giovedì 30 dicembre 2010

Alistair MacLeod

Narratore canadese con lo spiccato senso del paesaggio, Alistair MacLeod con Il dono di sangue del sale perduto ha spinto Robert Stone a definirlo “uno dei più grandi maestri della short story”. L’autore di Porta di Damasco non è stato l'unico a spendere parole d'elogio e d'entusiasmo: per lui si sono concessi Margaret Atwood, Russell Banks, Alice Munro, Michael Ondaatje e Joyce Carol Oates, che è arrivata a scrivere la postfazione di Il dono di sangue del sale perduto. E’ l’effetto del fascino austero e crudo dei racconti di Alistair MacLeod: tutti ambientati nel microcosmo di Cape Breton, una cittadina minerara della Nova Scotia, dove montagne e oceano sembrano spiegarsi a formare uno scenario duro, freddo e ostico. In questa cornice, fondamentale nell'economia della narrativa di Alistair MacLeod, prendono posto famiglie umilissime di pescatori, minatori e taglialegna che si tramandano di generazione in generazione storie, viaggi, lavori, dolori, ricordi, canzoni. Il linguaggio usato, da loro e da Alistair MacLeod, è sorprendente: un puzzle di inglese, francese, gaelico con sfumature di una miriade di dialetti e di gerghi. E’ l’essenza del ritmo dei racconti di Il dono di sangue del sale perduto: è sufficiente cominciare da L'accordo della perfezione per lasciarsi incantare dall’andamento dei racconti, simile a quello di certe ballate, scandito dalle frasi frammentarie dei personaggi, dagli echi delle campane nei villaggi e delle onde dell’oceano, da strofe e ritornelli secolari e dai silenzi delle montagne e delle notti di neve. In questo paesaggio sonoro, prendono forma vite poverissime, tentativi di fuga, piccole e (più spesso) grandi tragedie che le famiglie di Cape Breton vivono sempre con immensa dignità. Alistair MacLeod, dal canto suo, le racconta con il piglio di uno storyteller: ovvero, come se fossero sempre esistite. Diventa quindi evidente in Il dono di sangue del sale perduto come il narrare sia per Alistair MacLeod una componente fondamentale della vita quotidiana e non uno sfizio intellettuale. Sono le storie il collante che tiene insieme il quadro generale, la cornice marina, i canti tradizionali e popolari, la “working life” quotidiana, le diverse generazioni di donne e di uomini e la natura degli animali e degli elementi, tutti legati da particolare identità della terra e dell’acqua in cui vivono. Il suo narrare, tra i toni dorati del crepuscolo e le ingenue certezze dell’infanzia, tra il fantasma di Elvis e gli immensi silenzi invernali, è simile ai gesti immaginari che si compiono quando “si cerca di riaccostare le rive di un fiume piccolo e appena scoperto affinché torni a essere sotterraneo. E’ qualcosa di simile, anche se si sa che la cicatrice futura sarà sempre all’esterno mentre il ricordo sarà sepolto per sempre dentro”. La descrizione serve a capire perché Joyce Carol Oates ha visto in queste short stories “tutto il mistero della vita e della morte”: lasciano il segno in profondità, come antiche ballate che non si dimenticano più.

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