lunedì 4 ottobre 2010

Robert Coover

L'ultima volta che il baseball, un luogo della mente americano più che uno sport o un gioco, è entrato in un romanzo è stato nelle prime, mirabili pagine di quel capolavoro che è Underworld di Don DeLillo. E naturalmente, per quanto da tutta un’altra prospettiva, in Quello era l’anno di Dennis Lehane, solo per definire i due estremi di una linea infinita di storie che vedono il baseball in prima e che con Il gioco di Henry di Robert Coover diventa invece più che protagonista, un assoluto. La sua popolarità, l'elaborata complessità, lo stardom system che gli ruota dentro e attorno: forse soltanto il rock'n'roll può competere a fornire i materiali necessari per “un puzzle gigantesco e impossibile, un testo scritto dall’intera nazione attraverso tutta la sua storia, come se le frasi si fossero formate nel corso del tempo, nell'accumulo di tutta questa esperienza: volevo che ci fossero migliaia di echi, tutti i suoni di una nazione”. Definizione di Robert Coover dell’idea di romanzo da lui inseguita che trova in Il gioco di Henry una delle sue più concrete e visionarie realizzazioni. La trama è scheletrica, la scrittura ha un ritmo forsennato (“un'energia linguistica quasi allarmante” secondo l'opinione di Salman Rushdie), il rigore di Robert Coover nel perseguire i suoi esperimenti è totale (“Sono contento di essere un autore così controverso. E' una prova del fatto che sono vivo”) e l'idea di fondo altrimenti  non di può definire che geniale. Un personaggio così comune da sembrare trasparente (di lavoro, contabile, ascolta solo country & western) che però nella vita privata s'inventa un fantabaseball con la Universal Baseball Association, quello che poi è proprio Il gioco di Henry. Un romanzo sicuramente non facile, anzi a volte ostico e volutamente ripetitivo, perché reale ed immaginario continuano a sovrapporsi, confondendo e spiazzando il lettore. Utile, sì, in questo senso, perché Il gioco di Henry non lascia niente per scontato e sembra un punto di non ritorno della ricerca di Robert Coover, che partiva da questi presupposti: “Il romanziere utilizza forme mitiche o storiche familiari per contrastare il contenuto di queste stesse forme e per condurre il lettore verso il reale, dalla mistificazione alla chiarezza, dalla magia alla maturità, dal mistero alla rivelazione”. Con Il gioco di Henry al lettore si chiede molto, ma è anche vero che Robert Coover riesce a rispondere in modo assolutamente non convenzionale a quello che chiamava il nostro “bisogno di miti” e il nostro “bisogno di storie”. Proprio in questo romanzo trovano, nel mito (nel senso più classico del termine) del baseball e nella storia di Henry e dei suo paesaggi mentali l'espressione di quelle grandi metafore che, proprio come diceva Robert Coover, “contengono il mondo: religione, sesso, famiglia, storia, politica”. Da prendere con le pinze, ma da non trascurare, perché sono romanzi come Il gioco di Henry a scardinare e ristabilire le regole, i tempi, i ritmi della narrativa e della fiction, americana e non. 

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