lunedì 31 maggio 2010

James Lee Burke

“Il passato non passa mai”, una citazione di William Faulkner molto casa a James Lee Burke (e per estensione a Dave Robicheaux) condensa tutta l’intricata storia di Prima che l’uragano arrivi. Un primo flashback riporta Streak al suo periodo più cupo, quando vede uccidere a sangue freddo un amico abituato a stare dall’altra parte della linea. La sua mancata reazione, era ubriaco al momento dell’assassinio, i sensi di colpa e la disperazione lo perseguitano per anni. Poi sulla scena appare una dark lady con un piano in testa e nello stesso tempo un’altra ragazza trova la morte in quello che sembrerebbe un suicidio. Di casi disperati come il suo sono pieni i giorni e le notti di Streak che comincia a farsene una ragione perché ad un certo punto dice: “Non esiste tragedia che venga orchestrata da un unico individuo. Un evento per cui ci incolpiamo potrebbe essere il prodotto di qualcosa che va avanti da anni e potrebbe riguardare più gli altri che noi stessi”. Cadavere dopo cadavere, il suo passato torna in tutta la sua violenza anche perché Streak ha la dolorosa coscienza che “il vero problema è che quasi tutte le persone coinvolte probabilmente avrebbero vissuto vite del tutto normali se non si fossero incontrate”. L’intreccio di omicidi è così complesso che nel momento cruciale una delle protagoniste si sente in dovere di precisare che, sì, “siamo tutti assassini”. Una definizione che Streak è obbligato a condividere, vista la situazione in cui si trova (non proprio comoda) e visto il suo ingombrante passato, ma contro cui continua a dibattersi in un amletico dilemma. Nell’eterna lotta, tra un’idea di bene e di male, tra il presente e il passato, per la vita e per la morte è assistito dai suoi colleghi e amici di sempre, a partire dal voluminoso e devastante Clete Purcel, e in Prima che l’uragano arrivi non mancano tutti gli elementi coreografici, le scene d’azione, i personaggi e i caratteri che ben conoscono i lettori della saga di James Lee Burke. Questa volta però sopra le teste della moltitudine di vittime e carnefici, mai così vicini gli uni agli altri, e solo un po’ in ritardo rispetto ai loro appuntamenti con pallottole, spranghe, mazze da baseball e persino un piccone appuntito, sta per arrivare un’apocalisse devastante. Gli uragani che stanno viaggiando nelle acque del Golfo sono soltanto il colpo finale, dopo l’incuria, l’arroganza, l’indifferenza che hanno segnato per sempre la vita di New Orleans e della Louisiana. James Lee Burke, per bocca di Streak, non usa mezzi termini: “Questo non è il paese in cui siamo cresciuti. Ormai è proprietà di pezzi di merda, da cima a fondo. Solo che adesso è tutto legale e loro hanno le loro brave lauree e indossano completi da duemila dollari”. All’arrivo dell’uragano Katrina, siamo all’epilogo dell’ultimo capitolo di Streak, ma anche ad una svolta amara, dolente e ancora irrisolta nella storia dell’America. James Lee Burke, in un pagina accorata del libro, descrive così quei giorni drammatici: “Gli argini si ruppero e il grande bacino che circonda New Orleans si riempì d’acqua, di liquami e di rifiuti chimici. Intrappolati sui tetti delle case e nelle soffitte senza finestre, gli abitanti del Lower Ninth Ward del distretto di Orleans annegarono a centinaia, se non a migliaia. Se vi è capitato di ascoltare le registrazioni delle telefonate fatte da quelle persone nelle soffitte e sui tetti, non dimenticherete mai la disperazione nelle loro voci mentre l’acqua saliva”. Niente sarà più come prima e i toni crepuscolari di James Lee Burke racchiudono lo spirito di una citazione classica (che a lui dovrebbe piacere parecchio) dal De Rerum Natura di Tito Lucrezio Caro: “Il tempo per sé non esiste, ma sono le cose stesse a far nascere il senso del tempo, il pensiero di ciò che è compiuto, trascorso da noi, e di ciò che è preente e infine di ciò che sarà”. Il senso della tragedia corale, della scomparsa di un’intera città, della perdita di un’identità matura, proprio come dice il titolo, Prima che  l’uragano arrivi, per poi compiersi in un altro tempo, in un altro passato, quasi malinconico e fatalista, a cui Streak si abbandona citando l’indomabie amico Cletus: “Non si abbandona il paese in cui si è nati, né alle forze dell’avidità né alle calamità naturali. Le canzoni che portiamo nei nostri cuori non muoiono. La primavera tornerà, che siamo qui ad aspettarla o meno”. Una piccola, intensa lezione di umanità nel cuore del disastro. Un grande Streak. Uno struggente James Lee Burke.

Jonathan Raban

Agli inizi del ventesimo secolo, migliaia di immigranti di ogni nazione, istigati da una sistematica e ambigua opera di propaganda, si lanciarono verso le praterie del Montana, spacciato per l'ennesimo Eden americano. Presumibilmente, si sentivano tutti pionieri forti e coraggiosi, pronti a sfidare con quell'idealismo e quell'ottimismo che ha sempre distinto tutte le storie americane, le intemperie, la fatica, il lungo viaggio. In realtà, dietro la concessione dei terreni del Montana, la nuova terra promessa (tra l'altro, presa come si sa agli indiani), premevano poteri forti e interessi che non avevano nulla da spartire con lo spirito entusiasta dei futuri agricoltori. Il grande esodo avrebbe favorito la costruzione della ferrovia (da Chicago a Seattle: un'opera mastodontica), di conseguenza le industrie metallurgiche e tutto l'indotto collegato. Di sicuro, non i nuovi proprietari terrieri, a cui le banche inizialmente concessero generosi prestiti che ben presto si rivelarono vere e proprie ipoteche sui terreni, sulle case e sulle vite. Come direbbe William Least Heat-Moon, quelli che partirono alla volta del Montana furono "uomini sulla cui spina dorsale ha marciato tutta l'America". Jonathan Raban, scrittore di origini inglesi (una mezza dozzina di libri alle spalle) che da tempo vive a Seattle, ha ricostruito in Bad Land tutta la saga delle famiglie attirate in Montana, terra che non avrebbe regalato niente a nessuno, da un'abilissima e strategica operazione pubblicitaria. Bad Land è la storia di una sconfitta nascosta nelle pieghe del linguaggio, di un inganno costruito all'ombra del sogno americano e di uomini e donne che, nonostante tutto, avrebbero finito con l'amare quella terra, l'unica che potevano permettersi. Lasciandosi coinvolgere da questioni apparentemente minimali (la qualità del filo spinato o la quantità della pioggia, per esempio) eppure fondamentali, parlando direttamente con gli attuali proprietari terrieri (in molti casi pronipoti di quelli di un secolo prima), ricostruendo un paesaggio storico e geografico di cui non è rimasto granché e viaggiando direttamente sulle vecchie mappe, Jonathan Raban ha con Bad Land un'intuizione importante e per molti versi illuminante: "Per due anni avevo vissuto una storia così americana che alcuni Americani l'avrebbero ritenuta insignificante. Emigranti falliti che avevano abbandonato la casa e si erano trasferiti altrove: e allora? Quella era l'America, il paese in cui tutti avevano diritto di fallire: era scritto nella costituzione". Lo aiutano le fotografie di Evelyn Cameron, i dialoghi con la famiglia Wollaston (con contorni di salsiccia di alce), le ricerche sugli opuscoli e sui materiali pubblicitari che provocarono l'esodo verso il Montana, a partire dal famigerato Manuale Campbell per la coltivazione del suolo, l'architrave su cui si basava gran parte delle illusioni agricole. Con Bad Land Jonathan Raban invece sembra aver seguito uno dei motti principali che hanno ispirato William Least Heat-Moon in Prateria ("Ridurre significa falsare") e ha fatto il possibile per non dimenticare nulla. Dettaglio per dettaglio, frammento per frammento, appunto per appunto e dopo migliaia di pagine ingiallite e ore a scrutare le fotografie di Evelyn Cameron ha percepito che "il futuro emigrante doveva creare un'America immaginaria sufficientemente palpabile da rappresentare una destinazione reale: così, quando comprava il biglietto del transatlantico, faceva rotta su un paese che, ornato di tanti aspetti bizzarri ed errati, esisteva solo nella sua testa". Hollywood? Dilettanti. Il rock'n'roll? Una fantasia adolescenziale. La madre di tutte le illusioni aveva partorito una terra fertile, rigogliosa e paradisiaca da un orizzonte piatto e desolato, da una Bad Land. Poi era stata data in concessione e qualcuno ci aveva speculato per decenni a seguire. Business as usual, dicono in America. A farne le spese sarebbero state famiglie costrette a vivere al limite estremo della sopravvivenza, spesso subendo le angherie delle banche e del governo federale. C'è un retroterra storico, quindi, se diversi stati americani cominciano a vedere Washington (e New York, e Los Angeles) come il fumo negli occhi. In un modo o nell'altro molti si adattarono alla Bad Land, perché come scrive Jonathan Raban "quella terra non valeva un granché, ma era la loro terra, e i difetti che aveva la rendevano ancora più amata. Ormai ne avevano abusato e dovevano rimediare al disastro". In cambio, restano ghost town lungo la ferrovia, chilometri di recinti abbandonati e soprattutto una contradditoria carica di individualismo che è uno degli elementi fondamentali dell'uomo di frontiera e del suo legame con il paesaggio: "Essere così soli e vistosi in un'arena che ha una circonferenza talmente enorme da ridurci a un puntino ci fa gonfiare di presunzione. Siamo allo stesso tempo grandissimi e piccolissimi, ed essendo entrambi non siamo nessuno dei due. Questa perdita acuta e improvvisa della nostra dimensione è probabilmente spiacevole come il giramento di testa che si accusa fumando una sigaretta dopo una settimana d'interruzione. Avvertiamo uno strano malessere della vista e, come l'afflitto personaggio di Stevenson che rincasa, torniamo un po' barcollanti all'automobile che ci riporta alle dimensioni abituali grazie allo spazio chiuso dell'abitacolo e al diametro familiare del volante". I nuovi cowboy hanno messo John Wayne in un angolo e si sono fatti saggi, perché non c'è alternativa per chi vuol tirare avanti: "La nostra filosofia è questa: non abbiamo ancora venduto il grano dell'anno scorso e quindi possiamo perdere il raccolto di quest'anno. Non compriamo molte cose nuove perché in un anno di siccità le cose nuove sono solo un aggravio. Se non spendi, le annate buone ti permettono di far fronte alle annate cattive". La domanda l'ha posta chiaramente James Agee ed anche se riferita a tutta un'altra parte dell'America si adegua perfettamente alla Bad Land di Jonathan Raban: "In che modo siamo rimasti intrappolati? Dove, lo sbaglio che abbiamo fatto? Cosa, come, dove, quando, in che modo, tutte queste cose avrebbero potuto essere diverse, se solo avessimo diversamente agito? Se solo avessimo saputo". Già, sapere: nessuno dei novelli pionieri aveva gli strumenti per capire, discernere, vedere oltre le panoramiche degli opuscoli e del Manuale Campbell per la coltivazione del suolo e i loro figli, nipoti e pronipoti sono stati allevati con la mitologia dell'eroe sopra la testa, una spada di Damocle pronta a rovinare su un'educazione precaria e fuorviante. Generazioni e generazioni che non avranno mai una casa perché come scrive Jonathan Raban "Tutti gli eroi moderni avevano faticato a lungo sui testi scolastici (...) Ma soprattutto i testi facevano appello alla fede nella bandiera e nell'America vista come la terra che rendeva possibili i miracoli e in cui la porta della fattoria si apriva su un sentiero che, passando per la scuola con una sola aula, conduceva alla gloria". Il miraggio iniziale, quello che nel sottotitolo originale viene chiamato romance (termine che ha un'accezione fantastica e sentimentale, quindi perfetto per la storia di Bad Land) si propaga ancora in forma di disillusione, risentimento, una diffusa ignoranza che porta direttamente alla violenza, come il proliferare delle milizie armate tra i boschi testimonia. Un danno compiuto un secolo prima non si risolverà così. Se mai si risolverà: Jonathan Raban si è fermato un po' prima ed è tornato a casa conscio che, come direbbe il maestro James Agee "le parole non possono rappresentare; possono solo descrivere. Descrivere, a volte, può bastare se è come Jonathan Raban ha descritto quella Bad Land che un secolo fa sembrava davvero la terra promessa. Invece, era soltanto un pezzo d'America.

 

Susan Sontag

Fino ad oggi, il miglior scritto di narrativa dedicato alle umanissime e dolorosissime conseguenze dell'AIDS è uno dei pochi capolavori pubblicati negli ultimi anni, Festa di nozze di John Berger (Il Saggiatore). Avvincente storia d'amore, che fugge all'ombra inquietante dell'AIDS per celebrare (sembrerebbe impossibile) la struggente bellezza dell'abbandono e della condivisione. Ai malinconici (eppure stupendi) momenti di poesia di Festa di nozze si aggiunge oggi Così viviamo ora di Susan Sontag. E' un piccolo libro che nasconde un grande racconto, tutto giocato sull'orlo del cliché linguistico con un'abilità sorprendente: la storia è semplicissima (anzi, praticamente inesistente) e Susan Sontag sfoggia una destrezza narrativa tale da condensare in pochissime pagine drammi e sentimenti che vanno dall'amicizia alla disperazione, dall'accettazione alla lotta per la vita. Sceneggiatura minimale, ambientata negli appartamenti di una New York intellettuale e, tutto sommato, benestante: in un gruppo di amici si discute il modo migliore per affrontare l'AIDS (come argomento di discussione e come evenienza reale, visto che ha colpito uno di loro) e il suo riflesso sui valori già acquisiti di amicizia, lavoro, vita sociale. O, meglio: i vari Ira, Ursula, Yvonne, Greg e Frank di Così viviamo ora cercano, per dirla con le stesse parole di Susan Sontag, "una specie di coabitazione" con la malattia. Non importa se ci riescono o meno, se a volte la dignità, o soltanto una compostezza, va persa in lacrime e scoramenti: quello che sembra sottolineare Così viviamo ora è l'irresistibile desiderio di comunicare, di scambiarsi informazioni, fossero semplicemente colpi di telefono per risollevare il morale o per sapere come sta o come va. Ed è proprio questo repentino scambio di dati il tratto saliente del racconto di Susan Sontag, sottolineato tra l'altro dalla mancanza di punteggiatura nei discorsi tra un amico e l'altro. Un effetto particolarmente riuscito che imprime a Così viviamo ora un ritmo compresso, serrato eppure fluente. Parlare, raccontare, comunicare sembra la terapia migliore, se non proprio per il vero paziente, sicuramente per tutti quelli che gli sono vicini. Così, in un sovrapporsi di fraterne sollecitazioni, chiacchiere, domande e risposte, i personaggi di Così viviamo ora si mantengono vivi e lontani dalla paura anche se sono ben consci della realtà che stanno vivendo. "Stiamo imparando come si muore" recita un passaggio particolarmente lucido del racconto di Susan Sontag, ma non è tutto lì perchè attraverso le parole, la loro costante fruizione, Così viviamo ora spiega anche come è possibile vivere.

Tobias Wolff

La guerra del Vietnam è uno spettro che, generazione dopo generazione, si agita ancora nel cuore di tenebra dell’America. Probabilmente più al cinema (e chi se li dimentica Apocalypse Now e Full Metal Jacket?) che nella letteratura perché, in un certo senso, il Vietnam, e la sconfitta degli Stati Uniti, sono stati i primi eventi storici ad avere una completa, determinante copertura televisiva. La guerra, da allora, è in tutte le case, all’ora di cena, seduti comodamente davanti al televisore. C’è un episodio, proprio nella battute iniziali di Nell’esercito del faraone, che suona enigmatico: il tenente Tobias Wolff e il sergente Benet sfidano cecchini e mine (“Viaggiavo veloce per tenere a bada i cecchini, ma su questa strada di cecchini non ce n’erano. Il problema vero erano le mine. Se passavi su una mina 105, che andassi piano o veloce, non avrebbe fatto differenza”), persino i controlli della polizia militare per riuscire a portare a termine i loro scambi. Poco legali e con un solo oggetto del contendere, una televisione con cui guardare Bonanza, mentre intorno sta per esplodere la guerra. Nell’esercito del faraone la racconta senza enfasi, con una densità assolutamente ininfluente di eroi e con una spaventosa precisione nel descriverne crudeltà e follie. Città disintegrate a colpi d’artiglieria, completamente rase al suolo solo per paura o un villaggio scoperchiato dalle pale degli elicotteri soltanto per l’incapacità e la testardaggine di qualcuno. Una dimensione che porta i protagonisti ad avere una visione distorta della realtà ed è forse questo uno dei punti determinanti del racconto di Tobias Wolff: “Vivevamo tutti di fantasie. All’interno delle quali si verificavano delle variazioni, si capisce, ma ciascuno era convinto, almeno istintivamente, se non sul piano della ragione, di dare una mano alla fortuna osservando determinati cerimoniali e un particolare protocollo. In parte si trattava di cautele ovvie. Le armi andavano tenute pulite. Non si doveva mai abbassare la guardia. Era opportuno evitare tutti i rischi non rigorosamente necessari. Ma tutto questo non portava molto lontano”. C’è dell’altro, comunque, in Nell’esercito del faraone, come se la guerra del Vietnam fosse stata uno spartiacque generazionale, una sorta di linea di demarcazione (con l’assassinio di JFK) tra l’America del rock’n’roll, della bomba e di Marylin Monroe e la babilionia che ancora oggi è in attesa di esplodere. Serve molto a capire Alto tradimento, il capitolo centrale di Nell’esercito del faraone in cui i figli si incontrano con i padri. Stranissima serata e una delle più belle dichiarazioni pacifiste che si siano mai lette, tali da rendere Tobias Wolff credibilissimo narratore e Nell’esercito del faraone un piccolo, grande j’accuse nei confronti delle guerre e delle loro assurdità.

domenica 30 maggio 2010

Thomas McGuane

A parte il fatto che Thomas McGuane è un grandissimo scrittore, capace di rendere affascinante persino le notizie dell'ultimo notiziario radiofonico del Montana, Il canto dell'erba è un gran bel romanzo perché è strutturato in maniera curiosa: un po' è un'acida commedia per interni, con infiniti dettagli domestici e un groviglio di legami (“Le vite degli altri, anche quelle dei propri figli, sono un mistero autentico mistero”) che formano la matassa della prima parte. Nella seconda metà prende il ritmo di un film noir (ha qualche punto di contatto, non ultimo il paesaggio, con Fargo dei fratelli Cohen) che si apre su orizzonti incantevoli e nello stesso tempo gelidi e minacciosi, compreso un emblematico (e forse anche metaforico) passaggio con la frontiera del Canada. Sono altri i confini che i personaggi (tutti) passano e ripassano, senza sapere esattamente dove vanno a finire, perché si fanno guidare da troppe emozioni o da troppa razionalità o perché non si fanno guidare per niente. Alla morte di Sunny Jim Whitelaw, facoltoso e ambiguo imprenditore del Montana, un famiglia (molto) allargata, tra cui la moglie Alice, le figlie Natalie ed Evelyn, i generi Paul e Stuart, il ranchero Bill Champion, si ritrova a confrontarsi con le disposizioni del suo testamento. Tutti con i loro sacrosanti motivi per aspirare ad un pezzo del bottino, tutti pronti a tutto (o quasi) perché l'eredità sembra essere la classica esca piovuta in un nido di vipere fameliche. Sunny Jim Whitelaw, il caro defunto, ha lasciato postille (in realtà una sola, piuttosto brutale) che scatenano le ire, le ambiguità, le voglie e tutto un passato che ritorna. Quando poi sulla scena arriva uno dei curatori degli interessi dello scomparso, C.R. Munjab ("Aiuto le aziende a espandersi, oppure le aiuto a rimpicciolirsi. Ma il mio pezzo forte è farle sparire") il sarcasmo della commedia prende le tinte di un noir e l'eredità (tutta in blocco, non soltanto in termini economici) sarà infine la nemesi di gran parte della disperata combriccola. Thomas McGuane è abilissimo nell'assecondare i diversi toni, nel distillare un colpo di scena dopo l'altro e nel mantenere sempre alte le fibrillazioni del ritmo, giocando anche con le quinte di un paesaggio che a tratti è ampio e sconfinato o altrimenti ha i contorni ristretti e asfissianti delle pareti domestiche. Uno sguardo "dentro e fuori" come direbbe un altro ranchero prestato alla letteratura (e al cinema: Sam Shepard) per testimoniare il falò delle vanità (e non solo quelle) di un'intera nazione che Thomas McGuane fa sintetizzare così ad uno dei protagonisti: "Sofisticazione? La sofisticazione è il nostro futuro. In America non abbiamo nient'altro: sofisticazione". Non è facile dirlo, figurarsi raccontarlo in un romanzo.

Will Ferguson

Ci sono libri che cambiano la vita e libri che promettono di cambiarla. Ci sono manuali per la felicità e con ogni tipo di soluzione, ci sono storie belle e brutte, ma ormai è difficile trovare un romanzo come Felicità® che sappia raccontare "il tempo. Il tempo vero. Quello in cui viviamo tutti". Un tempo dedicato alla ricerca spasmodica della felicità, senza nemmeno cercare di capire cosa sia davvero. Will Ferguson ha toccato un nervo scoperto, smascherando con un urlo tutte le false promesse, le illusioni, i consigli, i modelli e i programmi per essere felici. Un libro che parla della nostra quotidianità, di oggi, senza alcuna pietà per il genere umano e per le sue debolezze. Un libro che sviluppa in trecento pagine quello che ha detto un altro grande scrittore americano, Jim Harrison: "E' solo per caso che si è felici". Tutto comincia con una dattiloscritto di un migliaio di pagine, ricoperto da margherite autoadesive. Nell'intenzione del suo enigmatico autore, Tupak Soiree, dovrebbe essere la soluzione, la panacea per ogni evenienza: dal sesso alla depressione, dal cibo all'alcool, Quello che ho imparato sulla montagna (così il titolo di questo fantomatico libro nel libro) racchiude tutte le filosofie esoteriche e trendy degli ultimi anni. Per Edwin de Valu, protagonista di Felicità®, è soltanto l'occasione per rimediare ad un buco nella programmazione della casa editrice in cui lavora. La decisione di pubblicare Quello che ho imparato sulla montagna porterà ad una serie di eventi a catena: diventerà un successo di proporzioni mondiali, trasformerà i consumi e, con essi, un'intera civiltà (o presunta tale, la nostra). Edwin de Valu si ritroverà sempre nel cuore degli eventi: prima per inerzia, trascinato dall'apocalisse generata da Tupak Soiree; poi per scelta, avendo deciso di smascherare l'arcano e l'inganno che si celano dietro Quello che ho imparato sulla montagna. Della trama non si può raccontare di più, perché Felicità® ha anche il ritmo del thriller, è caotico, rocambolesco, ironico e divertente. Non è un capolavoro di scrittura, perché Will Ferguson fino ad oggi aveva scritto soltanto manuali di viaggio, però Felicità® si legge di gusto ed è un libro importante, coraggioso, anche amaro, perché racconta chi siamo e quanto lontano siamo andati. Senza nascondere una punta di amarezza quando dice: "Passiamo la nostra esistenza a costruire castelli di carte, poi passiamo il resto della nostra esistenza ad aspettare che qualcuno inciampi nel tavolo. Sperando che qualcuno inciampi nel tavolo. Ci mettiamo i vestiti adatti al tempo di ieri. Tratteniamo il fiato. Confondiamo i nostri ricordi con quello che siamo". Un libro sincero, attuale e scomodo fino in fondo.

venerdì 28 maggio 2010

Lewis Shiner

Il protagonista di Visioni rock, proprio all'inizio di questo splendido romanzo di Lewis Shiner dice: "La musica è semplice. Il senso delle parole non ha tutta quest'importanza. Il vero significato sta nelle chitarre e nelle batterie, nel modo in cui un disco suona. E' una sensazione molto più grande delle parole". Trattandosi di rock'n'roll, non poteva esserci una definizione migliore: Visioni rock offre una percezione che è all'estremo opposto di quella dell'altro grande romanzo del rock'n'roll, Great Jones Street di Don DeLillo, eppure molti punti di vista collimano. Certe ombre, alcune paranoie, tutti i personaggi e i linguaggi dell'età d'oro del rock'n'roll (in particolare gli anni dal 1966 al 1969) sono gli stessi, solo che Great Jones Street si presentava dentro una coltre minacciosa e oscura, mentre Visioni rock offre una percezione più vicina ad un inguaribile ottimismo. Anche se è chiaro che è il rock'n'roll il vero sogno, l'unico trip psichedelico, la sola rivoluzione possibile: ambientato nel 1989, anno di conflitti e speranze, Visioni rock racconta le allucinazioni di un rock'n'roll fan la cui vita si sta trascinando stancamente. Un lavoro senza grandi pretese (ripara computer), troppe birre, un matrimonio destinato a prosciugarlo: tutte le fantasie della sua adolescenza, i conflitti (compreso quello con il padre, determinante), le utopie, i primi amori sembrano soffocarlo di nostalgia fino a quando non comincia a sognare (ma c'è qualcosa di più) di riuscire ad incidere i grandi, misteriosi album della storia del rock'n'roll. Opere che non hanno mai trovato una conclusione o una forma definitiva, o che spesso sono finite nel nulla: Get Back dei Beatles, Smile dei Beach Boys, The Celebration Of The Lizard dei Doors e First Rays Of The Rising Sun di Jimi Hendrix. Nei suoi viaggi mentali il protagonista, attraverso la fluida scrittura di Lewis Shiner, ricostruisce l'epoca, i personaggi, i frammenti di storia che circondavano quegli album leggendari. Ovviamente, viaggiare nel tempo e nello spazio gli provoca movimenti tellurici nella sua vita quotidiana, con colpi di scena (nel lavoro, negli affetti, nella comprensione di come va il mondo) che è giusto scoprire da soli nella lettura di Visioni rock. Sebbene incapace di resistere alla tentazione, ogni allucinazione lo sconvolge sempre di più, ma non serve conoscere tutta la trama e il finale di Visioni rock per rendersi conto che Lewis Shiner ha scritto un romanzo che tratta con coscienza, precisione (ma anche con infinito amore) la storia del rock'n'roll, offrendoci la possibilità per renderci conto quanto vicino ci tenga ai nostri sogni, quali che essi siano. Quello che si può aggiungere è che davvero Lewis Shiner ha colto l'essenza della materia con amore e senza alcuna nostalgia di sorta, svelando sia la natura sognante e illusoria del rock'n'roll, sia le sue primordiali vibrazioni. L'avremo provata migliaia e migliaia di volte, ma ci voleva Lewis Shiner (che, a proposito, di solito è un'ottimo scrittore di fantascienza) a metterla nero su bianco in Visioni rock. Un piccolo gioiello (ad un prezzo accessibile, ed è senz'altro un'altra nota positiva) che offre una percezione del rock'n'roll come difficilmente si vede o si sente in giro. Forse perché Lewis Shiner, nonostante il grande freddo e le nostalgie, davanti al rock'n'roll e ai suoi misteri riesce ancora a meravigliarsi come un adolescente. Ad un certo punto del romanzo di Lewis Shiner c'è una citazione di Slow Turning di John Hiatt e allora si ha davvero la sensazione di essere finiti nel libro, anzi nel posto giusto, perché il rock'n'roll, o almeno una certa visione del rock'n'roll, è continuata a rimanere la stessa, da Elvis in poi, nonostante tutti i cambiamenti, le svolte, le rivoluzioni. Chi veramente ama (o ha amato) il rock'n'roll difficilmente si sognerà di dire che è una musica vecchia, morta o soltanto marginale ed in questa (bella) storia ci si ritroverà come davanti allo specchio.

Richard Brautigan

Richard Brautigan è stato il prototipo e in un certo esempio l'esempio lampante della cultura libertaria degli anni Sessanta, la stessa dei Grateful Dead, di San Francisco. Con Jack Kerouac ad illuminare e ad ispirare, tra follia e poesia. Richard Brautigan, però, aveva una visione tutta sua dei sogni, delle speranze, delle utopie di quegli anni: stralunato, caotico, irriverente, surreale ha attraversato la narrativa e la letteratura come una meteora, con uno spirito incendiario e iconoclasta. Basti pensare all'idea di noir sviluppata in Sognando Babilonia, un romanzo tanto divertente quanto amaro con un protagonista, C. Card che sembra essere l'alter ego di Richard Brautigan e un rappresentate di primissima qualità della particolare razza di quegli inguaribili sognatori. Tutti dediti, in modo e in misure differenti, alla lettura come strumento per affrontare la vita: se C. Card si lascia travolgere dalle parole ("Mentre leggevo il romanzo paragrafo dopo paragrafo, pagina dopo pagina, traducevo nella mente le parole in immagini, da guardare e mandare avanti veloce come un sogno"), il protagonista de La casa dei libri trasforma una biblioteca in un luogo della mente, un approdo sicuro, un posto per tutti. Le sue regole riguardano la vita, più che l'orario di lavoro: "Qui ci deve essere sempre qualcuno. È lo spirito di questa biblioteca. Ci dev'essere qualcuno ventiquattro ore su ventiquattro a ricevere i libri e dar loro il benvenuto. È il principio fondamentale di questa biblioteca. Non si può chiudere. Deve restare aperta". A maggior ragione se a bussare è una splendida ragazza, Vida, che sul piatto tiene Beatles, Rolling Stones, Byrds e Johnny Cash. "Nella vita non c'è spazio per tenere tutto" diceva uno dei 102 racconti zen e un libro lo si può sempre parcheggiare su uno scaffale, ma ad un corpo mozzafiato, un corpo che tutte le donne vorrebbero (e magari anche gli uomini) è difficile trovargli un angolo. E' il problema di Vida, diventa un caso per La casa dei libri, con la consueta punta di amarezza nascosta sotto la vena irriverente e caustica di Richard Brautigan. Se La casa dei libri è forse il suo romanzo più intimo e personale, Pesca alla trota in America resta il suo capolavoro, quello in cui, come ha scritto Riccardo Duranti, "tentare vie nuove e impreviste, nella vita come nella scrittura, crearsi una realtà alternativa a dispetto delle difficoltà in cui si si dibatte" diventò un imperativo, un modo di vivere. Funzionò per tutti i suoi personaggi, non per Richard Brautigan, che un giorno dell'autunno 1984 si fece prestare una pistola (come C. Card in Sognando Babilonia) e si sparò. Il mondo è un posto troppo piccolo per i sognatori.




Flannery O'Connor

La cattolicissima Flannery O'Connor è la fonte d'ispirazione letteraria più citata dall'altrettanto cattolico Bruce Springsteen. Per entrambi fede e religione sono parti integranti di una cultura che hanno assorbito fin dalla tenera età e con cui hanno continuato a fare i conti per tutta la vita. Peccato e redenzione, colpa e innocenza, l'eterna lotta tra il bene e il male, ma anche la comprensione di un mondo che contenga entrambi sono l'humus in comune nonché un bel po' di titoli a cui Bruce Springsteen si è frequentemente e liberamente ispirato per via della stessa, parole sue, "spiritualità tenebrosa". A partire da Nebraska, giusto per essere precisi. Tanto basta per rendere Sola a presidiare la fortezza un titolo a cui dedicare un particolare riguardo, ma sarebbe sbagliato limitarsi a scoprire Flannery O'Connor solo per via di un suo lettore e fan del tutto particolare. Anche se la sua attenzione verso chi sta dall'altra parte del libro è sempre costante ("Puoi scrivere per la gioia di farlo, ma l'atto della scrittura non è completo in sé. Trova un fine nel lettore") Flannery O'Connor è una narratrice superlativa e, come riesce a mostrare Sola a presidiare la fortezza, anche una lettrice e un'osservatrice fuori dal comune. Per scoprire la storyteller è necessario ritornare ai racconti; qui è la sua parte più intima, personale, a tratti direttamente autobiografica, raccontata attraverso un lungo epistolario di lettere a editori, agenti, amici o semplici lettori. Si parla di narrativa ("La narrativa dovrebbe rappresentare la vita, e lo scrittore di narrativa è tenuto a utilizzare tutti gli aspetti della vita necessari a formare un quadro d'insieme convincente. Lo scrittore di narrativa non afferma, ma mostra, raffigura") e di arte tout court ("L'arte non è cosa da verificarsi tra la gente, e comunque non l'arte del romanzo. E' cosa che si vive da soli e allo scopo di cogliere in modo nuovo, attraverso i sensi, il mistero dell'esistenza"), del suo tran tran quotidiano (compresi gli amatissimi pavoni), di morale nella scrittura ("Ci tengo ad avanzare ottimi argomenti in favore della devianza, perché mi vado convincendo che è l'unico modo per aprire gli occhi alla gente") e nella vita ("Il fatto è che per scandalizzarsi bisogna avere una visione d'insieme delle cose, e sono in pochi ad averla") con una verve, spesso polemica, che è difficile riconoscere in altri scrittori e/o scrittrici. Anche con un'umiltà e una semplicità ("Certe domande non è che me le hanno fatte gli altri, me le sono fatte da sola. Spesso la gente non si degna nemmeno di farle, si limita a dirti dove hai sbagliato. Non sono tipo da prendere le domande alla leggera e sicuramente le mie risposte sono incomplete, ma per ora non so fare di meglio") che le rendono omaggio e ci convincono ad accodarci, con tale Bruce Springsteen, tra i suoi fans.

 

 

giovedì 27 maggio 2010

Jack London

Il viaggio raccontato e raccolto da Jack London nei suoi giornali quotidiani è l'antenato primordiale di tutti i pellegrinaggi americani. Da John Steinbeck a Woody Guthrie, attraverso James Agee e infine Jack Kerouac e compresi testimoni oculari come Tom Kromer e Bertha Thompson, La strada ha compiuto infinite trasfusioni di "sangue di americano libero", come lo chiama Jack London, nel corso di oltre un secolo. Il suo modello di osservazione, che vale anche per la narrazione, è nello stesso tempo dentro e fuori. Dentro, da protagonista di pericolosi arrembaggi ai treni, di soluzioni giornaliere dovute un po' alla fortuna e un po' alla furbizia, di un'arte della sopravvivenza che si traduce in una sorta di infinita e faticosa resistenza umana. Per gli hobo, il viaggio sui treni è un rischio mortale in ogni singolo momento del giorno. Oltre alla naturale pericolosità di massa per velocità dei vagoni, su cui salire è sempre un tiro di dadi, è la caccia ai liberi viaggiatori da parte dei ferrovieri e della polizia l'elemento di sfida, che non risparmia nessuna violenza. E' anche il "destino manifesto" dell'hobo, l'outsider per eccellenza che si nega all'America costituita, rifiutando l'imposizione delle regole e della morale comune e che non nasconde i suoi tratti polemici. In questo c'è una consapevolezza che distingue un hobo da un qualsiasi vagabondo, anche se la distinzione può sembrare aleatoria. Un hobo come Jack London riesce ad attivare anche uno sguardo da fuori, sapendo che "la strada è una delle valvole di sicurezza attraverso la quale si espelle lo scarto dell'organismo sociale". La definizione non è l'unica utile e pertinente perché l'opposizione (risoluta e polemica) di Jack London alle fratture umane e sociali provocate dalla crescente industrializzazione (e militarizzazione) dell'America è continua, costante e valorizzata da una scrittura precisa e fluente, che non ha bisogno di altre presentazioni. La bellezza della lotta, che è poi quella della strada e della scrittura, sta infine nell'esortazione, quanto mai attuale nonostante siano passati cento anni, di John Steinbeck che dice, quasi formulando un veloce saluto "on the road": "Dunque stiamo allegri e cerchiamo di essere onesti". Con una bella copertina, la nuova edizione aggiunge ai "diari di un vagabondo" altri quattro inediti (tra saggi e racconti) che rendono omaggio all'importanza di un libro fondamentale nell'aver creato, attraverso la strada e senza tante metafore inutili, un sinonimo di libertà.

 

Nelson Algren

E' una lunga ed intensa discesa negli inferi di un'America smarrita e violenta, povera ed eccentrica, cupa e durissima dove i disperati viaggi sui vagoni dei treni merci, la prostituzione nelle vie torbide di New Orleans e mille piccoli espedienti della lotta quotidiana per la sopravvivenza ("Tutti devono mangiare. Tutti devono morire") ispirano un'umanità composita e pittoresca, dolente e malinconicamente reale. L'affresco di Nelson Algren è, in forma narrativa, l'equivalente di quello che James Agee ha fatto con il reportage, Walker Evans con le fotografie, Woody Guthrie con le canzoni: raccontare luoghi in cui "tutto era perduto. Perduto già da tanto tempo, in qualche terra più fredda. Perduto di nuovo dalle generazioni successive". L'unica speranza resta la saggezza (e l'ironia) della street life, per raccontare "periodi duri e facili, periodi trascorsi tra quattro mura e periodi trascorsi nei campi di lavoro, periodi trascorsi in prigioni federali e statali, periodi trascorsi in prigioni di contea, periodi brevi e periodi di pacchia, periodi tranquilli e periodi di pressione, periodi in prigioni grandi, piccole medie, periodi di lavoro in fabbrica e periodi di buona condotta, vale a dire, per esserti fatto un culo così a lavorare". La scrittura di Nelson Algren, vivida e intensa, sembra documentare, in tutti i dettagli e non senza una certa crudezza, tutti i momenti della vita spericolata di Dove Linkhorn, il country boy che spera nel colpo grosso e salta da un equivoco all'altro senza soluzione di continuità. E' un narratore, Nelson Algren, per cui anche la descrizione di un risveglio malaticcio (di Dove, appunto) diventa l'occasione per sfoderare due o tre frasi taglienti, che vanno subito a segno. Creando un'atmosfera nel giro di quattro righe: "Una mattinata così umida che il sale era una specie di poltiglia nel suo barattolo, Dove si svegliò sentendosi come se fosse stato masticato a lungo e poi sputato. La sua giacca a righe, attaccata a un chiodo piantato nella parete, sembrava qualcosa che fosse stato ripescato nel fiume. Ogni cosa su cui gli cascasse l'occhio sembrava o ripescata nel fiume o sputata in terra". Figurarsi nell'arco delle quattrocento pagine: come è giustamente ricordato da Russell Banks, nell'introduzione, aveva motivi da vendere Nelson Algren quando presentava Walk On The Wild Side come un libro che "chiede come mai dagli individui si sviluppano talvolta esseri umani migliori di quelli che non sono mai stati smarriti in vita loro". Un'intuizione che, spostando le coordinate da New Orleans a New York, avrebbe ispirato Lou Reed nella sua esplorazione dei sottofondi, a partire proprio dal'omonima Walk On The Wild Side che da qui prese il titolo.

Allen Ginsberg


Il diario del crepuscolo di un poeta: le malattie, l’età, la fatica non cambiarono l’attitudine del bardo. Fino all’ultimo giorno utile, Allen Ginsberg continuò a scrivere e a reinventarsi un rapporto con il mondo e i suoi ultimi anni sono ripercorsi in un “reality” raccontato da lui stesso, una sorte di testamento spirituale che prende la forma di un diario scritto giorno per giorno in forma di poesia. Nonostante la decadenza fisica, dovuta all’età e alla malattia, Allen Ginsberg non lasciò nulla di intentato, non perse niente della sua proverbiale generosità, trasformò persino le difficoltà quotidiane, ancora più dolenti se applicate a incombenze normali, a piccoli e del tutto irriverenti segnali autobiografici. Ci vuole una leggerezza geniale per presentarsi così: “Allen Ginsberg sta per mente confusa che annota titoli di giornale di Marte”. Scriveva senza esitazioni, senza risparmiarsi, con una verve immutata e spregiudicata, nonché lucidissima, sempre: le richieste “democratiche” al nuovo presidente americano che aprono questo diario degli ultimi giorni, non tradiscono alcuna titubanza nella critica travestita da poema (“L’iper-razionalismo riduce la naturale complessità della natura tramite grette astrazioni concettuali; iper-razionalizzazione, iper-industrializzazione e iper-tecnologia creano caos”) che ha segnato molte delle sue visioni più recenti. Pubblico e privato si intersecano e si confondono nella bellissima dedica agli amici della Beat Generation (City Lights City), nella moltitudine di appunti a raccontare una personalissima odissea fisica con un estremo amore per la poesia e per la vita fanno di questo libro una sorta di testamento spirituale. Tra il consueto omaggio all’amatissimo Bob Dylan (“Dylan sta per l’Individuo contro l’intero creato”), l’ennesima stoccata al mondo di oggi (“Televisione sta per gente seduta nel soggiorno che guarda quel che fa di solito”) e una fatale constatazione (“Fortunato che posso pensare, e che in cielo può nevicare”), più di ogni altra lirica è una domanda a rappresentare il senso ultimo di una voce importante, indimenticabile e indispensabile: “Chi rappresenterà quelli che vivono nelle macerie, chi dormirà in quella capanna semicrollata nel chiarore di luna piena quando nubi primaverili passando coprono la faccia dell’uomo nella luna alla fine di maggio?”, e l’elenco in risposta non è lunghissimo. Però, chiederselo ancora, a un passo da fine, non è da tutti ed è qualcosa in più del verso di una poesia. Un gesto di nobiltà.

James Agee

Sia lode ora a uomini di fama è un libro che, come scriveva James Agee nella dedica a Walker Evans, “contro il tempo e i guasti del cervello, affila e calibra” la percezione che è uno dei suoi temi fondamentali. Lo scrive James Agee fin dalle primissime pagine: “Poiché nel mondo immediato è necessario discernere ogni cosa, per chi sia capace di discernere, e con essenzialità e semplicità, senza dissezione in scienza o digestione in arte, ma con coscienza totale, cercando di percepire la osa per come si pone: per cui, ad esempio, l'aspetto di una strada in pieno sole può ruggire nel suo proprio intimo come una sinfonia, e forse come nessuna sinfonia può: e quel tutto di coscienza di sposta dall'immaginato, dal riesaminato, allo sforzo di percepire altro che il crudele raggiare di ciò che è”. Quello che videro James Agee e Walker Evans (attraverso la scrittura il primo e con la fotografia il secondo) nell'Alabama dell'estate del 1936 era un sole malato: la Grande Depressione aveva distrutto l'economia rurale e la povertà era dilagata con la forza di un uragano e la sistematicità di un'epidemia. Non è facile raccontare la miseria: James Agee e Walker Evans ci sono riusciti in modo chiaro, duro, perfetto e con un metodo che sarebbe da insegnare come materia principale in tutte le università: per capire, per percepire, vissero nelle famiglie dei contadini e la descrizione, il minuzioso elenco degli oggetti, delle case, dei volti di James Agee ha un riflesso speculare e complementare negli scatti di Walker Evans. A quel punto l'idea del reportage è abbondantemente superata: entrambi mettono in gioco qualcosa che va oltre il giornalismo, la letteratura, la fotografia, l'arte. Affrontano la questione in prima persona, mettendo in discussione le proprie certezze, le idee, la stessa vita. Non è un libro semplice, Sia lode ora a uomini di fama. Già la sua forma è indefinibile: non è un saggio, anche se ne ha tutto l'aspetto. Non è un romanzo, eppure James Agee è un narratore sublime. E' un viaggio. E' un manuale per ogni aspirante reporter. E' contraddittorio perché come direbbe Walt Whitman “contiene moltitudini”. E' scomodo, perché James Agee e Walker Evans si schierano, prendono posizione e, tra le righe, riescono a spiegarci il perché dell'arte, della creatività, dell'ingegno. E soprattutto quanto tutto ciò sia importante. Scriveva infatti James Agee: “Senza particolari condizioni e se necessario con combattività io rispetto le opere dell'immaginazione anche quelle ritenute le più fantastiche e ci credo. Sono anzi disposto a dire, poiché coerente con me stesso ci credo, che le opere di immaginazione (...) fanno progredire e aiutano il genere umano, aprono una prospettiva nel buio che lo circonda, come a nient'altro è possibile”. Sia lode ora a uomini di fama (ora in versione economica, con un prezzo che è quasi un favore: meno della metà di quanto costava in origine) è un libro che non lascia indifferenti: James Agee e Walker Evans rivelano un paesaggio (umano, e non solo) lasciandosi trasportare da quello che scoprono: “Arrivare a toccare con devozione il nodo centrale di un argomento, mentre a ogni passo cresce il rispetto che per esso provi e il cuore ti si scioglie di vergogna per come lo stai trattando: arrivare a sapere con sempre maggior chiarezza e infine sin nell'intimo dell'anima che tu ne sei indegno: lasciatemi sperare almeno che sia già qualcosa aver cominciato a imparare”. Non è esagerato dire che un uso costante di Sia lode ora a uomini di fama cambi sensibilmente il livello della percezione perché riabitua a porsi delle domande, chiedersi “in che modo siamo rimasti intrappolati? dove, lo sbaglio che abbiam fatto? cosa, come, dove, quando, in che modo, tutte queste cose avrebbero potuto essere diverse, se solo avessimo diversamente agito?”. Tutte queste domande contengono già la risposta: “se solo avessimo saputo”. Ecco, Sia lode ora a uomini di fama spiega cosa vuol dire sapere, essere a conoscenza e l'argomento può essere tanto la vita nei campi dell'Alabama del 1936 quanto il rock'n'roll (o quant'altro) oggi. Poi sarebbero arrivati William Least Heat Moon, Bill Bryson e Jonathan Raban (e James Talley con Cavalliere Ketchum che nello struggente The Road To Torreon hanno provato ad aggiornare l'Alabama di James Agee con il New Mexico), ma il vero viaggio nell'America blue collar è cominciato Sia lode ora a uomini di fama. Fondamentale.

Terry Southern

L'idea di Blue Movie è nata da una frase di Stanley Kubrick. Più o meno nel periodo in cui stava lavorando al Dottor Stranamore (un film visionario e profetico) qualcuno gli portò da vedere un film porno che lui guardò per pochi minuti, e poi se ne andò, dicendo a Terry Southern: "Potrebbe essere grande se qualcuno facesse un film come quello però con le risorse degli studios". Stava parlando con la persona giusta: oltre ad essere lo sceneggiatore del Dottor Stranamore, Terry Southern ha lavorato a Casino Royale, Barbarella, Easy Ryder e Arancia Meccanica. E non è tutto qui, perché la sua biografia è a sua volta un altro romanzo. E' un narratore che ha vissuto in prima persona tutta l'epoca brillante e psichedelica degli anni Sessanta: è una delle facce della copertina di Sgt. Pepper, ha letto poesie con Allen Ginsberg e giocato a poker con Mordecai Richler, ha inciso dischi e, insomma, si è divertito. Come ci siamo divertiti noi a leggere Blue Movie. Boris Adrian, Sid Krassman e tutta la troupe di Blue Movie potrebbero essere special guest nella Banda di idioti di John Kennedy Toole o nella Confraternita del Chianti di John Fante, anche se loro con la fantasia (e con gli additivi chimici) si spingolo molto più in là. E' una compagnia bislacca di talenti: Boris Adrian è un famoso regista e Sid Krassman è il produttore cinematografico che tutti vorrebbero avere. Insieme, decidono che è giunta l'ora di realizzare un porno di qualità, con una "durata normale, bei colori, belle luci, una trama vera e propria". L'ispirazione viene da un disco della Plastic Ono Band in sottofondo (guarda un po' che effetti), ma il vero motivo è che "a qualsiasi essere umano di sesso maschile, in America, piace l'idea di essere il lupo cattivo che si scopa Cappuccetto Rosso, ecco perché". E' chiaro che gli sviluppi non sono poi tanto prevedibili: "fare un film è un processo frammentato e tedioso", dicono loro, e bisogna capirli. Le attrici fanno i capricci, i produttori si preoccupano del business (as usual), il progetto langue, le polemiche montano, l'alcool scorre a fiumi, il sesso è all'ordine del giorno sul set e ovunque. Sempre esilarante, con un finale metà amaro e metà dissacrante, Blue Movie si legge sorridendo, ma è anche una fedele ricostruzione del mondo vacuo ed effimero di Hollywood. Con una coda (reale) molto eloquente, che è un'altra storia nella storia. Blue Movie sarebbe dovuto diventare a sua volta un film, in questo gioco di specchi di un set che si trasforma in un romanzo che ritorna un film. Era tutto pronto, compresi quattordici milioni di dollari di budget (una cifra, per l'epoca) e Julie Andrews convinta (per amore, arte e una caterva di soldi) ad interpretare la parte, con sesso reale, della protagonista (Angela Sterling). Però Ringo Starr aveva un'opzione sul libro, i suoi avvocati intervennero perché volevano essere parte della produzione e, per farla breve, tutto finì nel nulla. Come nel romanzo, guarda un po'.

Sandra Cisneros

Un libro pieno di musica, di canzoni, di un ritmo ondulante tra il rock'n'roll e le orchestrine mariachi. Un romanzo che è un agglomerato di racconti, come il rebozo, il coloratissimo scialle che è al centro dell'attenzione, è un puzzle di tessuti perché, come scrive Sandra Cisneros, "la verità è che queste storie non sono altro che storie, pezzetti di filo, scampoli, piccole cose sparse trovate qua e là, cucite insieme per farne una nuova". Scrittrice americana (è nata a Chicago) ma di origini messicane, molto attenta al ritmo delle parole, del racconto, ma anche delle condizioni umane e sociali ("Scrivere è fare domande"), Sandra Cisneros ha dedicato a Caramelo (o Puro Cuento) quasi dieci anni. Un romanzo che racconta, dal punto di vista di Lala, una bambina nel vortice delle storie della sua famiglia, i Reyes, del loro viaggiare tra Messico e Stati Uniti. Due nazioni, due lingue, due mondi opposti, quello dell'infanzia ("Dato che siamo bambini, le cose succedono e qualcuno si dimentica di raccontarcele, oppure ce le raccontano e noi ce le dimentichiamo") e quello degli adulti si sovrappongono in continuazione tra realtà e immaginazione e diventano un flusso di storie ("La verità è che queste storie non sono altro che storie, pezzetti di filo, scampoli, piccole cose sparse trovate qua e là, cucite insieme per farne una nuova"), strade ("Non come sull'atlante dall'arancione al rosa, ma a un semaforo, nella calura ondulata e nella frastornante puzza di benzina, gli Stati Uniti finiscono all'improvviso, un aggrovigliato pigia pigia di fari rossi di auto e di camion che aspettano di passare il ponte. Miglia e miglia"), canzoni per raccontare che "la vita era crudele. E spassosa nello stesso tempo". La vita della famiglia Reyes, nel suo tran tran quotidiano di liti, feste, lavori da quattro soldi e pellegrinaggi attraverso la frontiera ("Ogni anno quando passo il confine è sempre la stessa cosa: la mia mente dimentica. Ma il mio corpo ricorda sempre") è raccontata da Sandra Cisneros con un andamento che sembra riprendere l'antica e primordiale unità tra musica e poesia. Il ritmo è costante, le immagini vivide e i personaggi perfettamente identificabili e Caramelo raccoglie nel linguaggio che dipana lungo le sue quattrocento e passa pagina tutta la nostalgia e la malinconia che sono proprie della condizione degli emigranti. Con gli occhi di una bambina, ma con la coscienza delle capacità chirurgiche della scrittura, con Caramelo Sandra Cisneros dipige un grande, affascinante affresco della vita tra due nazioni, due linguaggi, due tempi e probabilmente anche due vite diverse. In mezzo c'è sempre una frontiera, a partire dal border, quello reale, tra Messico e Texas che viene attraversato, nei due sensi, e dove si confondono le storie e le parole. Le differenze e le distanze diventano frasi musicali, i volti si trasformano in personaggi, l'inglese e lo spagnolo si confondono perché come ha detto Helène Cixous "gli espropriati vivono nel linguaggio", e ognuno ha il suo. Così si dipanano lunghe scene di viaggio che per Sandra Cisneros sono anche ritagli autobiografici perché va "a cercare quelli che mi sono lasciata dietro. A cercare quelli che non possono andarsene"; sublimi ritratti del tran tran domestico di tre diverse (e contigue) famiglie; tutta una vita che "era crudele. E spassosa nello stesso tempo". Ancora una contraddizione, una frontiera e una grande scrittrice che usa le parole, le lingue, le scritture per superarla. Se serve un paragone musicale (che tra l'altro può funzionare benissimo come colonna sonora) prendete Kiko dei Los Lobos. Caramelo ha la stessa varietà di sfumature, lo stesso ritmo dolce e incalzante, una voce calda a cui non sfugge nessuna storia. Come ha scritto Eduardo Galeano: "Caramelo è un treno pieno di immaginazione, senza un capolinea, che va e viene dal Messico agli Stati Uniti, attraversando le frontiere del tempo e dello spazio, pieno di voci, di musica, fatto di memoria e vita". Un capolavoro.

James Sallis

"La gente qui è diventata la gente che fa finta di essere" diceva Sam Shepard mentre si aggirava nella Los Angeles delle sue ormai leggendarie Motel Chronicles. Esattamente: quella fabbrica di sogni e illusioni che risponde al nome di Hollywood sembra aver contagiato tutta la metropoli e allora chiunque interpreta più ruoli, ma tutti sono in cerca del colpo grosso, quello che ti cambia la vita. Per sempre. Sapessero quello che sa Driver, ovvero che "la vita non fa altro che mandarci dei messaggi, e poi resta a vedere, sghignazzando, com'è che non riusciamo a capirci un accidente", non starebbero a dannarsi l'anima più di quel tanto. Driver vive così: guida (con quel nome lì, evidentemente) le macchine nelle scene più pericolose, le tiene su due ruote, le fa saltare, le fa roteare, tutto il catalogo di follie stradali che il cinema ci ha propinato da Thunder Road (un punto di riferimento per Driver) in qua. Ogni tanto, un po' perché le macchine sono una vera passione, un po' perché ci finisce dentro, guida anche per qualche rapina. Niente di colplicato: un ufficio postale, un banco dei pegni, quattro soldi e via. Quello che è strano e molto curioso è che tutto il suo lavoro gli porta via qualche ora e il resto è sempre attesa. Così, per evitare al minimo i guai Driver ha scelto un profilo bassissimo: si concede di mangiare e bere bene (l'elenco dei posti allineati da James Sallis potrebbe, con i relativi menù, riempire una guida gastronomica), ma poi se ne torna nei suoi appartamenti in affitto, disadorni, scarni e forse anche un po' tristi come il suo stesso tran tran. Non è il primo ad essere solo in una città di dieci milioni di persone, ma sembra essersi abituato o almeno si è fatto una ragione quando dice: "il mondo è pieno di posti che sono vere e proprie sacche di esistenza, dove non cambia mai niente o quasi. Come golene". Invece qualcosa cambia perché proprio mentre aveva conquistato la fiducia di una piccola e strampalata famiglia, se la ritrova massacrata durante un tentativo di rapina. Essendo stato prescelto come autista, è testimone di un intreccio di parti e ruoli che non può funzionare nemmeno in una città fondata sulle sceneggiature più astruse. E' in quel momento che Driver smette di guidare (almeno per il cinema) e diventa qualcos'altro o, forse, riscopre un vecchio ruolo che sembra conoscere molto bene. Grande romanzo che ruota attorno al tema dell'identità e alle sue deformazioni, Drive è un noir che scorre come un inseguimento mozzafiato con momenti lirici che ricordano persino il miglior Raymond Chandler, ma se si vuole un paragone, almeno in termini di atmosfera e tensione, bisogna tornare a Vivere e morire a Los Angeles di William Friedkin. Due modi per raccontare la stessa, disarmante solitudine di una città che, non dimentichiamolo, è costruita nel deserto.

Jack Finney

Il viaggio nel tempo è un mito che ha alimentato moltissime invenzioni della narrativa e del cinema. La possibilità di incidere sugli eventi presenti e futuri, magari anche soltanto incidentalmente, attraversando qualche era del passato è sempre stato l'elemento di disturbo e il punto di non ritorno di tutti i viaggi nel tempo. Quello di Simon Morley, il protagonista del romanzo di Jack Finney, ha la formula e la statura del classico. La sua odissea dalla metà del ventesimo secolo verso la New York del 1882 è propiziata un po' dalla noia, un po' dalla curiosità ("Probabilmente l'istinto più forte della razza umana, ancor più del sesso o della fame, è la curiosità; il bisogno assoluto di conoscere. Vi sono persone che vi dedicano la vita intera, e la prospettiva di poter soddisfare la propria curiosità può essere un'emozione fra le più eccitanti") e un po' dal senso civico visto che la proposta di andare Indietro nel tempo gli arriva direttamente dall'esercito degli Stati Uniti d'America. Un progetto segretissimo i cui obiettivi non sono del tutto chiari, ma che Jack Finney si premura di rendere credibile: non c'è alcun scienziato allucinato, nessun macchinario fantascientifico, niente varchi tra spazio e tempo. Piuttosto emergono le diatribe tra le esigenze del progetto e il controllo dei finanziamenti, i consueti scontri tra politici e militari, le titubanze e gli entusiasmi. I tentativi di spedire qualcuno a ritroso nel tempo prevedono un viaggio nella Parigi del 1451, uno tra le trincee sul finire della prima guerra mondiale, altri ancora nel North Dakota del 1924 o a Denver nel 1901 e poi, quello di Simon Morley, nella New York del 1882. Gli strumenti, molto plausibili, sono ricercatissime ricostruzioni degli ambienti dell'epoca, lo studio dei gerghi e delle lingue come si parlavano, moltissimi libri e altrettante ore di lezione, e poi l'ipnosi e l'isolamento dei presunti viaggiatori in luoghi e scenari che hanno un solido legame con il passato. Simon Morley viene relegato in una stanza, appositamente adeguata, del Dakota, un edificio che è parte integrante della storia dell'architettura di New York. Chi mastica rock'n'roll e il suo immaginario fiuterà subito la puzza di bruciato perché il Dakota è anche quel palazzo stregato dove Roman Polanski ha girato Rosemary's Baby e dove John Lennon ha vissuto i suoi ultimi giorni. Non è necessario essere superstiziosi per capire che il salto nel tempo di Simon Morley non sarà del tutto indolore: la New York del 1882 (ricostruita egregiamente dalla scrittura di Jack Finney) è, naturalmente, molto diversa dal mondo attuale, però ci sono molti elementi in comune con il presente e sicuramente anche con il futuro. Simon Morley piomba proprio nel mezzo di una storia di corruzione per appalti pubblici (succede a New York nel 1882, ma non solo a New York, non solo nel 1882), di false fatturazioni e di ricatti che s'incrociano con un paio di storie d'amore, una che non decolla, l'altra che affiora, a sorpresa (e anche questo succede in tutte le ere). Tutto preso dalla sua parte, affascinato dal viaggio e dagli incontri, Simon Morley sembra dimenticarsi di essere in missione per conto del governo americano, ma viene presto chiamato a rispondere del suo operato. In un ultimo sussulto di dignità e di disgusto ("Io penso che le decisioni più importanti vengono prese da persone che non sanno nulla a loro volta. Agiscono in base a semplici convinzioni. Sono convinti che sia giusto e necessario avvelenare l'atmosfera con la radioattività. Sono convinti che dobbiamo usare le scoperte genetiche dei nostri scienziati per generare nuove e terribili malattie. E non si sognano nemmeno di chiedere il consenso al novantanove virgola nove per cento dei comuni cittadini") Simon Morley deciderà di seguire il suo istinto, ma questo è già parte del finale di Indietro nel tempo e merita di essere scoperto dai lettori. Un romanzo raffinato, seducente e molto intelligente che suggerisce più di un argomento per riflettere sulla nostra percezione del tempo e della realtà.

Kevin Baker

“Abbiamo quest'immagine” ha detto Kevin Baker parlando di Dreamland, ovvero de Il paese dei sogni “degli immigranti che arrivavano in America che, pur sofferendo, lavorando duro potevano arrivare a qualsiasi grande successo. In effetti, questa è stata la lunga lotta di diverse generazioni, ma anche quando gli immigrati riuscirono ad avere successo, non bisogna dimenticare il prezzo che hanno pagato, non soltanto separandosi dalle proprie culture e dai linguaggi, ma anche dalle famiglie”. Romanzo storico che si prende più di una libertà, Il paese dei sogni racconta l'epopea di Coney Island del primo Novecento, quando le navi provenienti dall'Europa la vedevano sfavillare di luci mentre ancora erano al largo nell'Atlantico. L'american dream li aspettava, ma non sarebbe stato né semplice né comodo: attraverso una folla di personaggi picareschi e volubili, Kevin Baker racconta la vita di Coney Island restando costantemente nel tracciato degli eventi storici, ma concedendosi tutte le variazioni di percorso necessarie anche perché come ha detto lui stesso "ho sempre pensato che si possano creare personaggi e cambiare un po' le cronologie degli avvenimenti, se tutto ciò serve a far capire l'essenza del romanzo e della storia". Si può essere tranquillamente d'accordo anche perché Kevin Baker ama partire dal basso, dalle strade, dal reticolo di vicoli per raccontare le piccole, grandi storie della comunità ebraica del Lower East Side, le bande di gangster, i primi scioperi, Sigmund Freud e Carl Jung, poliziotti e giocatori d'azzardo, strilloni e politici in una Babele linguistica (inglese, yiddish, cinese, italiano). "Vivere a New York un secolo fa significava sentire ogni giorno per strada decine di lingue diverse" scrive infatti Kevin Baker per introdurre il breve e utile glossario in appendice e la sua ricostruzione scorre via felicemente perché della vita di Coney Island, del Il paese dei sogni racconta nei dettagli i passaggi quotidiani, le piccole scoperte e le grandi invenzioni e un paio di storie d'amore che non guastano mai. Un libro così non guasta mai perché ricorda (a noi) che siamo stati degli immigranti e (agli americani, e non solo) che abbiamo tutti la memoria corta, e non solo New York come dice Big Tim Sullivan, uno dei protagonisti principali di Il paese dei sogni.

mercoledì 26 maggio 2010

Richard Yates

Nella vita sfortunata e tormentata di Richard Yates c'è stato persino il ruolo di ghost writer per Bob Kennedy, nel 1962. Poi una lunga serie di fallimenti e di sconfitte (personali) come corollario ad una ricerca narrativa intensa ed importante, purtroppo rimasta nell'ombra per tantissimi anni. Basti pensare che Tennessee Williams di lui diceva: "Ecco qualcosa di più di un'ottima scrittura: ecco cosa, aggiunto all'ottima scrittura, fa diventare subito vivo, in modo intenso e brillante, un libro. Se nella letteratura americana moderna occorra di più per creare un capolavoro, non saprei proprio dire cosa sia". Parlava di Revolutionary Road, uno straordinario romanzo che oggi trova una sua nuova e adeguata veste nella collana minimum classics, dove sono usciti anche John Barth (il sontuoso L'opera galleggiante) e Donald Barthelme. Tutte le note biografiche e bibliografiche e l'introduzione di Richard Ford ("Revolutionary Road guarda dritto verso di noi con sguardo smaliziato e ammonitore, e ci invita a fare attenzione, a stare all'erta, a badare bene, e a vivere la vita come se avesse importanza quello che facciamo, poiché fare di meno mette in pericolo tutto quanto") contribuiscono a ridargli la giusta luce. La storia è tutta nel titolo ("Il complesso residenziale di Revolutionary Hill non era stato progettato in funzione di un tragedia. Anche di notte, come di proposito, le sue costruzioni non presentavano ombre confuse né sagome spettrali. Era invicibilmente allegro: un paese dei balocchi composto di casette bianche e color pastello, le cui ampie finestre prive di tende occhieggiavano miti in un intrico di foglie verdi e gialle. Fasci di luce sfacciata spazzavano i prati, le eleganti porte d'ingresso e le curve delle automobili color panna ormeggiate dinanzi") perché è proprio nella realtà suburbana, provinciale e un po' amena dell'America anni Cinquanta che si consuma la vita matrimoniale e famigliare (hanno due figli, Jennifer e Michael) di Frank e April Wheeler. All'inizio è una routine di liti, incomprensioni e frustrazioni condite dall'abuso di alcool; poi arrivano i tradimenti, i sotterfugi e altre piccolezze in grado di disintegrare tutti i rapporti umani e sociali; infine, non inaspettata, ma repentina e crudele, la tragedia. Richard Yates, narratore attentissimo ai dialoghi e alle luci (a tratti sembra di essere in un quadro di Edward Hopper o di Charles Sheeler), non nasconde la sua partecipazione e coinvolge il lettore in un turbinio di parole travolgente anche se la vicenda, nella suo quotidiano tran tran, sembra persino banale. Revolutionary Road è una storia ad orologeria. Per tre quarti si gonfia di tensione con schegge e frammenti di un lungo e complesso rapporto di no love, come direbbero gli americani (quella situazione che non è amore e non è odio), tra marito e moglie (con due figli, e poveri i bambini). Le reciproche frustrazioni (lei è un'attrice mancata; lui è un'intellettuale ridotto al ruolo di travet) serpeggiano, con un lungo stillicidio di liti, equivoci, tradimenti e altre amenità famigliari (compreso l'improbabile sogno di fuggire a Parigi) condite dall'abuso tanto dell'alcool quanto delle parole. E' la vita di provincia, della provincia americana che Richard Yates ritrae con la stessa luce di Edward Hopper: un narratore che rimane alla finestra, non entra nel vivo dell'azione, si tiene fuori, eppure riesce a scoprire con una precisione disarmante tutto quello che succede dentro. Con la lentezza di uno di quei balli, più stanchi che languidi, che Frank e April Wheeler si concedono, con gli amici, in un locale fuori mano. Poi, nell'ultimo quarto, in fondo a Revolutionary Road, la bomba esplode e i sotterfugi, le bugie che hanno covato a lungo nei sotterranei della mediocrità deflagrano in una tragedia. A quel punto su Revolutionary Road cala il silenzio, e Richard Yates è grandissimo nel distinguere il passaggio, ma anche questa, alla fine, è una condizione spietata e crudele perché restano i due figli, Jennifer e Michael, tristi, muti e in attesa di risposte che non arriveranno mai. Sembra di vederli, ed è facile condividere quello che dice Richard Ford a proposito, ovvero che "Revolutionary Road guarda dritto verso di noi con sguardo smaliziato e ammonitore, e ci invita a fare attenzione, a stare all'erta, a badare bene, e a vivere la vita come se avesse importanza quello che facciamo, poiché fare di meno mette in pericolo tutto quanto". Un capolavoro, o quasi.