venerdì 26 novembre 2010

Richard Yates

Richard Yates non è uno scrittore a cui è stato concesso molto (almeno quando era in vita) non meno di quanto si sia concesso lui. Un certo rigore, ai limiti dell’autolesionismo, si percepisce distintamente leggendo questi racconti (ancora di più i romanzi, tra cui il fondamentale Revolutionary Road) e si traduce in una narrativa contagiosa che ha influenzato, tra gli altri, Richard Ford, Tobias Wolff, Robert Stone. Non uno scrittore qualsiasi, quindi: la sua scrittura è sempre un confronto con l'inadeguatezza, che in Undici solitudini sembra essere il destino ultimo della varia umanità che lo popola. Più beffardo, che drammatico. I personaggi di Richard Yates anelano infatti a fare la cosa giusta, ma finiscono sempre per farne un’altra, quella sbagliata. C’è qualcosa che va al contrario nelle loro intenzioni, un piano inclinato che improvvisamente si mette di traverso e che Richard Yates non risparmia a nessuno. La loro goffaggine, a volte surreale, altrimenti crudele, sempre e comunque disarmante, è raccontata senza filtri anche perché la considerazione del genere umano di Richard Yates è piuttosto esplicita, e nemmeno tanto edificante: “Se il mio lavoro ha un tema, sospetto che sia un tema molto semplice. Gli esseri umani sono irreparabilmente soli, e lì c'è la loro tragedia”. La solitudine non è vista come una condizione esistenziale, un momento della vita, piuttosto come un elemento disgregante, una sintesi delle frustrazioni, delle ambizioni e degli orizzonti perduti di una civiltà, di una nazione, di un mondo. Non c'è sogno americano che tenga, non c'è terra promessa. Richard Yates non concede nulla nemmeno ai suoi personaggi, l’happy end non è né previsto né preso in considerazione e le sue “solitudini” sono amare, e basta (nemmeno tristi, neanche malinconiche, spesso, invece, piuttosto livide), ma hanno l'importanza da chi vede il mondo da una prospettiva particolare, davanti a tante esistenze e a tanti mondi che non fanno altro se non mascherare il proprio fallimento, la propria inadeguatezza, nascondendosi dietro certe condizioni di luce. Sarà per quello che i racconti di Richard Yates si aprono davanti al lettore come scenari teatrali: nella cornice dettata dalle convenienze e dalle consuetudini, irrompe il disturbo, la frattura e persino l’assuefazione diventa un problema. Le immagini si svolgono su un ritmo secco, preciso, scandito nitidamente dalle parole e dalla loro organizzazione della scrittura. Un ritmo che, a differenza delle logiche di molta letteratura di consumo, non si vuole imporre, non cerca di trascinare (il lettore), ma lo accompagna passo per passo in un mondo dove regna sovrana l’inadeguatezza del genere umano, la stessa che Richard Yates rifletteva per sé e per tutti così: “Nessuno di noi sa mai quanto tempo gli rimane, né come sarà in grado di usare questo tempo, e in ogni caso, anche se lo userà bene, il suo lavoro dovrà sempre affrontare la terribile, inesorabile indifferenza del tempo stesso". Un grande scrittore.

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