi libri (Mio Cugino, Il Mio Gastroenterologo e Ehi Tu, Baby tra gli altri) è difficile da dire. Sembrano storie ingoiate da qualche folle mostro alieno, vomitate per eccesso di vocabili incomprensibili e ricomposte in una salsa sintetica. E' chiaro che si tratta di un menù forte, adatto a gusti abituati agli sbalzi di temperatura e ai sapori piccanti, ma ne vale la pena, perché la forma, lo stile, per quanto folli, sghembi e scombinati possano sembrare a prima vista, sono proprio suoi, unici, perfettamente identificabili. Un esempio solo (a voi il piacere della scoperta), tratto da Mio Cugino, Il Mio Gastroenterologo : “Come può essere terribilmente doloroso rimembrare la gioventù. La gente che amavamo sembra attraversare i nostri cuori (come le macchioline oculari che vagolano per il campo visivo), tormentandoci con la prossimità della loro impossibilità”. E' proprio così: tra linguaggi medici, elenchi di progetti, frammenti di storia, schemi matematici, vocabolari tecnici i romanzi di Mark Leyner prendono forma verso immense babeli che sono forse la più pungente rappresentazione della nostra (ormai incomprensibile) realtà. Con un ritmo che definire rock'n'roll è poco, un gusto da paroliere nato e un'ironia spettacolare che è forse la parte migliore di Mark Leyner, di suo cugino, di tutto lo staff e di quel mucchio di pazzi furiosi che scoprirete leggendo i suoi libri.

 

martedì 5 ottobre 2010

Lisa Crystal Carver

Sebbene il vero ordine nella vita di Lisa Crystal Carver sia stato il caos, nel raccontarlo è abbastanza schematica da intravedere, dietro il florilegio di una scrittura sghemba e sprezzante, una chiara sequenza. Quasi uno schema, per quanto sembri impossibile. Eppure, i passi sono presto decisi. Prima di tutto archiviare la (vecchia) famiglia: “La cosa che lo rende più orgoglioso, dice mio mio padre, è che non mi ha mai picchiato, anche se spesso ne avrebbe avuto voglia. Tanta. E ne avrebbe ancora, mi informa. Mi predice che per me sarà facile non picchiare i miei figli; sarà una cosa naturale. Merito suo: ha interrotto un’usanza familiare che andava avanti da almeno un secolo”. Varcata la soglia della disperazione altrui c’è la musica, l’arte, la scrittura, la vita sulla strada, anche se è tutto a un passo dalla tenebre: “Usciamo con gentaglia strana e spaventosa, che un po’ speriamo e un po’ temiamo si occupi di fare il lavoro sporco al posto nostro. Ma siamo così abituati a vivere dentro un sogno che perfino il lavoro sporco sembra un sogno. Non possiamo uscirne. Non possiamo svegliarci”. Lisa Crystal Carver ispirata in tutto e per tutto dal nocciolo dello spirito “punk”, sprizza idee a ogni secondo e l’arte diventa il modo per interpretare la vita, anche perché “la realtà è fatta per nove decimi di intuizione”. L’elemento della provocazione è certo determinante: c’è ossessione, c’è l’attrazione verso le morbosità, l’eccentrico, le devastazioni. Il suo è uno sguardo senza filtro, un diario scheggiato, un taccuino di appunti che diventa libro. Non avendo avuto niente dalla vita, Lisa si prende tutto senza distinguere l’arte dalla spazzatura, riesce ad avere un figlio (Wolf, il nome dovrebbe bastare) e poi subito un aborto, vive con amanti assurdi e viaggia in tour ancora più folli. La scrittura è grezza, immediata, smodata: è un do it yourself continuo, un taglia e cuci che sarebbe piaciuto a Burroughs perché prima di tutto è uno strumento, il suo salvagente, un appiglio a cui Lisa si aggrappa nella sua disperata ambizione di comunicare con il mondo intero. Sembra Patti Smith adeguata ai tempi: più acida, più dura, più spietata. Persino con se stessa, ed è la sincerità negli atti finali a rendere credibile il suo rutilante incendere. La sequenza, anche in questo senso, è micidiale. Una prima distinzione, molto utile, racconta il senso della vita “underground” meglio di tanti studi sociologici e antropologici. In quattro righe quattro: “Non è che possiamo tutti essere produttivi, o che dovremmo esserlo. Il modo in cui gli antisociali, gli esseri rivoltanti o inetti o psicotici, guardano alle cose dovrebbe essere produttivo di per sé”. La seconda ammissione vale un Grammy per l’innocenza: “Non avevamo particolari capacità. Ci spingevamo oltre ciò che sapevamo fare e ciò che eravamo. Abbiamo fallito”. Come nel punk bastavano tre accordi per fare una canzone e formare i Clash, la terza e conclusiva nota da cercare frugando nel torbido delle pagine di Lisa Crystal Carver è rivelatoria nella sua disarmante chiarezza: “E’ dura farsi da parte, uscire da quei girotondi, solo perché ormai è giunta l’ora, perché è il turno di qualcun altro, e perché un piccolo essere umano ha bisogno di noi. E’ dura accorgersi che l’unica cosa che possiamo sperare di conservare è la dignità; e questa, paragonata al fulgore rigoglioso e lacerante che avevamo un tempo, è qualcosa di abbastanza sbiadito”. Tutto, e troppo presto, però qualcosa resta.

lunedì 4 ottobre 2010

Robert Coover

L'ultima volta che il baseball, un luogo della mente americano più che uno sport o un gioco, è entrato in un romanzo è stato nelle prime, mirabili pagine di quel capolavoro che è Underworld di Don DeLillo. E naturalmente, per quanto da tutta un’altra prospettiva, in Quello era l’anno di Dennis Lehane, solo per definire i due estremi di una linea infinita di storie che vedono il baseball in prima e che con Il gioco di Henry di Robert Coover diventa invece più che protagonista, un assoluto. La sua popolarità, l'elaborata complessità, lo stardom system che gli ruota dentro e attorno: forse soltanto il rock'n'roll può competere a fornire i materiali necessari per “un puzzle gigantesco e impossibile, un testo scritto dall’intera nazione attraverso tutta la sua storia, come se le frasi si fossero formate nel corso del tempo, nell'accumulo di tutta questa esperienza: volevo che ci fossero migliaia di echi, tutti i suoni di una nazione”. Definizione di Robert Coover dell’idea di romanzo da lui inseguita che trova in Il gioco di Henry una delle sue più concrete e visionarie realizzazioni. La trama è scheletrica, la scrittura ha un ritmo forsennato (“un'energia linguistica quasi allarmante” secondo l'opinione di Salman Rushdie), il rigore di Robert Coover nel perseguire i suoi esperimenti è totale (“Sono contento di essere un autore così controverso. E' una prova del fatto che sono vivo”) e l'idea di fondo altrimenti  non di può definire che geniale. Un personaggio così comune da sembrare trasparente (di lavoro, contabile, ascolta solo country & western) che però nella vita privata s'inventa un fantabaseball con la Universal Baseball Association, quello che poi è proprio Il gioco di Henry. Un romanzo sicuramente non facile, anzi a volte ostico e volutamente ripetitivo, perché reale ed immaginario continuano a sovrapporsi, confondendo e spiazzando il lettore. Utile, sì, in questo senso, perché Il gioco di Henry non lascia niente per scontato e sembra un punto di non ritorno della ricerca di Robert Coover, che partiva da questi presupposti: “Il romanziere utilizza forme mitiche o storiche familiari per contrastare il contenuto di queste stesse forme e per condurre il lettore verso il reale, dalla mistificazione alla chiarezza, dalla magia alla maturità, dal mistero alla rivelazione”. Con Il gioco di Henry al lettore si chiede molto, ma è anche vero che Robert Coover riesce a rispondere in modo assolutamente non convenzionale a quello che chiamava il nostro “bisogno di miti” e il nostro “bisogno di storie”. Proprio in questo romanzo trovano, nel mito (nel senso più classico del termine) del baseball e nella storia di Henry e dei suo paesaggi mentali l'espressione di quelle grandi metafore che, proprio come diceva Robert Coover, “contengono il mondo: religione, sesso, famiglia, storia, politica”. Da prendere con le pinze, ma da non trascurare, perché sono romanzi come Il gioco di Henry a scardinare e ristabilire le regole, i tempi, i ritmi della narrativa e della fiction, americana e non. 

Richard Price

Aveva perfettamente ragione William S. Burroughs a definire “accurato” e “commovente” questo romanzo. Nessuna concessione allo stile, alle rifiniture, alla poesia: solo una lingua cruda, monca, spietata. Slang di strada, da marciapiede, da vicolo cieco, da campo di football all'imbrunire e da notte sul bancone di un bar. E' il linguaggio della “street life”, della vita di strada. Sono i primi anni Sessanta e ognuno, lungo la mappa del Bronx, tira avanti come può, ma tutti si sentono i più grandi, i migliori, i più importanti. Se stanno in bande dai nomi variopinti (tribù che si fanno chiamare Del-Bombers, Rays, Wongs, Pips e Wanderers), con divise cucite addosso come tatuaggi, sono guerrieri urbani pronti a tutto, ma quando sono soli, uno per uno, davanti agli imprevisti e alle probabilità della vita (un incidente, un matrimonio di riparazione, la chiamata alle armi) scoppiano a piangere. Richard Price è grande nell'evidenziare con il linguaggio, il gergo, le feroci battute questa frattura, questo “crescere in pubblico” repentino e senza rete di salvataggio. Il suo stile è una “street view” molto ravvicinata che si sviluppa attraverso una scrittura quasi livida nel raccontare vita e morte nei giorni e nelle notti del Bronx, ma usufruisce dell'ausilio e della complicità della musica che non è soltanto una colonna sonora per storie, soggetti e situazioni. E' un ordito essenziale nell'atmosfera del Bronx, dove riempie l'aria attraverso la radio (soprattutto) e i jukebox. Non c'è pagina, a partire dalle epigrafi all'epilogo che non contenga una fetta di canzone, un verso, una citazione destinate a sottolineare la vita delle gangs di New York. Tra la ricerca di improbabili alleanze, misere vittorie e impietose sconfitte, qualche dozzina di ragazzi in cerca di un'identità si inventano un mondo fantastico fatto di simboli, lingue intraducibili, prove di coraggio e d'amore fino a quando qualcuno o qualcosa non li fa sbattere contro la vita, quella vera. Arrivati all’inevitabile turning point, che a volte non è altro se non il cul de sac dei loro vicoli “ciascuno diventò un po' filosofo. Alcuni presero a bisbigliare per la prima volta nella loro vita. Fin ad allora, ancora più dello sport, la musica, che filtra da ogni angolo, è il collante indispensabile a rendere palpabile quell’immaginario: “Fabian, Frankie Avalon, Neil Sedaka, Bobby Rydell e Johnny Tillotson” stanno da una parte, “Dion, i Four Seasons, i Dovells e alcune nuove stelle della Motown come Smokey Robinson and the Miracles, Marvin Gaye e Mary Wells” stanno dall’altra, insieme a “quel nuovo ragazzino cieco, Little Stevie Wonder”. L'anfitrione principale (e peraltro anche il responsabile del titolo del libro, ispirato da una delle sue ballate più belle) è proprio Dion DiMucci, cantante italoamericano che è la guida (vocale) del quartiere, o meglio di quel microcosmo urbano che è il Bronx, tanto da meritarsi il ruolo, conclamato, di “king of New York”. Non a caso Richard Price gli dedica la sua storia: splendida musica (e grande libro).

Michael Ondaatje

Billy The Kid è l'immagine stessa del fuorilegge per antonomasia: gli si è opposto Pat Garrett, come Sam Peckinpah ci ha insegnato e come la colonna sonora di Bob Dylan (lui faceva Alias) ci ricorda spesso che ancora adesso quel fuorilegge d’America starà “bussando alle porte del paradiso”. Invano. Se ha un limite, questo piccolo e brillante lavoro tra poesia e narrativa, è solo nel titolo, dove Pat Garrett, l'altra metà della storia, è stato rimosso, ma si capisce perché: Le opere complete di Billy The Kid è un libro di frammenti, sprazzi di narrativa, fotografia che mancano e qualche momento lirico di grande trasporto. Un patchwork letterario che trova il suo elemento unificante proprio nella figura che racconta, perché come si legge nelle pagine introduttive, “anche questo è un modo per narrare storie: immedesimarsi in una leggenda, in un mito, un'energia”. Tra tagli e visioni degni di Cormac McCarthy (“Bisogna far piazza pulita di un bel po' di cose, cioè si girano i tacchi quando parte il colpo te, la squagli non vedi le batoste, gli occhi che sgorgano come fogne rotte, credendo così alla morale dei giornali e dell'arma, dove i corpi sono esanimi come fiori di carta, che non nutri o non fai bere ecco perché, io riesco a vedere lo stomaco degli orologi, ingranare rotelle e perni uno nell'altro, e a uscirne vivo, per ore”), panorami asciutti e paurosi (“Entro di sé, nel paesaggio, immoto di leggenda, avverte, il freddo del suo fosco fato; già, nelle strade arroventate, somiglia a sé stesso da morto”) Le opere complete di Billy The Kid sintetizzano tutta l'epopea western. Curioso che a raccontarla sia un canadese la cui famiglia ha radici a Ceylon, oceano Indiano, ma Michael Ondaatje non è nuovo ad imprese simili. Già con il bellissimo Buddy Bolden's Blues aveva dimostrato dimestichezza con i territori della cultura americana e afroamericana, raccontando gli albori del blues e del jazz: “La musica era grezza, rozza, immediata, vecchia dopo neanche mezz'ora, parlava di cadaveri ripescati nel fiume, di coltelli, di pene d'amore, di sfacciataggine. Lassù sul palco non faceva altro che mostrare tutte le possibilità che si aprivano nel bel mezzo della storia”. Succede anche con Billy The Kid, anche se le scene, e gli strumenti, sono ben altri: Le opere complete di Billy The Kid per raccontare il nemico pubblico numero uno (insieme a Jesse James) dell’America usa modi che aprono spesso le porte ad altre, infinite storie. E’ per via di un modo particolare di raccogliere le piccole tessere di una leggenda e ricomporle secondo uno schema invisibile, ma che proprio per questo rende ancora più efficace la storia. Basta che una voce, en passant, racconti il primo incontro: “Ogni uomo del sudovest degno di questo nome e molti indegni, prima o poi, erano ospiti. L’accoglienza era la stessa per chiunque. A volte uno arrivava al gran galoppo, mangiava al gran galoppo e al gran galoppo ripartiva. Billy The Kid veniva spesso e a volte restava una settimana o due. Ricordo lo spavento la prima volta che si presentò”. E’ da qualche parte, in quel momento, che, come ha capito Michael Ondaatje, è rimasto per sempre.

Marilynne Robinson

La lunga ballata di John Ames è un intenso sguardo al crepuscolo della vita, quando la soluzione finale è ormai alle porte. A settantasei anni, John Ames sa cosa dovrà affrontare: avendo predicato e celebrato per tutto il corso della sua esistenza i misteri gaudiosi e dolorosi della vita e della morte, ne conosce la forma, l'evoluzione, i risvolti. Sa alla perfezione che “sotto la superficie della vita si cela una gran quantità di cose, questo lo sanno tutti. Tanta cattiveria, paura e colpa, e tanta di quella solitudine, anche dove meno ti aspetteresti di trovarla”. Sa anche che non c'è modo di spiegarne l'intima sostanza e se ne accorge quando sente che sta per arrivare il suo momento: “Saprò tutto quel che c'è da sapere sulla morte, o quasi, ma con ogni probabilità me lo terrò per me. Così stanno le cose, a quanto pare”. L'affermazione non è ovvia come potrebbe sembrare a una lettura superficiale: nel suo recinto di parole c'è tutto il rapporto con la fede e l'impossibilità di John Ames di testimoniarla ancora, una volta chiusa la pratica terrena. E' qui che, dopo averla praticata tutta la vita, ritrova il coraggio della parola per ripristinare un ordine, per trovare il modo di lasciare al figlio una mappa, un lascito, un suo ritratto. L'impegno di John Ames è tale che risalendo l'albero genealogico della sua famiglia ricostruisce anche alcuni passaggi vitali dei due secoli di esistenza degli Stati Uniti d'America, e per quanto sia sorretto dalla fede e dall'amore per la sua famiglia, non si lascia mancare i dubbi perché “la nostra vita di sogno finirà come finiscono i sogni, in modo brusco e totale, quando sorge il sole, quando arriva la luce. E penseremo: tanta paura e tanta sofferenza per niente. Ma non può essere vero”. Nell’affrontare l’ardua missione di John Ames e l’ancora più complessa personalità, la voce di Marilynne Robinson è forte e sicura e quello che nella sostanza è un lungo monologo, si svela come un romanzo molto coraggioso nella sua particolare forma (appunto) ma anche nell'insistere su temi maiuscoli: la vita, la morte, la fede, i legami, la memoria, la conoscenza, la speranza. E' una sfida che chiede molto al lettore, ma all'interno di un rapporto biunivoco perché Marilynne Robinson ha un'eleganza, quasi una forma di leggerezza nel sapere interpretare fino in fondo il carattere di John Ames e, nei suoi momenti migliori, sa essere nello stesso tempo semplice e lirica. Persino con un tocco di genialità, perché rendere semplice un tema complicato, è la forza di una grande scrittrice. Succede, tra l’altro, in uno dei passaggi fondamentali di Gilead dove deve spiegare il tono crepuscolare ovvero la rarefatta atmosfera in cui è immerso John Ames con il suo delicatissimo testamento: “Di quanto in quando mi piace molto la tranquillità di una domenica qualunque. E' come stare in un giardino appena seminato dopo una pioggia tiepida. Si riesce a sentire la vita silenziosa e invisibile. L'unica cosa che ti chiede è di fare attenzione a non calpestarlo”. Da leggere e da rileggere, ma solo dal tramonto in poi.