lunedì 30 agosto 2010

George Pelecanos

Derek Strange, private eye della Strange Investigations, ascolta Al Green, Ennio Morricone, gli War, James Brown. Nell’auto, dove vive più che in ufficio perché a lui piacciono i metodi old school c’è anche una K7 (è l’ultimo rimasto al mondo a usarle) di Stevie Wonder, una presenza costante nell’arco di tutto il romanzo, che è noir nel senso migliore del termine, ovvero accede alle “backstreets” di una metropoli (è Washington) attraverso e con la tensione di un romanzo, ma cela tra le sue pagine molti elementi di storia, di cronaca nonché di utile polemica. La musica fa da collante, almeno nella trama, e, nello stesso tempo, da prisma focale nel mostrare i vari livelli urbanistici e sociali della metropoli: l’hip-hop nelle strade, la Motown nei soggiorni, tutto il resto (da Nino D’Angelo ai Limp Bizkit) nell’aria e nel finale (prima dell’epilogo con Al Green) c’è la tromba rarefatta di Miles Davis. Più di una colonna sonora per raccontare con uno stile sciolto, molto descrittivo, molto cinematografico le “vite brevi” dei ragazzi e delle ragazze nelle periferie dell’impero dove chiunque, non ancora adolescente, finisce per essere un numero “buono per la statistica”. Derek Strange e i suoi soci conoscono bene quelle strade dove “comportarsi sempre bene era difficile. Difficile camminare in un certo modo, parlare in un certo modo, controllare sempre il proprio atteggiamento, quando a volte tutto quello che uno desiderava era essere giovane e divertirsi”. Quartieri minati senza rimedio dalla droga, dalla prostituzione, dalle armi e da un’ossessione per il denaro che diventa “la morte della lealtà”. Un territorio frantumato e desolato, “un posto dove non puoi nemmeno guardare qualcuno per paura che ti faccia fuori”. Quando Joe Wilder, dieci anni e promessa del football allenato proprio da Derek Strange nei ritagli di tempo, viene ucciso in un regolamento di conti, vittima innocente di una vendetta nutrita da un odio diffuso e velenoso, molti dettagli cominciano ad associarsi in modo quasi naturale. Derek Strange si ritrova nell’epicentro di un caccia all’uomo senza esclusioni di colpi che George Pelecanos, abilissimo nel disporre piani e prospettive, mette al centro dell’azione. Intorno lascia gravitare altre storie (compresa l’urgenza dei legami affettivi di Derek Strange e colleghi) tutte funzionali a identificare con precisione netta le identità dei personaggi nonché la mappa storica e geografica della città. Il thriller o il noir in genere diventa, una volta di più, un modo per narrare la realtà senza i filtri della cronaca o dell’analisi storica: l’emarginazione, le gang, l’impoverimento e la disperazione di interi quartieri, la minaccia quotidiana di una decadenza inarrestabile che non è frutto solo di “una contrapposizione tra bianchi e neri, bensì tra avere e non avere denaro, e del modo, per quelli che ne avevano, di mostrare la loro superiorità su quelli che non ne avevano. La buona vecchia insicurezza, antica come il mondo”. Un dubbio enorme che attanaglia tanto Derek Strange quanto George Pelecanos che di fronte all’ennesima, piccola vittima innocente forgiano un comma fondamentale: “Nessun omicidio può essere risolto”. Si può vendicare, in un modo o nell’altro, ma è sempre una ferita che non si rimargina più.

lunedì 9 agosto 2010

James Dickey

Anche a distanza di oltre trent'anni dalla sua pubblicazione, Un tranquillo weekend di paura è una storia (tanto in versione letteraria quanto in quella cinematografica, per la regia di John Boorman) fondamentale per comprendere la cognizione della wilderness americana. Durissimi, spietati, feroci e senza lieto fine all'orizzonte, tanto il film quanto (e più) il romanzo hanno come protagonista assoluto il fiume e un paesaggio che, come è vero, vive di vita propria. L'assunto principale di Un tranquillo weekend di paura è che Lewis, Bobby, Drew ed Ed hanno perso (come tutti noi) il contatto con la natura e non basta certo un fine settimana in canoa per ritrovarlo. Anzi, l’alveo del fiume diventa ben presto un'entità oscura, impenetrabile e minacciosa come racconta Ed: “I luoghi cominciavano a essere molto solitari e silenziosi. Ricordai che potevano spaventarmi e subito mi spaventai. Era la splendida impersonalità del posto a impressionarmi; non avrei mai creduto che potesse colpirmi tutto a un tratto in quel modo, o con tanta forza. Il silenzio e il suono-silenzio del fiume non avevano niente a che vedere con noi”. Non si potrebbe dire meglio. Le sole note dissonanti sono gli accordi della Martin di Drew che suona pezzi di Gary Davis, Dave Van Ronk, Merle Travis, Doc Watson, affascinato dal panorama e dall'aver incontrato un giovane banjoista (“Ci sono canzoni, tra quelle alture, che i collezionisti non hanno mai registrato su nastro” e forse nemmeno Alan Lomax o Harry Smith sarebbero mai passati da quelle parti). I frammenti di musica, fondamentali nell’economia della storia (a suo tempo la colonna sonora del film contribuì non poco ad una delle cicliche riscoperte delle radici musicali americane) sono l’unica forma, in sé volubile e frammentaria, di un impossibile dialogo con gli abitanti radicati nella wilderness, resi in modo piuttosto feroce e univoco da James Dickey. Una versione più cortese sarebbe risultata improbabile, vista la volontà di sottolineare l’enorme e incolmabile distanza tra due mondi ormai separati per sempre. Il dramma non tarda a giungere (anche se poi la natura ha responsabilità relative: è sempre il genere umano l’animale più feroce) e tra i cittadini in cerca di emozioni e i loschi individui che sono emersi dalla foresta si scatena una caccia dove prede e predatori sono ruoli che, “dove porta il fiume”, diventano interscambiabili. I dettagli, e molti altri risvolti, vanno scoperti attraverso la dettagliata e scorrevole scrittura di James Dickey, che di Un tranquillo weekend di paura ha detto: “Volevo far vedere un uomo che, per difendere la propria vita e quella di due persone che dipendono da lui, diventa un eroe e insieme un criminale: volevo far vedere, in effetti, che non esiste un reale confine tra i due, a volte o forse in generale”. Simbolico che, nel finale del film, James Dickey impersoni lo sceriffo (John Voight è Ed e Burt Reynolds è Lewis) ed è altrettanto emblematico che sia un lago artificiale, alla fine, a nascondere definitivamente una storia piena di ambiguità, di luoghi e di contrasti che fanno pensare, e non poco.

Jack Finney

La storia è quella conosciuta attraverso le sue diverse riduzioni cinematografiche, a partire da quella classica di Don Siegel. In una smalltown della provincia americana (in una valle della California, per la precisione) una misteriosa presenza, che poi si scoprirà di origine aliena, s'impadronisce dei corpi degli abitanti. Il processo è inquietante perché come racconta Jack Finney “gli uomini, le donne e i bambini della comunità erano diventati qualcos'altro, dal primo all'ultimo. E ognuno era nostro nemico, compresi quelli che avevano le facce, gli occhi, i gesti e il modo di camminare dei nostri amici e parenti. Non c'erano alleati per noi chiusi lì dentro, e già il contagio andava diffondendosi fuori città”. Ad accorgersi di quello che sta succedendo è soltanto uno sparuto gruppo di semplici cittadini guidati da Miles Boise Bennell, un placido e discreto medico condotto. All'inizio tra mille diffidenze e altrettante precauzioni restano allibiti davanti alle forme pseudoumane che si ritrovano attorno, copie perfette di parenti, amici e conoscenti. Se le sembianze corporee sono pressoché identiche, nella loro precisione mancano di quelle imperfezioni che sono tipiche dell'umanità (“Non si può vivere una vita normale senza farsi qualche cicatrice, senza prodursi qualche segno particolare”), ma soprattutto non hanno il soffio delle emozioni, quella luce negli occhi (“L'uomo, come tutti gli animali, non sopporta una dieta prolungata di qualsiasi emozione: paura, felicità, orrore, dolore o anche appagamento”). Come si scoprirà, pagina dopo pagina, la forma aliena che sta occupando Mill Valley attraverso l'esproprio dei corpi dei suoi abitanti sta lottando per la sua stessa sopravvivenza. Una battaglia impari, sembra di capire, contro quel devastante virus, come lo chiamava William Burroughs, che è il genere umano. A distanza di cinquant'anni, i misteriosi baccelli dell’Invasione degli ultracorpi (come del resto il bellissimo Indietro nel tempo) non hanno perso un grammo della loro forza metaforica, polemica e, in ultima analisi, filosofica. Attorno a questi pericolosi ospiti da un altro universo, Jack Finney intreccia una vasta rete di temi: la vita nella provincia americana (e comunque nella provincia in genere) che non è mai facile con il suo infinito tran tran e le sue bizzarrie, la paranoia per lo straniero, le crisi d'identità quando il mondo attorno a noi cambia in modo rapido, ma impercettibile, persino una strisciante love story. Gli ingredienti così disparati ed eterogenei vengono sintetizzati da Jack Finney in un romanzo essenziale sul piano della scrittura almeno quanto efficace nel colpire l’immaginazione, come hanno poi dimostrato tutti i suoi succedanei più o meno ispirati. Molti dei quali si sono limitati ad accentuare gli aspetti visivi, confondendo la raffinatezza della storia iniziale con le esigenze spettacolari, ma l’aspetto fantascientifico, per quanto importante, è relativo: sottile, profondo, suggestivo, L'invasione degli ultracorpi è un vero e proprio classico moderno.

Sandra Cisneros

Non capita tutti i giorni di incontrare una scrittrice che cita Los Lobos, Augie Meyers e i Texas Tornados, Flaco Jimenez nonché un elenco sterminato di musicisti chicani che, vivendo a San Antonio, Texas, sono una parte integrante della sua vita. Anche se è nata a Chicago, da una famiglia di origine messicana, Sandra Cisneros ha sempre sentito un richiamo, innato e spiritato, verso il border anche se, ha detto, “essenzialmente siamo scrittori americani che scrivono in inglese e abbiamo bisogno di uscire dagli Stati Uniti per trovare una nostra strada, un nostro pubblico. Dal mio punto di vista, cerco di portare, di raccontare la diversità dei latinos negli Stati Uniti, che non è necessariamente la mia storia, la mia diversità perché io sono stata fortunata. Mio padre faceva il tappezziere e sono potuta andare all'università, ho studiato e non sono dovuta fuggire da nessuna parte, ma non è così per tutti gli emigranti”. Fosso della Strillona raccoglie i racconti degli esordi di Sandra Cisneros (risale al 1991), un'orchestrata accolita di voci femminili che suddivisa è suddivisa in short stories, ma è in realtà un romanzo dedicato alle vite passate sul e nel border, come conferma la stessa scrittrice: “Sì, la mia scrittura vive dei loro racconti. Il Fosso della Strillona è un vero torrente vicino a San Antonio, Texas, dove vivo. Bisogna ricordare che il Texas si chiamava Tejas ed era parte del Messico e ho provato a scrivere la storia da mio punto di vista, ho cercato di raccontare storie che diversamente sarebbero andate perse. Il cinquantadue per cento del Texas, dove vivo, è messicano, chicano, latinoamericano e afroamericani, ma nessuno sa di noi, nessuno consoce la nostra vita. Siamo esclusi dalle posizioni di potere, dai media. Neanche i nostri bambini conoscono la storia, perché non gliene viene offerta la possibilità. Per esempio, il motto di San Antonio è: ricordiamo Alamo,  e tutti i libri di storia presentano i messicani come nemici che trucidarono gli americani, ma nessuno ricorda che erano proprio loro gli invasori. Tutto ciò genera una specie di schizofrenia che si riflette evidentemente sul nostro tessuto sociale. Il cinquanta per cento dei latinos abbandona gli studi nei primi anni della scuola superiore e abbiamo la più alta percentuale di gravidanze nell'adolescenza. Per questo scrivo le storie della mia gente. Ogni singola storia può sembrare banale, ma tutte insieme fanno un'epopea". Più scorrevoli e brillanti di Caramelo (basta, per esempio, leggere il brevissimo Film messicani: due pagine, un incanto) le diversi parti di Fosso della Strillona sono composte da un'ardita miscela culturale che viene assemblata con lingue, strumenti e sfumature culturali molto differenti, ma senza soluzione di continuità. Tutto dipende dalla formazione di Sandra Cisneros che lei stessa riassume così: “Sono cresciuta in una casa piena di libri, ma erano libri della biblioteca pubblica di Chicago. Fintanto che sono cresciuta, infatti, ho pensato che i libri fossero una proprietà pubblica. In più, mia madre portava a casa i fotoromanzi e mio padre delle sanguinose riviste noir, tanto truculente che mia madre lo costringeva ad avvolgerle nella carta da pacco per nasconderne le copertine. Nella mia famiglia non si faceva distinzione e così tra i libri di Christian Andersen o le riviste è nata la mia cultura. Anche se oggi il mio ricercare non avviene in biblioteca, perché le nostre storie non si trovano nelle biblioteche, ma andando a conoscere direttamente le persone perché ogni persona è una biblioteca che cammina e quando mi racconta la sua storia, diventa subito una parte della mia storia. Non so poi, perché tenda a mettere tutto quanto nelle mie storie credo dipenda dallo stile messicano, mas y mas, di più e di più e credo sia qualcosa molto vicino anche alla cultura mediterranea. Non so perché, forse un antropologo potrebbe spiegarlo. Forse è perché come emigranti siamo abituati a portarci dietro tutto, e allora non ci facciamo mancare nulla. Mas y mas, appunto”. Anche la musica con cui, a sorpresa, Sandra Cisneros ha un rapporto contradditorio: “Quando scrivo dedico alla musica un sacco di tempo e di ricerche perché è fondamentale nel ricreare gli spazi e gli anni che racconto, ma quando non devo scrivere mi dimentico completamente della musica, c'è silenzio completo, assolutamente neanche un rumore. In macchina ascolto lezioni per non perdere tempo e non ascolto la radio perché mi rende nervosa. Ma quando scrivo la musica è indispensabile per creare un mood, per ricostruire un’epoca, un ambiente, come è stato per Caramelo. Poi vivendo a San Antonio, che è la capitale della musica chicana, la Nashville della musica chicana, la musica è tutta intorno, tutto il giorno”. Dalla racconta di Fosso della Strillona manca un tassello importante, ma non è frutto di una scelta editoriale o di un errore bensì di un'intuizione. Racconta meglio Sandra Cisneros: “Insieme ai racconti di Fosso della Strillona c'era questa short story e un mio amico mi ha detto che conteneva già tutto un romanzo. All'inizio ero entusiasta dell'idea, l'ho tolta dalla raccolta e ho cominciato a lavorarci. Poi l'avrei maledetto perché quella storia mi ha portato via un bel pezzo della mia vita, è stata un'impresa molto difficile e faticosa, perché il piacere non è scrivere, è finire”. Dieci anni dopo, quell'outtake sarebbe diventata Caramelo, che è e resta un capolavoro.

domenica 8 agosto 2010

Thomas McGuane

Sporting Club è il rocambolesco esordio di Thomas McGuane (e risale a 1968) e magari non c’è ancora la raffinatezza con cui, altri anni e altri romanzi dopo, riuscirà a trasformare il sarcasmo in ironia, raggiungendo un raro equilibrio tra la grazia della scrittura e un sottile e acutissimo tono di polemica. Nella sua essenza, però, Sporting Club contiene già, per quanto acerbi e squilibrati, tutti gli elementi che distingueranno la sua narrativa, a partire dal racconto di una “borghesia” non molto illuminata, “uomini senza opinioni, colori genuini, ambizioni ingombranti e sogni ad alta velocità” per dirla con le sue parole. Attraverso le loro gesta, Thomas McGuane spinge sulle pagine di Sporting Club un ritratto decadente della società americana nei primi anni della seconda metà del ventesimo secolo che nelle sue linee generali è ancora molto attuale. L’occasione è data da un triangolo di amici, amanti ed equivoci che si articola tra le mura di uno “sporting club” che è la parodia, anche piuttosto feroce di tutti i “country club”, come espressione di ogni circolo chiuso ed esclusivo. Va da sé che lo Sporting Club di Thomas McGuane è del tutto particolare nel sintetizzare i tic e i luoghi comuni di quella che dovrebbe essere l’élite di una nazione, o magari soltanto di una città e invece si svela come una tribù deforme, bizzarra e autoreferente. Allo Sporting Club l’hobby preferito non è né la caccia al gallo cedrone né la pesca alla trota, ma il complotto, gli uni contro gli altri. Nei momenti lasciati liberi dalle congiure “bevono un sacco. Parlano del passato. A volte è commovente, in genere molto noioso. Il peggio viene quando cantano”. Fuoriclasse, in questo genere di attività, è Vernor Stanton, figlio di papà dalla natura psicotica, uno che ammette con un certo candore: “Non mi sto giocando niente. Sono in vacanza. Ordire trame, sberleffi, duelli e spargere zizzania con un ghigno satanico stampato in faccia è la sua unica occupazione quotidiana e si scontra con l’amico James Quinn che invece un lavoro ce l’ha (più o meno) da qualche parte. Gli eventi precipitano in una serie di circostanze catastrofiche (dall’esplosione di una diga ad amplessi multipli open air) con risvolti imprevedibili, spesso venati da una surreale tinteggiatura psichedelica. Ciò non toglie nulla all’affilata ricostruzione di Thomas McGuane che non concede scappatoie ai suoi personaggi. Un po’ perché “la vita è vorace, e non c’è scampo”, un po’ perché “la storia non ha rispetto per il singolo individuo” gli affiliati allo Sporting Club finiscono su un’ipotetica gogna e, giunti nudi alla meta, rivelano tutta la precarietà morale delle frustrazioni e delle idiosincrasie del potere e dei potenti (perché di quello si sta parlando). Un minimo di giustizia trova il suo corso, almeno nelle pieghe di un romanzo. Sarà anche innocua, ma basta ad avvalorare il proposito di Thomas McGuane che, con la voce di uno dei personaggi di Sporting Club, semplifica così l’essenza di quei circoli impermeabili e accidiosi: “tuttavia, dimostrando un insperato buon senso, la gente costruisce le bombe che si merita, e fino a quando continueranno a usarle, io li tratterò come le merde che sono”. Il romanzo è esuberante e caotico, l’idea di fondo era e resta perfetta.

David Gates

Oltre a essere uno splendido romanzo, Preston Falls è soprattutto una storia che racconta quanto contano e pesano la musica pop e il rock'n'roll nelle nostre vite. Una colonna sonora costante che arriva dall'autoradio, dai nastri e dai dischi, dagli spot televisivi, dalle sonorizzazioni dei supermercati e degli aeroporti. Anche dalla passione coltivata come se fosse un rifugio estremo e inattaccabile dalle intemperie della realtà. Si sa come funziona l’infinito sogno di diventare una rock’n’roll star, anche quando capita a tempo ormai scaduto, come succede a Dougie Willis, il protagonista maschile di Preston Falls, che, su tutto, adora suonare la chitarra. Ne ha quattro, tutta roba di qualità rigorosamente vintage: Fender, Gibson, Martin, Rickembacker. Di professione è, o dovrebbe essere, un dirigente delle relazioni pubbliche, ma non manca mai di suonare la sua Telecaster sopra Talk Is Cheap, il primo album solista di Keith Richards. La moglie, Jean Karnes, la chitarra non riesce più a suonarla (con due figli, è un po' difficile), ma in gioventù sapeva a memoria tutte le canzoni di Blue di Joni Mitchell. Lei e lui si sono incontrati ad un concerto di Bob Dylan nel periodo della conversione cristiana (sono usciti prima della fine) tra Slow Train Coming e Saved. I tempi, come direbbe lo stesso Bob Dylan, cambiano e Preston Falls racconta, con intensità e amarezza, una famiglia che si sta separando. A Dougie Willis, poco portato al dialogo e più incline a sogni del tutto inconcludenti, resta soltanto un’improbabile rock’n’roll band (con un nome futile, Air Bag). A cui un’immane quantità di tempi e pensieri. Forse un po’ troppi, perché come dice la consorte (che non ha meno problemi di lui) “Willis ha sempre quattro o cinque ragioni per fare qualcosa”, e spesso non  sono proprio le più giuste. Basta l'ultimo week-end delle vacanze, a Preston Falls (appena fuori New York) perché il suo matrimonio, la famiglia e una mezza dozzina di vite comincino a disintegrarsi in un acido pulviscolo di rimpianti. Senza lieto fine, ma questo tocca al lettore scoprirlo. A trascinarlo fino in fondo ci pensa David Gates con una scrittura a ritmo serrato, dialoghi brucianti, un sovrapporsi di personalità, punti di vista, personaggi che non lasciano scampo. La bancarotta esistenziale e le nevrosi di Dougie Willis e consorte, due esponenti della middle class suburbana, ricorda da vicino quella di Frank Bascombe e della di lui X (la chiamava così) in Sportswriter, con cui Preston Falls ha più di un punto in comune. Però a David Gates mancano i toni consolatori e quel senso di pietà per il genere umano che è proprio di Richard Ford. Tagliente, durissimo, senza alcuna concessione, a volte persino malinconico nel raccontare il crepuscolo di un matrimonio (ma anche di un intero modo di vivere, con ogni probabilità) Preston Falls vibra di rock’n’roll dall'inizio alla fine, un po’ per i trascorsi di David Gates e un po' per la passione di Dougie Willis (che ha qualcosa in comune con Steve Earle). Memorabile la sequenza delle prove degli Air Bag, dove il buon Willis si trova con una combriccola di spaesatissimi fuori di testa. Tentano l'attacco di Walk This Way (ma gli Aerosmith non sono una rock’n’roll band facile da imitare), il batterista chiede disperatamente di suonare qualcosa degli Stones, le chitarre sono sempre scordate, cocaina e marijuana scendono a valanga. Il gruppo non è che funzioni benissimo, ma “comunque è bello farsi di cocaina e suonare il rock’n’roll, o anche solo farsi e restare là con le chitarre e il resto”. Gli va un po' meglio quando decide di suonare sopra i dischi, ma è davvero una soddisfazione minimale e relativa quando tutto intorno il mondo sembra venire giù con le foglie dell'autunno. A Preston Falls, dove Willis si è venduto anche le tegole del tetto, non rimane molto da fare e infine anche il “tempo di rock'n'roll” come lo chiama David Gates  svanisce. Una fantasiosa vita parallela può essere una valvola di sfogo e, come sappiamo, un’utilissima e fondamentale componente in cerca di un equilibrio esistenziale, ma non è mai autosufficiente, nemmeno con il miglior rock’n’roll. Per Dougie Willis l’unica e ultima alternativa rimane la fuga, mentre a Jean Karnes restano i figli. Per tutti (e due) un’infinita amarezza, che nessuna canzone, nessuna ballata può curare.

venerdì 6 agosto 2010

Hunter S. Thompson

Prendete uno scrittore che per capire il mondo s'inventa giornalista e mandatelo in vacanza con gli Hell's Angels (a bere, a divertirsi, a mettere a soqquadro le small town americane) per poco più di un anno, tra il 1964 e il 1965, fategli riordinare i suoi appunti a pieno ritmo per una settimana o giù di lì, minacciandolo di fargli restituire l'anticipo (già partito in birra, droghe, rock'n'roll e altre lussurie) ed avrete la storia di Hell's Angels. Lo scrittore in questione non poteva che essere Hunter Stockton Thompson: il Dottor Gonzo, il Raoul Duke di Paura e disgusto a Las Vegas e di dozzine e dozzine di altre deliranti storie. Una casa piena di fucili e pistole, abitudini quotidiane non proprio salutari, belle macchine, rock'n'roll e tante ragazze intorno: insomma, America. La scelta di seguire gli eventi che fecero scoprire gli Hell's Angels al mondo fu un po' casuale e un po' voluta perché il nostro Doc è uno a cui piacciono gli argomenti forti e la vita on the road, ma anche perché “il concetto di motociclista fuorilegge è unicamente americano quanto il jazz. Non era mai esistito nulla di simile. In un certo senso sembravano una specie di incrocio anacronistico, uno strascico umano dell'epoca del Wild West. Eppure, sotto altri punti di vista, erano nuovi quanto la televisione”. Si parla di oltre trent'anni fa: letto con le pinze, oggi, Hell's Angels è più utile a capire Hunter Stockton Thompson e l'America che non gli Hell's Angels stessi anche se, in fondo, la sua attualità è nel fatto che furono i mass media di una società da avanspettacolo a farne un caso. Come scrive il Doc: “Un giorno erano una gang di vagabondi, in cerca di un dollaro e ventiquattr'ore dopo facevano affari con fotografi, giornalisti, scrittori free-lance e ogni sorta di marchettari del mondo dello spettacolo che parlavano di gran soldi. Per la metà del 1965, si erano solidamente affermati come i cattivi delle favole di tutta l'America”. La famosa maggioranza silenziosa di benpensanti con la macchina sul vialetto e le ferie in Florida già pagate non aspettava altro: una nuova banda di fuorilegge, i nemici pubblici numero uno, i barbari del futuro. La questione era un po' più sottile e Hunter Stockton Thompson ha visto giusto quando, parlando degli Hell's Angels, scrisse che “la loro posizione è molto più di un malinconico desiderio di essere accettati in un mondo che non hanno costruito. La loro reale motivazione è un'istintiva certezza su quale sia il punteggio della partita. Sono fuori dal gioco e lo sanno”. Meglio così perché poi il gioco del sogno americano si sarebbe fatto un po' troppo sporco, anche per degli onesti fuorilegge come gli Hell's Angels che, naturalmente, ci tennero a ribadire le proprie scelte spiegando a lettere cubitali ad Hunter Stockton Thompson, la storia della sociologia e della filosofia in quindici parole (o giù di lì) che valgono qualsiasi romanzo: “Siamo l'un percento amico, l'un percento che non sta in riga e se ne fotte”. Anche Hunter Stockton Thompson ha imparato qualcosa stando in sella ad un'Harley, perché nel viaggio successivo, quello di Paura e disgusto a Las Vegas, si è infilato in una Chevrolet rossa ed ha lasciato libero il suo delirio di scoprire visioni e incubi nel deserto. Altri fuorilegge scalpitano per dimostrare che “l'insieme uomo-macchina (cioè, Harley) è molto più della somma delle sue parti”, o semplicemente per godersi la propria libertà. Il resto, con tutte le precauzioni del caso, è ormai parte della storia.

Don DeLillo

“Mick in una stanza con la mascella ciondolante. La bocca fa i gargarismi e sputa, lecca un cono gelato. E il pezzo di filmato è vibrato in rosso, corpi bioluminescenti, proprio quello che tutti amiamo del rock'n'roll, pensò Klara, l'aureola di luce di una morte superiore”: mettete un segnalibro sull’immagine fluttuante raccontata da Don DeLillo nel cuore di Underworld, ma prima di tutto, tenete d'occhio la palla. E' un fuoricampo del 1951: storico, per la vittoria dei Giants e perché nello stesso momento i sovietici facevano esplodere un ordigno atomico, mettendo a repentaglio la supremazia americana negli armamenti nucleari e inaugurando l'era della guerra fredda, della bomba, della paura e della caccia alle streghe. La palla vincente diventa un feticcio che viaggia da un capo all'altro del paese, inseguita da una folla di personaggi che attraverso le loro vite tratteggiano a tinte forti la cognizione e la percezione di mezzo secolo di storia americana. E' subito spontaneo un parallelo con Pastorale americana di Philip Roth che ripercorre, su scala familiare, lo stesso periodo, ma i personaggi di Don DeLillo sono più tremendamente soli con le loro incognite. C'è chi dipinge resti dei bombardieri B-52, chi cerca di eliminare rifiuti pericolosi per poi vederseli costantemente tra i piedi, chi lavora nelle basi segrete attorno ad Alamagordo, chi viene sfiorato dall'alone di Lenny Bruce o di Frank Sinatra. Tutti inquadrati da Don DeLillo attraverso i piccoli gesti quotidiani delle loro esistenze che danno il ritmo ad Underworld rendendo il tempo, la storia i veri protagonisti anche se, come scrive lo stesso DonDeLillo "in ultima istanza, noi non dipendiamo dal tempo. C'è un equilibrio, una specie di contrappeso tra la continuità del tempo e l'entità umana, il nostro fragile castello di soma e psiche. Alla fine noi soccombiamo al tempo, è vero, ma il tempo dipende da noi". In queste quattro righe c'è l'essenza di Underworld, romanzo che sembra riunire in un solo, voluminoso (sono ottocento pagine) delirio tutti i temi cari a Don DeLillo: i lati oscuri del rock'n'roll di Great Jones Street (il vero, unico, fondamentale testo sul rock'n'roll), le paranoie della società moderna di Rumore bianco e Mao II, il feticismo di Cane che corre e le presenze inquietanti di servizi segreti e altri grandi fratelli in Libra, I nomi e I giocatori. Il tutto centellinato con una scrittura esigente, sì,  con il lettore, ma che offre una percezione della realtà e in ultima analisi del mondo in cui viviamo come nessun altro scrittore o qualsivoglia mezzo di comunicazione ha mai provato a fare. Tanto che dopo la lettura, anche soltanto di una buona metà di Underworld, capita, come ai personaggi di Don DeLillo, “vedere cose strane in una stradina secondaria in una sera piovosa, e ci si chiede come mai sembrino significative”. Per semplificare, Underworld alza la soglia dell'attenzione e porta il lettore a vedere dentro la storia, il tempo, i fatti allenandolo, pagina per pagina, ad approfondire la sua osservazione. Per questo non bisogna mai perdere di vista la palla. Ah, e per chi fosse stato appena appena sfiorato dal dubbio, Mick è Mick Jagger e nella grande odissea americana dal 1951 agli anni Novanta, a rappresentare la prima metà degli anni Settanta (il breve capitolo centrale di Underworld) ci sono proprio loro, i Rolling Stones di Cocksucker Blues. Gli unici, veri ed eterni principi dell’Underworld. Capolavoro.

Kurt Vonnegut

L'uomo senza patria è un Kurt Vonnegut crepuscolare che racconta la sua America e il suo mondo senza nascondersi nemmeno per un istante dietro le righe o nelle pieghe della sua abilità di cambiare registro da un momento all'altro. “Qualche altro giorno, e poi tanti saluti” è il suo addio, che in realtà qui funziona come un saluto iniziale perché, ormai superata la boa degli ottant'anni, Kurt Vonnegut può legittimamente pensare di essere al capolinea e di trovare un accordo, soprattutto con se stesso, per la “comica finale” della vita. Invece ne ha ancora per il mondo intero anche se paradossalmente fa di tutto per far uscire dalla sua penna caustica più i motivi delle sue passioni che dei suoi risentimenti. Scrive un'elegia, breve ed essenziale, del blues (“La cura più indicata per l'epidemia mondiale di depressione è un dono che prende il nome di blues”), mette in chiaro cosa significa essere un artista dei nostri tempi (“L'arte non è un modo per guadagnarsi da vivere. Ma è un modo molto umano per rendere la vita più sopportabile”), prova ancora una volta a ricordare il palliativo della letteratura (“Volevo che tutto sembrasse sensato, così che ognuno potesse essere felice, sì, anziché angosciato. E ho inventato bugie che si incastrassero per benino e ho reso un paradiso questo mondo meschino”), dettando e trasgredendo i comandamenti a modo suo (“Ecco: ho appena usato un punto e virgola, che in principio vi avevo detto di non usare mai. L'ho fatto per chiarire un concetto importante, e cioè che le regole, anche quelle buone, sono utili fino a un certo punto”). Tutto intervallato da frammenti di vita privata (la sua battaglia contro il fumo), slogan coloriti (“L'evoluzione è veramente creativa. E' così che ci siamo ritrovati con le giraffe”), le solite tonnellate di ironia e una lucidità ancora perfettamente intatta. E' inevitabile che lo sfondo dell'America di oggi sia il bersaglio preferito degli strali di Kurt Vonnegut, ma il suo non è un attacco frontale, denigratorio, cruento. Vonnegut è un “good american” che crede nelle arti e usa le parole con l'equilibrio e la saggezza di chi cerca ancora la verità perché “In effetti la verità può avere un potere enorme. Perché uno non se la aspetta”. Un uomo senza patria non è il primo e si spera naturalmente non sia l'ultimo capitolo autobiografico di Kurt Vonnegut, anche se tutto sommato è il più brillante. E' utile però ricordare  Destini peggiori della morte e anche Divina idiozia che ha più di un'affinità con Un uomo senza patria. Dove tra l'altro, a proposito dell'America, della guerra e del crepuscolo (che è di tutta una civiltà, non solo di Vonnegut) scriveva: “Poco importa chi abbia mentito. Dovremmo chiudere tutti la bocca per un po’. Lasciate che la nostra armata ritorni a casa avvolta in un silenzio di morte”. Era perfetta nel 1971. E' perfetta oggi. Qualcosa, in mezzo, non deve essere andato per il verso giusto.

Malcolm Lowry

Messico, whisky, notti piene di demoni drammatico e visionario viaggio nei meandri più oscuri dell'anima, Sotto il vulcano doveva essere, nelle intenzioni di Malcolm Lowry, il nucleo centrale di un'opera che avrebbe compreso anche Ultramarina, Ascoltaci signore nonché tutti i racconti e i romanzi in fase di gestazione. Il titolo della sua personale ricerca del tempo perduto sarebbe stato Il viaggio che non ha mai fine, che spiega già sottilmente una possibile verità su Malcolm Lowry: il vero romanzo è stato quello della sua vita. Viaggiatore e bevitore, Malcolm Lowry era constantemente alle prese con visioni e revisioni dei suoi romanzi, pubblicati o meno che fossero, come se nella vita e nella scrittura fossero possibili aggiornamenti in corsa. Scriveva in Sotto il vulcano, cercando un'ennesima definizione alla sua personalità: “Ed è così che talvolta penso a me stesso, come a un grande esploratore che abbia scoperto una terra straordinaria dalla quale non possa mai ritornare per darne contezza al mondo: ma il nome di questa terra è inferno. Non è al Messico, naturalmente, l'inferno ma nel cuore”. La vita del Console, protagonista di Sotto il vulcano, e quella di Malcolm Lowry s'intersecano ripetutamente, in lotta con fantasmi, rimpianti e ombre inquietanti che spuntano dal tramonto all'alba: “Notte: e ancora una volta, il notturno corpo a corpo con la morte, la stanza che trema di orchestre demoniache, i brevi periodi di sonno spaurito, le voci fuori dalla finestra, il mio nome continuamente ripetuto in tono beffardo da ospiti immaginari in arrivo, le spinette del buio”. E' facile perdersi nella bolgia di Sotto il vulcano: il contorno di disperati di ogni forma e natura, è uno scenario cupo e cacofonico che fa da contrappunto alla disperazione del Console il cui divorzio sembra sancire una netta separazione dal mondo oltre che dalla moglie. Ciò non impedisce al Console, ed a Malcolm Lowry, di percepire la distruzione incombente sul Messico, a sua volta nazione abbandonata al proprio destino. E' una sensazione, l'ennesima profezia dovuta all'alcool o alle troppe letture di William Blake: “Chi avrebbe mai creduto che un uomo oscuro, seduto al centro del mondo in una stanza da bagno, diciamo, a pensare miseri pensieri solitari, stesse mettendo in moto il funesto destino di loro tutti, e che, anche mentre egli stava pensando, fosse come se da dietro le quinte si tirassero certi fili, e interi continenti esplodessero in fiamme”. Incendi tutt'altro che metaforici: non è un caso che l'intera e complessa gestazione di Sotto il vulcano abbia seguito tutto il corso della seconda guerra mondiale (Malcolm Lowry lo cominciò nel 1936 per vederlo pubblicato, dopo tre riscritture almeno, nel 1947) e che lo stesso Malcolm Lowry lo considerasse “una profezia, un monito politico, un criptogramma”. Sarebbe stato più semplice da decifrare se il grande progetto di Malcolm Lowry si fosse compiuto, ma a dispetto del suo working title, il viaggio trovò una sua fine, nel 1936, in Inghilterra: ancora una bottiglia in mano e “la luce del sole non poteva condividere il fardello della sua coscienza, di quella pena senza sorgente”.

Joe R. Lansdale

La vita a Dewmont, una smalltown del Texas, scorre placida e monotona. Si nasce, ci si diverte un po' (e si combina qualche guaio) in gioventù, poi ci si sposa, si lavora e si tira avanti. In superficie. Negli angoli bui, dietro le porte chiuse, nei boschi e nella notte crescono le paure, le minacce, le follie alimentate dai dark places dell'animo umano. E' quello che scopre Stanley Mitchell, tredici anni, un'insaziabile curiosità e una famiglia che gestisce il locale drive-in (che deve essere un'ossessione di Joe R. Lansdale). Con l'aiuto del proiezionista (di colore) Buster Abbot Lighthorse Smith, si appassiona ad un paio di strani e inquietanti episodi: una ragazzina che brucia viva nel suo letto e un'altra che viene decapitata lungo la ferrovia. Attenzione, questi sono gli unici rimasugli dello splatterpunk con cui Joe R. Lansdale si fece conoscere agli esordi perché poi La sottile linea scura è uno splendido romanzo che pur senza aggiungere nulla di nuovo a temi già conosciuti (qui gli estremi sono abbastanza palesi: dal Buio oltre la siepe di Harper Lee a Stand By Me di Stephen King) ricostruisce quel mondo di ombre e luci che è l'adolescenza (“Il mondo si stava proprio rivelando un posto strano, e io mi stavo trasformando in un ragazzino sempre più confuso” dirà Stanley, ad un certo punto). Di più, La sottile linea scura esplora, in tutte le angolazioni possibili, la vita di provincia (“Probabilmente tutte le città erano come la nostra, e tanta gente non lo scopriva mai. Mi sarebbe piaciuto essere come tutta quella gente. Ma ormai il coperchio del mondo era stato sollevato, e tutti i segreti e le brutture avevano iniziato a venir fuori”), l'America degli anni Cinquanta che alla radio sente Splish Splash di Bobby Darin, Book Of Love dei Monotones e Rock'n'Roll Is Here To Stay di Danny And The Juniors e che vive ancora nell'oscurità della segregazione razziale (e qui è molto interessante la distinzione tra nero e negro che si rincorre per tutta la storia). Inevitabilmente, Stanley dovrà fare i conti con tutto ciò, districandosi non senza una certa astuzia, ma anche affrontando il cambiamento più impetuoso: quando finalmente si scopre in grado di conoscere, di capire o di cogliere il senso della vita e del mondo e si accorge che il più delle volte è tutto inutile (“La vita non è giusta, non è che tutto quanto deve tornare a posto come i pezzi di un puzzle. Certe cose sono così e basta, e non c'è niente da spiegare. Puoi venirtene fuori con un sacco di se e di ma, e qualche volta puoi anche scoprire la verità. Ma molte delle cose che succedono non hanno proprio senso, e non combaciano mai”). La sottile linea scura (ma anche In fondo alla palude, che in un certo senso l’anticipava) è rock'n'roll al 100% e non soltanto per le connotazioni storiche e geografiche (gli anni Cinquanta, il Texas, il drive-in), ma soprattutto perché contiene e svela il segreto che ci permette di non impazzire giorno dopo giorno: “Sta tutto nel pensare che sei diventato grande, e poi accorgerti che non è vero”. Indispensabile.

Sam Shepard

E’ passato quasi mezzo secolo, ma leggendolo (e guardandolo) sembra che la Rolling Thunder Revue sia finita ieri. Tutto comincia quando Sam Shepard, all'epoca sceneggiatore emergente, trova un appunto accanto al telefono in cui c'è scritto che Bob Dylan ha chiamato e che è urgente richiamare. “Funziona così, giusto? Dylan ti chiama e tu molli tutto. Come il canto delle sirene, o una roba così. Tutti mollano la zappa a metà del solco e si precipitano da qualche parte del Nord-Est” scrive Sam Shepard all'inizio dell'avventura: il suo compito sarà quello di cercare di dare una forma compiuta (parlare di sceneggiatura è troppo) al film che deve documentare la Rolling Thunder Revue. Una tournée decisamente anomala, a prima vista: nell'autunno 1975 Bob Dylan si fa accompagnare da una nutrita e composita serie di musicisti e ospiti (si va dal grande chitarrista inglese Mick Ronson, a Joan Baez, da Allen Ginsberg a Roger McGuinn) per una serie di spettacoli in piccoli teatri del New England, il cuore della repubblica invisibile americana. Per quanto estemporanee siano le motivazioni e caotica l'organizzazione, la Rolling Thunder Revue incrocia e delimita tutta una galassia di suggestioni: sembra ricalcata su un medicine show (uno di quegli spettacoli itineranti che costituirono parte fondamentale della cultura popolare americana); ha lo stesso carattere informale dei bivacchi e delle canzoni attorno al fuoco (anche se il concerto finale sarà al Madison Square Garden, forse per far tornare i conti dicono gli scettici); ha un carattere comunitario perché musicisti, tecnici, giornalisti e scrittori al seguito (compreso Sam Shepard) vivono tutti insieme (Bob Dylan e relativo manager a parte); e, per finire, sembra sublimare, sulla tomba di Jack Kerouac, tutta l'epopea della Beat Generation. La guerra del Vietnam è finita drammaticamente da pochi mesi, “la caduta dell'America”, come direbbe Allen Ginsberg, è verticale e rovinosa e persino il nome stesso della tournée sembra una specie di “addio alle armi”: Rolling Thunder era infatti la sigla con cui erano identificate le operazioni di bombardamento sul Vietnam dal 1965  al 1968. Non è certo che sia stato l'unico modello di riferimento per trovare il nome al tour (anche se chiamare i camerini “Guam”, dal nome della base da cui partivano i B52, è un altro indizio piuttosto decisivo), ma la connessione è evidente. La Rolling Thunder Revue è stato l'ultimo valzer definitivo, un viaggio nei luoghi dei Basement Tapes,  l'inizio del Never Ending Tour, un commiato fragoroso e decadente perché “il passato è questo istante che fugge”, scrive Sam Shepard e il suo diario è un processo, per frammenti e tentativi, per cogliere l'attimo, lo spirito dei tempi, il colore delle chitarre, le gambe di Joan Baez e il volto di Joni Mitchell, David Blue e William Burroughs, Muhammad Ali alias Cassius Clay e Rubin Carter alias Hurricane e naturalmente Bob Dylan in action che proprio con la Rolling Thunder Revue sembra proiettato verso una dimensione sublime. Il coltissimo e lucido (nonostante la quantità di sostanze illecite che furono parte integrante della tournée) Sam Shepard gli trova una connotazione che va oltre il tambourine man, la rock'n'roll star, il portavoce di una generazione, il folksinger o uno dei tanti luoghi comuni che chiunque ha provato a stampargli addosso quando scrive che Bob Dylan e tutta l'aura che si è creato attorno hanno la forma del mito e “il mito è un mezzo potente perché parla alle emozioni e non alla testa. Ci spinge in una zona di mistero. Alcuni miti sono pericolosi da seguire mentre altri possono cambiare qualcosa dentro di noi, anche solo per un minuto o due”. Nessuno ha scritto di Bob Dylan come lui e l'originale Rolling Thunder Logbook è stato arricchito da una (sua) nuova prefazione (molto bella) e da una nota di T-Bone Burnett all'epoca imberbe chitarrista finito nella mischia. Per i più giovani, va segnalato che i dischi di riferimento sono Desire, Hard Rain e naturalmente il capitolo delle Bootleg Series del 1975 dove Larry Ratso Sloman, inviato da Rolling Stone al seguito, scrive che i bombardamenti chiamati Rolling Thunder vennero ordinati da Nixon negli ultimi anni della guerra del Vietnam. Il lapsus (peraltro relativo) rende però bene l'idea di come si volesse ancorare Bob Dylan ad un dato storico, a un presente evanescente, alla cronaca quotidiana mentre era già in partenza verso il passato o il futuro o tutti e due perché, come scrive T-Bone Burnett in conclusione alla sua presentazione, “da allora nessuno è stato più lo stesso”. Fondamentale.

Chester Himes

Le prime pagine sono straordinariamente nere, nerissime e folgoranti: non solo perché tre dei quattro protagonisti iniziali sono afroamericani, non solo perché l'aria (cupa e pesante) è quella dei grandi noir (la New York City di Chester Himes sembra la Los Angeles di Raymond Chandler) e non solo perché tutto comincia in una notte di follia e di paura, ma soprattutto perché ben presto si sprofonda e in un'oscura selva dell'anima i cui profili razzisti e xenofobi contribuiscono a rendere ancora più inquietante. Un detective del NYPD, la polizia di New York, completamente sbronzo e, si scoprirà, parecchio psicopatico, uccide, a sangue freddo e senza alcun motivo, due inservienti di una tavola calda e tenta di ammazzarne un terzo, giusto per non lasciare testimoni. New York City, “una città pulita e pacifica, che si stava consumando poco alla volta”, viene disegnata nelle geometrie ombrose di Chester Himes come un grande palcoscenico in cui, per dirla con le sue parole, va in scena "un mondo di orrore sempre più nero". Volendo, potrebbero bastare i personaggi, a partire da Matt Walker (il detective con un debole per la bottiglia e per il  grilletto) fino alla classica femme fatale, Linda Lou Collins, una cantante che crede di condurre i giochi (che hanno tutta una loro perversione psicologica tra vittime e carnefici) e invece è soltanto una particella in un meccanismo infernale. Invece, Corri uomo corri è un grande romanzo perché spesso, senza preavviso, i ruoli s'invertono, dubbi e perplessità morali non esistono e neanche tante distinzioni tra bianco e nero o tra uomo e donna: la storia travolge tutto e tutti, a partire dai protagonisti per finire con il lettore. Per cui capita, per esempio, che la vittima designata, Jimmy Johnson, l'unico scampato al massacro iniziale, ad un certo punto decida di ribaltare tutto quanto e in una discussione con Linda Lou Collins dice: “Possiamo restarcene qui tutta la notte, a discutere di cosa è giusto e cosa è sbagliato. Tu hai la tua opinione, e io ho la mia. Non riuscirai a convincermi, e io non posso convincere te. Saranno mille anni che la gente discute di giusto e sbagliato. Io ne ho abbastanza. Ho tutte le intenzioni di uccidere quel farabutto schizofrenico e continuare a vivere la mia vita”. E’ una lotta per la sopravvivenza senza esclusione di colpi che Chester Himes tratteggia con un ritmo serrato, teso e sincopato, quella scrittura che ha fatto dire a James Sallis: “Non esiste altro scrittore americano che abbia saputo creare una tale quantità di scene memorabili, situazioni toste e durature come un'impronta lasciata nel cemento, e in più con una stupefacente economia di dialogo e linguaggio”. Tra le righe e lungo il profilo del romanzo, Corri uomo corri non nasconde la ben nota urgenza di Chester Himes per la condizione afroamericana anche se, almeno in questo caso, diventa l'occasione per un sguardo più complesso, quando infatti fa notare che “forse era successo appena la notte scorsa, oppure molto tempo fa. Ma, da qualche parte, all'ingranaggio dell'american way of life era saltato un dente; o magari era proprio una questione di cuore. Il cuore che aveva perduto un battito, senza più recuperarlo”. Un maestro del noir e un grandissimo scrittore.

Bill Morris

Nella città delle catene di montaggio, gli opposti si compongono. Se per qualcuno il Detroit sound è solo Gibson e Marshall, per qualcun altro è soltanto Marvin Gaye. Due estremi di un mosaico complesso, perché nella Motor City raccontata da Bill Morris nell'omonimo romanzo, c'è veramente di tutto e di più. Ornette Coleman, Elvis Presley, Miles Davis, Smokey Robinson, Ike Eisenhower e la moglie, Vladimir Nabokov e Lolita, Jack Kerouac e Neal Casady: una valanga di personaggi che sono altrettanti clichés della cultura popolare americana s'incastrano in una trama che è un po' spy story e un po' romanzo storico. Il cuore è, come non poteva essere diversamente, nella General Motors, la città nella città: sullo sfondo degli anni Cinquanta un gruppo di disegnatori, il capo divisione, il suo addetto stampa nonché altri dirigenti prezzolati, sono impegnati a tamponare una fuga di progetti delle nuove automobili. E' solo una chiave di accesso per aprire le porte della Motor City: difficile, e poco utile, dipananare la trama e più facile lasciarsi andare seguendo i vari Will Lomax, Ted Mackey, Claire Hathaway, Norm Sleski, Harvey Pearl (e molti altri ancora). Manie, ambizioni, fortune, disastri, nostalgie si intersecano e si sommano come se la città fosse veramente un'enorme metafora della catena di montaggio e dell'industria automobilistica, che assorbe ogni pensiero e tutte le vite, così come la descrive uno dei personaggi di Motor City: “C'erano gli specialisti del coprimozzo, gli specialisti del cruscotto, gli specialisti del paraurti. E anche se, magari, ogni disegnatore aveva dato solo un piccolo contributo all'automobile finita, erano tutti personalmente molto fieri dei risultati che avevano raggiunto. Quella decorazione del cofano è mia, dicevano, oppure: Questa inclinazione del parabrezza è opera mia. Morey non ci aveva mai pensato prima di allora. Aveva sempre creduto che le automobili uscissero complete dalla mente di qualcuno, come un pulcino da un uovo. Invece, le automobili erano frutto del lavoro manuale di decine e decine di disegnatori di carrozzerie che lavoravano duramente per settimane, mesi, addirittura anni, sotto scadenze rigide e luci bianche violente. Morey aveva imparato da tempo che le due cose che uno di solito preferisce non vedere mentre le fanno sono i salumi e le leggi. In quel momento aggiunse alla lista le automobili”. La fabbrica diventa una città; la città si allarga fino a comprendere i sogni di una nazione; l'America, di questo stiamo parlando, diventa il mondo attraverso il rock'n'roll (e tutti gli altri suoni di Detroit), Miles Davis, Marylin Monroe e l'ultimo modello di automobile. E' la nuova Buick Century la vera protagonista di Motor City : un mito che diventa realtà a forza di giornate lavorative che durano sedici ore e finiscono regolarmente in birra e whiskey e in una solitudine complessiva di chi sacrifica la propria esistenza ad un sogno imposto dalle evenienze. Bill Morris, senza confondere il senso della storia con le sfumature storiche, inventa un romanzo che si consuma allegramente come uno spudorato rock'n'roll album, ma che contiene anche un chiaro quadro antropologico e politico della limitatezza delle basi culturali americane. Almeno quelle di chi sosteneva che quello che va bene alla General Motors, va bene all'America. Abbiamo scoperto che non è proprio così, e non solo nella Motor City di Bill Morris.

martedì 3 agosto 2010

Nick Tosches

Con me all’inferno mostra da quale palude sia emerso Jerry Lee Lewis e con lui quel misterioso linguaggio che corrispondere al rock’n’roll. Non è una storia semplice come bere un bicchiere d’acqua (d’altra parte nell’albero genealogico scorre tutto un altro genere di linfa) perché il genere biografico secondo Nick Tosches diventa storia e racconto e la sua narrazione servendosi di strumenti diversi e variopinti, stringesui tempi e sui dettagli per andare al sodo delle contraddizioni del personaggio e di tutto ciò che incarna la sua leggenda. Il resoconto di una vita bruciante, lancinante, animata da una personalità controversa e combattuta (“Non so perché, perché sono fatto a questo modo. E’ una cosa che mi sta consumando. Io non capisco, non so perché non sono abbastanza uomo da uscire da quella porta e fare quello che dovrei fare, perché se non lo faccio finirò all’inferno. Amico, io davvero non so cosa c’è di sbagliato in me. Che ci faccio qui, in un nightclub? Qui dentro io non posso mica richiamare la gente dall’altare. Non finirò in paradiso”) è costruito assemblando la visione di Nick Tosches, sempre attento al dettaglio più insignificante e comunque senza perdere l’attenzione del quadro generale, con altre forme di scrittura e lettura: spezzoni di interviste, ritagli di articoli, trascrizioni di registrazioni, comunicati. L’effetto è straniante e oltremodo efficace: la biografia dell’ultimo quarto del Million Dollar Quartet diventa una vera e propria leggenda “americana” perché Nick Tosches guarda nelle profondità di Jerry Lee Lewis come se fossero sue con un gusto epico nel raccontarne la solitudine: “Era Cleveland, o Toledo. In ogni caso, era buio e pioveva forte. Chiamò il servizio in camera per farsi portare una bottiglia, ma nessuno rispose. Accese la televisione, ma trovò soltanto le interferenze statiche del monoscopio. Quelle immagini confuse assunsero una nitidezza strana, irreale, e cominciò a vedere uno sciame di orribili insetti. Erano questi i demoni, liberati dal vaso di bronzo di re Salomone”. E’ l’America delle radici, del whiskey, delle credenze, della fede e del rock’n’roll, dei sogni e dei fallimenti. E’ l’America in tutte le sue contraddizioni e le storie parallele, e inseparabili, di Jerry Lee Lewis e di Jimmy Lee Swaggart si intrecciano anche se poi è naturale e logico che alla fine sia il  “Killer” il vero e unico protagonista perché, come scrive Nick Tosches, “era lui l’ultimo figlio selvaggio, e lo sapeva, proprio come sapeva cosa provassero gli uomini di quei racconti quando esplodeva il tuono senza che però cominciasse a piovere”. L’aria di tempesta spira in tutta la sua vita e per un Cadillac guadagnata con un milione di copie di Whole Lotta Shakin’ Goin’ On (“Trascino con me il pubblico all’inferno. Come faccio ad andare in paradiso con Whole Lotta Shakin’ Goin’ On? Non puoi servire due padroni, devi odiarne uno e amare l’altro”) si ritrova devastato da divorzi, ingiunzioni, arresti e due figli morti in modo tragico. Nick Tosches attinge senza patemi nella ferocia del dramma e nella furia di Jerry Lee Lewis e il suo ritratto è tanto fedele quanto perentorio: “Andassero tutti affanculo! Si fottano! Vadano tutti all’inferno, dal primo all’ultimo! E alla svelta, cazzo. Non si ammazzano alligatori, in Louisiana. E io ne ho sposati un paio”. Biblico.