venerdì 17 dicembre 2010

Jonathan Dee

La ricerca della felicità è un obbligo esistenziale e costituzionale per ogni americano che si rispetti e per niente al mondo la famiglia Morey vuole essere un’eccezione. Adam e Cynthia sono gli stupendi esemplari di gente che “tendeva a non mettere in dubbio i propri desideri” e che è votata ad arrampicarsi su tutti i luoghi comuni pur di avere fortune sempre sufficienti a soddisfare qualsiasi esigenza, dall’imprevista malattia di un lontano parente a un appartamento a Londra per i week-end, perché la famiglia viene prima qualsiasi altra cosa. In effetti anche i loro pargoli, April e Jonas, “hanno tutto. Non sanno quanto sono fortunati. Carini, contenti, beneducati. Tutto va come dovrebbe andare, non hanno idea di come vive il restante novantanove per cento”. Nella realtà non importa nemmeno saperlo perché “il destino non c’entrava; il destino era una stronzata. Era il potenziale di un momento e cosa ne facevi. Un potenziale inespresso era qualcosa di tragico”. La matematica a questo punto chiede di sapere cosa ci vuole a mantenere non soltanto l’attico con vista sul planetario di New York City, gli autisti a disposizione giorno e notte, il jet privato, il resort privato e le immancabili beneficienze ma anche l’idea stessa di essere privilegiati. E’ il duro lavoro di Adam a rifornire e garantire i fondi della famiglia e non ci vuole molta immaginazione a capire che l’unico modo per smuovere tutti quei capitali sia la speculazione finanziaria ai massimi livelli, quelli che comprendono il coinvolgimento di interi stati sovrani. Sono quelli, e solo quelli, i numeri che contano, “il resto è puro e semplice teatro” e infatti i prilegiati coltivano la menzogna, il sotterfugio, l’ipocrisia con una dedizione ammirevole. Adam compra per la famiglia un’intera villa ai Caraibi, che a lui serve per le puntuali transazioni lontane da occhi e orecchie indiscreti. Cynthia, la più generosa, spiana gli incidenti adolescenziali di April a colpi di avvocati e addetti stampa e liquida la compagna del padre, sul letto di morte, con due cifre: l’importo e il numero di telefono di chi lo liquiderà. Per non dire dell’artista di casa, Jonas, che passa dal Gibson Les Paul all’art brut, offrendo alla fidanzata universitaria un intero appartamento (e sopra il divano ci mette un Picasso originale, regalo della sorella di passaggio). La voce con cui Jonathan Dee racconta l’ambigua famiglia Morey è lineare, priva di effetti o allusioni, precisa e accurata: una specie di campo lungo che, sequenza dopo sequenza, riesce a inquadrare con estrema efficacia tutti gli strumenti preconfezionati, i tic, le abitudini di privilegiati a cui non importa tanto il beneficio di poter realizzare, nel volgere di una firma su un assegno, l’ultimo dei sogni. “Presto avremo anche noi le stesse cose. Ci vuole solo tempo” dice Cynthia ai figli ed è questa sicurezza il tratto in cui I privilegiati si fa chiarissimo e rivelatorio, senza un filo di moralismo. E’ il privilegio in sé che paga (tutto) e assolve (sempre). Per gli altri (e per la coscienza), basta (e avanza) la beneficienza. 

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