lunedì 18 ottobre 2010

Denis Johnson

La mappa, in fondo, è quella di Apocalypse Now, tutto compreso: il colonnello che diventa troppo autonomo, gli americani in acido che si sparano tra di loro, la violenza e la brutalità gratuite, la CIA, gli agenti dalle mille identità segrete, volontari in missioni impossibili, piccole e inadeguate forze di pace nel vortice di un conflitto che divora tutto e tutti. L’intero catalogo dell’immaginario della guerra del Vietnam. Anche la realtà storica perché quando sul terreno erano più gli uomini in borghese di quelli in divisa, più i filosofi della guerra che i guerrieri, l'atmosfera non doveva essere molto diversa da quella che racconta Denis Johnson nelle prime pagine de L'albero di fumo. Una sorta di vacanza sperimentale, dove tutto era lecito o perlomeno tollerato perché l'intenzione dichiarata era “gonfiare le idee fino a farle scoppiare. Siamo all'avanguardia della realtà. Ai confini del sogno”. Con Denis Johnson, il Vietnam diventa un campo di battaglia psicologico, dove i risultati sul campo, le strategie, le missioni più o meno segrete si confrontano e si confondono con una guerra molto più complessa e irrisolvibile, quella tra illusione e realtà. Come dice uno dei protagonisti: “Non c'è un cazzo di differenza se vinciamo o perdiamo. Viviamo nel post-trash, bello. Sarà un eone molto breve. Nel circuito ectoplasmico, bello, dove i leader dell'umanità sono tutti collegati inconsapevolmente tra loro e con le masse, è stata presa l'unanime decisione mondiale di devastare questo pianeta e trasferirci altrove. Se lasciamo che questa porta di chiuda, se ne aprirà un'altra”. Seguire le gesta di Skip e Francis Sands o dei fratelli Houston o di Kathy Jones diventa relativo, per quanto stimolante: nel “merdaio con fuochi d'artificio” ogni ossessione, ogni paranoia vive di vita propria e nella scrittura densa e elegante di Denis Johnson si trasforma in dialoghi sferzanti, immagini vividissime e una fitta trama di legami, interpreti, comparse, personaggi, maschere, fantasmi imprigionati per sempre nei propri ruoli perché, come dice James Houston, “non è mai domani, in questo film del cazzo. E’ sempre oggi e basta”. La dimensione temporale, e quel “film” che ritorna come se ogni dettaglio fosse frutto di una costruzione fantastica, è il cuore delle tenebre che Denis Johnson riesce a stringere in pugno con una scrittura torrenziale, allucinata e psichedelica nel senso più stretto della parola. L’albero di fumo divarica in modo sensibile la consapevolezza sulla guerra del Vietnam, plasmando dagli elementi storici, geografici e politici del conflitto, una forma astratta adatta a comprendere meglio tutta la follia di quella realtà, e della realtà tout court. E’ un paradosso della letteratura e in fondo, senza alcun dubbio, la sua unica utilità. Come se il tempo si fosse fermato, come se la guerra fosse solo un’altra delle porte della percezione, come se l'orrore fosse infinito, come se il Vietnam fosse ovunque e per sempre. Un capolavoro maestoso e visionario.

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