lunedì 20 dicembre 2010

Raymond Carver

E’ stato il narratore blue collar per eccellenza, se non altro perché ha sempre dichiarato di essere un fan di Tom Waits e Bruce Springsteen: biglietto da visita relativo, ma sono pochi gli scrittori che confessano la passione per il rock’n’roll e Raymond Carver, tra questi, è stato quello più vicino alla poesia e alla scrittura intesa come mezzo per scoprire qualcosa in più di una bella prosa, qualche short story toccante, un modo elegante per rappresentare la vita. Già, la vita. Durante il suo ultimo discorso pubblico, il 15 maggio 1988, Raymond Carver spiegò con la consueta coincisione e chiarezza quale fosse il rapporto che intendeva tra vita e scrittura, offrendo una delle regole fondamentali (e indispensabile) per sviscerarlo: “Fate attenzione allo spirito delle vostre parole, delle vostre azioni. E’ una preparazione sufficiente. Non c’è bisogno di altre parole”. Forse è per questo che i suoi racconti sono condensati fino all’osso (anzi “al midollo”) e che più andava avanti, più somigliavano a poesie, come la stupenda Bretelle in Il nuovo sentiero per la cascata o tutto Blu oltremare e sono soltanto due tra le dozzine di esempi possibili: la sua scrittura sembra la ricerca di una luce, di una verità, con un’attenzione religiosa, ma che a tutti gli effetti è un solido, logico attaccamento alla realtà. Introducendo con Tom Jenks, American Short Story Masterpieces, diceva infatti: “Vorremmo avanzare l’ipotesi che il talento, il genio, addirittura, sia anche il dono di vedere quello che tutti hanno visto, ma vederlo in modo più chiaro, da ogni lato”. C’è tutto Raymond Carver in quest’idea di arte: né fiction, né interpretazione della realtà, ma soltanto una visione più nitida, più chiara o, soltanto, diversa. Dentro questa luce (blue) vive e resiste la miriade di personaggi sempre in lotta per la sopravvivenza, con un dramma alla porta, con vite che sembrano non risolversi mai. Non c’è traccia di consolazione, non c’è alcun happy end, non ci sono eroi memorabili: i racconti di Raymond Carver vivono e si nutrono soltanto di parole che sono l’inizio, la fine e il mezzo con cui si può salvare qualcosa. Nessuno come lui ha raccontato la vita blue collar, il linguaggio monocorde e scarno della provincia americana (come di tutte le province), i piccoli e infinitesimi drammi di uomini e donne che non sanno più cos’è quella piccola cosa chiamata amore, centellinando le parole perché “in definitiva, le parole sono tutto che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste, con la punteggiatura nei posti giusti in modo che possano dire quello che devono dire nel modo migliore”. Sarebbe da spiegare a tutti quei pseudoscrittori che si dicono posseduti dal linguaggio (neanche fosse un demonio) e riempiono pagine su pagine, romanzi su romanzi, libri su libri, di un vuoto che è, appunto, un vuoto. Dovrebbero seguire la lezione di Raymond Carver perché c’è un mondo là fuori (o qui dentro) che nel suo quotidiano tirare avanti offre una storia più bella dell’altra: “Presto dentro, presto fuori. Niente indugi. Avanti”. Indimenticabile.

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