giovedì 30 settembre 2010

Charles Willeford

James Lee Burke, suo debitore dichiarato, ha detto che se c'è qualcuno capace di spiegare come scrivere, quello è proprio  di Charle Willeford. Uno scrittore con una vita avventurosa: invece di andare a scuola, a dodici anni saltò sul primo treno di passaggio e niente fu più come prima. Quattro anni dopo si arruolò nell'esercito (un posto pieno di psicopatici, a sentire lui), si fece tutta la seconda guerra mondiale (non proprio una passeggiata) e una volta congedatosi si decise, finalmente, a scrivere. Anche in quest’occasione il destino lo guardò da lontano. Ci volle un bel po’ prima che Miami Blues, esattamente nel 1984, lo tirasse fuori dall'anonimato, con l'esordio sulle scene di Hoke Moseley, un detective improbabile e un loser eccezionale. Sarà lui il protagonista di tutta un’intera serie e, nell’episodio di Miami Blues, la nemesi di Freddie Finger detto Junior alias Ramon Mendez noto anche come Herman Gotlieb, a seconda delle carte di credito che usa. Un criminale a trecentosessanta gradi, risoluto e violento, che giunge a Miami partendo dalla soglia di San Quentin, la galera, sua ultima residenza. Una destinazione che, a prima vista, sembra essere scelta sfogliando l'elenco dei voli giornalieri, ma che diventa subito un ideale territorio di caccia. Il suo volto multiforme non mancherà di affascinare Susan Waggoner, una ragazza di provincia piovuta a Miami (“Siete venuti a Miami, ossia vi siete tuffati in questo vecchio stagno. Qui abbiamo già circa un milione e mezzo di persone, così il rumore che farà il vostro arrivo non sarà un granché”) sull'onda di una storia sordida e incestuosa. Nei convulsi pensieri di Junior lei dovrebbe accudirlo e amarlo, ma anche essere complice e partecipe. Lo scarso quoziente d'intelligenza di Susan non le farà annusare il pericolo, ma l'istinto, al momento giusto, la condurrà a trasformare il predatore in una preda. Questo scambio di ruoli e d'identità, di cui Charles Willeford dà conto in tanti piccoli intarsi narrativi, troverà protagonista, in una Miami torbida e umidiccia, Hoke Moseley, ma a questo punto non si può aggiungere molto di più perché Miami Blues è un thriller imprevedibile e “che scotta”, per dirla con Elmore Leonard, altro suo esimio ammiratore. Quello che si brucia, prima di tutti, è Hoke Moseley che, e sono proprie parole sue, finisce in una storia che “da qualunque punto di vista, era una storia di merda”. La definizione è lapidaria, ma assume un senso ben preciso perché in Miami Blues non si fanno sconti a nessuno e la vicenda, quale che sia la materia di cui è fatta, è intersecata e scheggiata da dozzine di altre meteore di immagini, personaggi, battute e inquadrature (proprio come in un film) che alla fine fanno la cifra della narrativa di Charles Willeford. Il quale, scomparso proprio a Miami nel 1988, non si nascondeva e ammetteva, a più riprese, come “la follia fosse il tema predominante e la condizione normale per gli americani nella seconda metà del ventesimo secolo”. La sua vera fonte d’ispirazione. 

mercoledì 29 settembre 2010

Tom Franklin

Il paesaggio che circonda i personaggi dei racconti di Tom Franklin è una sorta di terra di nessuno dove la wilderness tende a cancellare le impronte degli insediamenti umani. Le piante rampicanti (quel kudzu che ritorna come un refrain), il fango, la polvere non sono elementi decorativi, la cornice che delimita l’area dell’azione ma l'humus vero e proprio in cui si muovono i personaggi. Ci devono combattere, ogni giorno e ogni notte, come i Bracconieri dell'omonimo racconto, o può rappresentare un momento di estasi, come sognano i viaggiatori di Alaska o, ancora, può diventare un'epifania come succede al protagonista di Triathlon: “Non ho mai avuto una visuale così ampia e profonda, il cielo a ovest incide solchi rossi al di là dei lontani alberi azzurrini. Vedo sull'orizzonte lo svolazzo delle luci delle torri radio e delle ciminiere. Le cime degli alberi che si estendono di sotto sembrano abbastanza solide per camminarci sopra. Sarebbe facile dimenticarsi della vita che conosci là sotto, pensare a essa come fosse il fondo del mare, un luogo dove sagome scure si muovono tra colonne di luce, dove gli insiemi delle cose si spostano come nuvole”. Non si tratta soltanto di particolari, ma sono proprio le coordinate che determinano ogni singola storia, gli elementi che spiegano il contesto, il movimento dei personaggi, per certi versi anche il linguaggio, il ritmo e l'incedere della scrittura. E’ naturale che, una volta tracciato il fondale, rimangono la vita e la morte “là sotto” e sono argomenti molto, troppo umani per non sfuggirli e Tom Franklin racconta così, con un'abilità cinematografica per il dettaglio: “Ieri sera ho preso l'ascensore col mio Jack Daniel's in tasca. Lunghi e bianchi corridoi d'ospedale. Bigi pannelli di legno su cui far scorrere le dita. Rutto. Mi sono perso. Chiedo e un tipo mi indica la stanza. Sono rimasto lì impalato accanto alla porta. Poi ho bussato e sono entrato. Era più pelle e ossa del solito, una cera ancora più pallida, ma cominciò a chiacchierare come fossimo nella sua veranda e tutto filasse liscio”. Basta poco: una luce, un dettaglio, la giusta prospettiva. Senza lasciarsi abbagliare dagli strilli e dai messaggi lanciati per aria, c'è qualcosa di antico che emerge nella scrittura di Tom Franklin, qualcosa che nelle parti più oscure e vitali sembra quasi gotico, ma non è difficile intuire che dietro Alabama Blues ci sia un vero e sanguigno storyteller con il senso della storia non meno di quello del ritmo, con una spruzzata di sarcasmo che non guasta. L’esempio è nei suggerimenti che infila nell’ultimo messaggio utile per ogni loser che si rispetti: “Devi arrivare alla resa dei conti virilmente, con un po' d'onore, allontanare un bambino dai binari, restando tu stesso sotto il treno. Lanciarsi su una bomba a mano in battaglia e salvare undici compagni, roba del genere. La pistola alla tempia è una possibilità, ma allora ci vuole un bel colpo di scena”. Segnatevi il nome, potrebbe riservare delle sorprese, in futuro.

Phil Patton

Un'area grande più o meno come il Belgio. Misteriori aerei dipinti di neri che sfrecciano oltre la velocità del suono. Oggetti volanti non identificati e paranoici in osservazione giorno e notte. Esplosioni nucleari nel sottosuolo e radiazioni nell'aria. Forze speciali. Cimiteri di vecchi bombardieri e serpenti a sonagli che ricavano i propri nidi tra prese d'aria e ugelli di scarico. Quantità abnormi di denaro (pubblico) spese in nome della sicurezza nazionale (con i risultati che conosciamo) e senza alcun riscontro, bilancio o notizia ufficiale. Eppure tutto questo non esiste, non è segnato su nessuna mappa: è una terra di nessuno, un non luogo, una specie di frattura nello spazio. Dreamland, sorprendente reportage di Phil Patton, è un viaggio ipnotico, spesso surreale e onirico dentro e attorno la più segretissima e inviolabile delle basi militari americane. Quella, per inciso, dove sono stati creati i maggiori aerei spia (U2 compreso), i bombardieri invisibili (i famosi Stealth) e altri gioielli della tecnologia bellica. E' anche il luogo dove sarebbero di casa gli alieni atterrati (o schiantatisi) a Roswell, come sostengono gli youfers, ovvero gli appassionati di extraterrestri e dintorni. Un “posto che non ha limiti”, come sostiene, con un mucchio di ragioni, Phil Patton. Non è particolarmente necessario essere fissati con l'aviazione, con le pratiche militari o con gli X-File volanti (anche se, scrive ancora Phil Patton, “è utile considerare un velivolo misterioso non solo come un prodotto di ingegneria, ma anche come un fenomeno sociologico ed epistemologico”) per apprezzare Dreamland. Dietro e dentro i misteri, le teorie della cospirazione e i cieli aperti (ed è curioso scoprire cosa significa questa definizione per qualcuno), Phil Patton svela un percorso della mente (“Più ti trovi vicino alle cose, più è difficile vederle”), un esercizio di pazienza, un modello di osservazione, un paesaggio e un mondo fantastici, nel senso letterale del termine. Anche se sono dannatamente concreti. “Un tempo la mappa era vuota. Un tempo il posto era reale" scrive Phil Patton e ad un certo punto sembra proprio che Dreamland sia un capitolo sfuggito a Leggende del deserto americano di Alex Shoumatoff: un viaggio americano unico e, per tanti motivi (ci sono un sacco di cose che non sappiamo) anche attualissimo. Perché più degli aerei invisibili, dei residui alieni (e non) e di tutti i segreti che alimentano le teorie del complotto quello che colpisce nella Dreamland di Phil Patton è l’aura insieme crespuscolare e allucinante. La descrive bene in un passaggio centrale del suo viaggio: “Un giorno d’autunno sono andato in macchina a Tonopah, aggirando il sito dei test nucleari e il poligono di Nellis. Las Vegas millanta di essere la città che non dorme mai ma io ho oltrepassato centinaia di metri di nuovi condomini a ovest della città, vere e proprie comunità-dormitorio. Può sognare, una città che non dorme mai? O è l’intera sua vita alla luce del sole a essere un sogno, come quella di un giocatore d’azzardo, il sogno del colpo fortunato?”. Tra il riflesso di Las Vegas e l’oscurità del deserto, Dreamland lascia vedere un’ombra, sottile e tagliente, che si dipana sull’idea stessa di America.

venerdì 24 settembre 2010

Jim Harrison

C'è una vaga e diffusa tendenza a sottovalutare Jim Harrison: forse la sua natura estremamente riservata (preferisce andare a caccia e a pesca piuttosto che farsi intervistare) o il suo all american style tendono a dare un'immagine deforme dello scrittore e quindi della sua scrittura. In realtà resta un narratore con i fiocchi, capace di regalare personaggi che difficilmente si dimenticano e storie che vibrano dall'inizio alla fine. Nel caso qualcuno ancora non avesse avuto il piacere, è obbligatorio cominciare da Un buon giorno per morire, straordinario road movie schizzato sulla carta, dove follia e utopie si scontrano e si amalgamano con un improbabile triangolo amoroso. Ritmo a mille, dialoghi tagliati a colpi di serramanico, finale visionario: Un buon giorno per morire è l'equivalente letterario di Easy Rider, con l'aggiunta di un'ironia strisciante. Tra gli altri romanzi scritti da Jim Harrison (al pubblico femminile, in particolare, è caldamente consigliato il bellissimo Dalva), Luci dal Nord è forse il più malinconico e umorale: racconta il difficile rapporto tra Robert Corvus Strang, “un lavoratore”, già costruttore di dighe, e uno scrittore che dovrebbe narrarne gesta e leggende. Per inciso, Robert Corvus Strang è gravemente menomato da un incidente e la vita brillante che conduceva, da un posto all'altro del mondo, si è ridotta ad un bucolico sopravvivere nella wilderness dei Grandi Laghi. L'arrivo dello scrittore, (in cui, vista la dieta, non è difficile vedere anche un po' di Jim Harrison) che deve passare al vaglio la sua esistenza crea una serie di scosse telluriche nella tran tran ai margini della cosiddetta civiltà e Luci da Nord lo racconta tenendo ben presente che “la vita non è segmentata artificialmente in ciò che noi chiamiamo giorni, mesi, anni, albe, mezzogiorni, sere, notti; piuttosto la vita è scandita dai nostri stati d'animo, dalle impressioni, dai traumi, dai poteri che misteriosamente promanano dagli oggetti inanimati, dai sogni, da tutte queste cose cementate dal susseguirsi dell'amore, dell'odio e dell'indifferenza, dagli imprevedibili cambiamenti nel prisma della nostra comprensione, dal dilatarsi della passione e del desiderio che svaniscono in un momento, dissolvendosi in una sorta di inerzia, paura e indolenza”. Il confronto è articolato e spigoloso: “quelli come me sono pieni di profezie autogratificanti” dice Robert Corvus Strang e il suo interlocutore cerca di tenergli testa, variando un po’ in menù e i punti di vista (ed ecco il suo metodo per prendersi una boccata d’aria: “Mi sento meglio perché ho cambiato idea. Funziona sempre così: il cambiare idea rimuove un grumo dalla testa e ci spara dentro un po’ di ossigeno”). Il dialogo, che ha qualcosa di filosofico nel suo scorrere, riannodando le avventure e il lavoro di Robert Corvus Strang trasforma Luci dal Nord nel lato in ombra di Un buon giorno per morire: qualcuno vuol far saltare una diga, qualcuno le costruiva, tutti condividono il crepuscolo di un comune fallimento. Jim Harrison non sarà uno scrittore come Thomas Wolfe, Tennesse Williams, Saul Bellow o Lorca, Rilke, Thoreau e Shakespeare (tutti citati nei dialoghi con Robert Corvus Strang), ma con Luci dal Nord ha scritto un romanzo sull’immobilità, sulla natura (“L’unica metafora fra noi e fiumi è che neppure noi possiamo fermarci un istante”), sugli stati d'animo cercando di provare a dare un senso alle verità della vita. Con tutti i limiti delle parole e della scrittura e sapendo, come scrive in Luci dal Nord che “il mondo stesso deve andare parecchio al di là della serie delle cose che leggiamo e continuiamo a leggere su di esso”. Ci provano in pochi, ormai.

 

mercoledì 22 settembre 2010

Philip Roth

La trilogia di Philip Roth sull'America del ventesimo secolo finisce con un'ombra cupa ed enigmatica. Cominciata con il grande affresco di Pastorale Americana, seguita poi con l'interlocutorio Ho sposato un comunista, si conclude in modo egregio con La macchia umana, romanzo enigmatico e spigoloso che, oltre a definire e circoscrivere l’American Trilogy di Philip Roth, sintetizza anche tutta la natura del suo narrare e del suo scrivere. Gli eventi si svolgono in quella particolare “estate in cui il pene di un presidente invase la mente di tutti e la vita, in tutta la sua invereconda sconcezza, ancora una volta disorientò l'America”. Ogni riferimento a Bill Clinton e relative abitudini sessuali, attenzione, non è casuale: tutto comincia per caso, quando Coleman Silk, stimato accademico entra in un vortice di delirio (collettivo) e follia (privata) per aver chiamato spooky, spettri, due allievi che non si sono mai presentati alle sue lezioni. La parola che lo tradisce ha anche un risvolto razzista e, guarda caso, gli assenti sono di colore. Un doppio senso è la scintilla e nell'ipocrisia tutta Americana del politically correct un'errore così si paga all’infinito e per Coleman Silk è soltanto l'inizio. Tutti gli altri retroscena e lo sviluppi de La macchia umana è giusto che sia Nathan Zuckerman, amico di Coleman Silk e da tempo fedele alter ego di Philip Roth, a raccontarli e tocca al lettore scoprire, lentamente, l'intricata rete di emozioni, valori, impressioni, dialoghi, scelte e segreti che si nasconde nelle sue pagine. Così alla luce del romanzo che chiude la trilogia, diventano chiari anche gli intrecci del secondo, complesso capitolo, Ho sposato un comunista, che aveva il merito di contenere un po’ il succo di tutta la vicenda perché, come appunto scriveva Philip Roth per l'occasione, “forse, a dispetto dell'ideologia, della politica e della storia, ogni vera catastrofe è, nel nocciolo, sempre un patetico dramma personale”. Il secondo capitolo spiega il terzo, nel primo germogliano gli altri due e alla fine, nel complesso, offrono una monumentale possibilità per pensare, attività, come dice Philip Roth, che ormai è fuorilegge. La postilla finale è anche una (straordinaria) celebrazione della scrittura e della visione di Philip Roth quando scrive: “Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui. Nulla a che fare con la disobbedienza. Nulla a che fare con la grazia e la salvezza o la redenzione. E’ in ognuno di noi. Insita. Inerente. Qualificante. La macchia che esiste prima del suo segno. Che esiste senza il segno. La macchia così intrinseca che non richiede un segno. La macchia che precede la disobbedienza, che comprende la disobbedienza e frustra ogni spiegazione e ogni comprensione. Ecco perché ogni purificazione è uno scherzo. Uno scherzo crudele, se è per questo. La fantasia della purezza è terrificante. E’ folle”. Una trilogia che si può leggere anche come un triangolo, a partire dal suo vertice più luminoso e intenso, Pastorale americana (con Underworld di Don DeLillo, una delle poche letture davvero indispensabili degli ultimi anni del ventesimo secolo) e che La macchia umana, già nel titolo, conclude non nel migliore dei modi, ma nella maniera più adeguata, raccontando come “la nostra comprensione della gente dev'essere sempre, per forza, nel migliore dei casi, difettosa”. Nel paese della perfezione e del successo, dove una bugia a sfondo sessuale è più pericolosa di un arsenale atomico out of control, è una scoperta epocale. 

Cormac McCarthy

Alla fine John Grady Cole è arrivato da qualche parte, in una Città della pianura che ha il compito di chiudere la famosa Border Trilogy di Cormac McCarthy, cominciata da Cavalli selvaggi e salita a livelli di assoluto lirismo in Oltre il confine. Tutta l'epopea della frontiera trova in Città della pianura una sorta di definizione antologica e panoramica di tutte le contrapposizioni tipiche della scrittura di Cormac McCarthy: ci sono le due lingue (l'inglese e lo spagnolo) che si alternano nei dialoghi, dando alla narrazione un ritmo unico;  ci sono gli uomini e gli animali, a volte addomesticati, a volte selvaggi, sia che si tratti dei primi che dei secondi; ci sono frammenti straordinariamente legati alla terra e alla natura e percezioni spiritate; c'è l'amore (che sembra lo spunto per concludere l'intera trilogia) e c'è la violenza; c'è il deserto e ci sono le Città della pianura. Fedele al suo compito conclusivo, il romanzo sembra contenere un po' sfumature di tutti i libri di Cormac McCarthy (compresi quelli estranei alla Border trilogy: per esempio, i racconti della rivoluzione messicana potevano stare benissimo in Meridiani di sangue e certi oscuri personaggi vivere a loro agio in Il buio fuori) e usa il confine, il border per unire, più che per dividere, perché John Grady Cole scopre l'amore e i suoi tormenti e, chissà, forse diventa uomo. L'immagine che rende l'idea è un passaggio che funziona da cardine in Città della pianura ed è anche un bell'esempio della magnifica scrittura di Cormac McCarthy: “Nell'alba fredda le luci erano ancora accese, laggiù, sotto la sagoma scura delle montagne, e contribuivano a creare quell'impressione di preziosa insularità comune a tutte le città del deserto. Un uomo camminava con un mulo stracarico di legna da ardere. In lontananza, le campane delle chiese avevano cominciato a suonare. L'uomo gli lanciò un sorriso d'intesa. Come se fra loro ci fosse un segreto, solo fra loro due. Qualcosa che aveva a che fare con l'età e i giovani e le loro richieste e quanto c'era di giusto in queste richieste. E nelle richieste che gli altri facevano pesare su di loro. Il mondo passato, il mondo a venire. La precarietà che condividevano. E sopra ogni cosa una profonda, profondissima consapevolezza del fatto che bellezza e perdita sono tutt'uno”. Questo vale anche per la Border Trilogy: Cavalli selvaggi e Oltre il confine sono stupendi (soprattutto il secondo), ma la loro bellezza andrebbe perduta senza Città della pianura, che li ha rischiarati di una nuova, vivissima luce. Lo schema del viaggio, con la stessa progressione del volto di Borges, prende la forma di un disegno della vita, ma, come si legge nella liricissima coda finale di Città della pianura “la nostra mappa non sa nulla del tempo. Non ha la capacità di parlare nemmeno delle ore implicite nella sua stessa esistenza. Non di quelle che sono trascorse, non di quelle a venire. Eppure nella sua forma conclusiva la mappa e la vita che essa rappresenta devono convergere, perché lì il tempo finisce”. E’ tutto quello che sappiamo, “eppure è tutto ciò che abbiamo”. Un momento, un ricordo, un frammento, un punto di domanda sul labile border della vita.

martedì 21 settembre 2010

William Least Heat-Moon

La gamma di viaggi presentata da William Least Heat-Moon si completa con un capitolo che va a chiudere un'ipotetica trilogia sul paesaggio americano. Prima le Strade blu alla scoperta di territori marginali e dimenticati, poi lo sguardo in profondità di Prateria e infine il fiume solcato dal Nikawa: punti d'osservazione e viaggi radicalmente diversi che per molti versi si completano e s'incastrano uno nell'altro. Racconta William Least Heat-Moon proprio all'inizio del suo Diario di bordo di una navigazione attraverso l'America: “Vent'anni fa avevo già percorso così tanti chilometri di strade americane che sapevo ormai in agguato il giorno in cui non avrei più potuto prendere il volo verso posti nuovi”. Se non cambia l’America, ci si può inventare un altro modo di vederla e infatti William Least Heat-Moon continua scoprendo sulle mappe un altro tracciato blu: “Fu allora che notai la ragnatela di linee azzurro pallido che ricamavano il mio atlante come vene varicose. Erano fiumi. Cominciai a seguirle col dito quelle contorsioni, alla ricerca di un modo per attraversare l’America in barca. Dapprima fui semplicemente curioso di sapere se fosse possibile o meno effettuare un simile viaggio senza uscire dall'acqua troppe volte e per tratti troppo lunghi ma poi presi a pensare con interesse crescente a come sarebbe apparsa l’America vista dai fiumi e a desiderare di poter osservare quei luoghi segreti nascosti a chi viaggia sulle strade”. Un’idea facile, in apparenza. La vita dentro il fiume, però, richiede un'attenzione e una dedizione totali che un uomo solo, per quanto esperto viaggiatore come William Least Heat-Moon, non può permettersi. Ecco quindi che Nikawa (dal nome della barca utilizzata per questo lunghissima odissea fluviale) diventa l'eccezione: un'intera squadra di assistenti (che lui chiama al singolare, con il curioso nome di Pilotis) condivide le gesta di William Least Heat-Moon e lo accompagna nel suo attraversare l'America dal punto di vista privilegiato del fiume. Forse è solo un modo come un altro per attraversarla, dopo il furgone di Strade Blu e i saccheggi bibliotecari di Prateria. In realtà Nikawa conquista a pieno titolo il ruolo di elemento conclusivo di una trilogia dedicata al viaggio, al paesaggio, al rapporto con l'uomo dove l’America è del tutto casuale, per quanto significativa. Anche William Least Heat-Moon, come scrittore, emerge distintamente: se le cinquecentocinquanta pagine di Nikawa sembrano troppe è solo perché la vita di un fiume non è così semplice da descrivere. Anche per un viaggiatore del rango di William Least Heat-Moon. Nell’affrontare la corrente sembra affidarsi all’intuizione primaria e fondamentale di James Agee: non si può personificare un fiume, che lui comprende fino in fondo perché intuisce che “il fiume, caso unico nella natura, costituisce da sé la propria destinazione”. Il suo viaggio sull’acqua, un elemento già fluido e turbolento, è complicato dal fatto che “seguire un fiume significa entrare a tutti gli effetti nel territorio, perché il fiume segue l’andamento del terreno senza eccezioni” e il ritratto dell’America vista dalla corrente è ancora più vivido di quella attraversata con le Strade blu. Imperdibile. 

Hunter S. Thompson

In questi diari di “paure e deliri” che risalgono al 1979, nella prima parte, una specie di introduzione al folle mondo di Raoul Duke alias Hunter S. Thompson, è dedicata alla caccia allo squalo anche se lui in realtà va alla ricerca di molto altro (comunque, abbastanza pericoloso pure quello) e tra una fuga e una sbronza si riflette in “una scena di decadenza totale nella quale mi sentivo perfettamente a mio agio”. Inviato da Rolling Stone, all’epoca una rivista che aveva ancora un senso, Hunter S. Thompson affronta poi un bel reportage bel reportage su Cassius Clay alias Muhammad Ali dove sfodera tutto il suo talento nel costruire immagini e personalità girovagando per galassie e galassie di parole e mischiando argomenti sportivi e politici. Puntellando spesso le sue acidissime disgressioni con piccole, brevi e fulminanti citazioni tratte dai migliori rock’n’roll songwriting dell’epoca (Allman Brothers, Marshall Tucker Band, Doug Sahm e John Prine) Raoul Duke attraversa (più o meno) indenne i lati oscuri e selvaggi del Super Bowl per inoltrarsi nella vera “grande caccia allo squalo” ovvero il Watergate. La metafora è suggerita dallo stesso Hunter S. Thompson quando ancora si barcamena nelle acque caraibiche cercando di reggere la sua dieta quotidiana di alcol, acidi e follie: “E quel che penso della politica statunitense più o meno rispecchia quel che penso della pesca d’altura, dell’acquisto di terra a Cozumel o di qualsiasi altra cosa in cui i perdenti si dimenano in acqua agganciati a un amo”. Tornato a casa, in modi a dir poco rocamboleschi, Raoul Duke viene mandato dai suoi redattori a seguire gli scontri istituzionali che dal Watergate in poi portarono alle dimissioni di Richard M. Nixon alias Dicky Tricky. La prima impressione è (sempre) quella che conta: “Era uno spettacolo inquietante: l’impero nixoniano, apparentemente invincibile meno di due anni fa, stava crollando davanti ai nostri occhi sotto il proprio orrendo peso. Impossibile negare le enormi implicazioni storiche di quella vicenda, ma seguirla quotidianamente era una esperienza noiosa e degradante che era difficile restare concentrati su quel che stava realmente accadendo. Sostanzialmente era una storia adatta agli avvocati, non ai giornalisti”. Dato che Hunter S. Thompson non è mai stato un reporter molto rispettoso delle regole, piuttosto uno scrittore visionario e lucidissimo nello stesso tempo e in qualche modo persino profetico sviluppa nei confronti del Watergate (e del suo principale protagonista) un’ossessione che lo spinge ad affrontare i protagonisti in modo brutale. La sua indignazione funziona a fasi alterne (inevitabile visto il suo tran tran quotidiano), ma non ha radici nelle passioni politiche o nella coscienza civile, nonostante l’orrenda natura delle congiure, dei mercanteggiamenti, delle falsità che hanno distinto l’occupazione delle istituzioni democratiche da parte dell’amministrazione Nixon. Quello che infastidisce Hunter S. Thompson nei suoi nemici pubblici è come “l’ingenua scelleratezza del loro linguaggio appare tanto inquietante quanto gli scellerati complotti che sono seguiti”. Nonostante i “deliri” e le “paure”, preciso, puntuale e, purtroppo, ancora attuale, e non solo per gli Stati Uniti d’America.

mercoledì 8 settembre 2010

Dave Eggers

Zeitoun ha due o tre problemi fondamentali: il primo è che le sue origini sono siriane ed è musulmano, due dettagli che nell’America del ventesimo secolo equivalgono a trasformarlo automaticamente in terrorista; il secondo è che, nella New Orleans travolta dagli uragani Katrina e Rita, non ha voluto lasciare la città confidando nelle sue forze e nelle sue risorse, e cercando a tutti i costi di rendersi utile. Il terzo, ed è il più complesso, è che Zeitoun crede e spera davvero nell’american dream. Lavora sodo, studia, sostiene la famiglia, produce e acquista, insegue la prosperità e la felicità. Per Zeitoun “una famiglia numerosa, un’attività di notevole successo, una vita così perfettamente inserita nel tessuto sociale della loro città adottiva da permettergli di avere amici in ogni quartiere, e clienti quasi in ogni isolato, tutte quelle cose sembravano una benedizione divina”. Continua a crederci anche con New Orleans immersa nel fango e i suoi abitanti confinati in strutture allucinanti e in condizioni miserevoli, abbandonati da tutto e da tutti, governo in primis. Anche con New Orleans diventata una terra di nessuno dove i ladri e gli sciacalli imperversano impuniti mentre le persone innocenti vengono arrestate, incarcerate e seviziate senza alcun motivo. E’ ancora lì a crederci quando la città viene invasa e occupata da migliaia di uomini armati: agenti di polizia da ogni angolo della nazione, soldati della guardia nazionale, mercenari, contractors, forze speciali, sceriffi. Dovrebbero garantire la sicurezza e la giustizia e invece diventano un’altra massa violenta e incontrollabile nel caos di una città fantasma. Zeitoun viene arrestato (a casa sua), perquisito, imprigionato. La sua unica colpa è quella di essere rimasto a New Orleans, con la sua canoa, con l’idea di rendersi utile e in cambio i presunti rappresentati della legge degli Stati Uniti d’America negano tutti i principali diritti civili, giuridici, umani, naturali. Neanche un minimo di compassione. La ricostruzione di Dave Eggers è coinvolgente, toccante, minuziosa, premurosa: una toccante inchiesta virata con il linguaggio della narrativa. Non ci sono accuse, polemiche e falsi moralismi che reggano davanti a “un disastro di proporzioni e gravità mitologiche”, però c’è un’attenzione molto accurata alla ferita che gli uragani Katrina e Rita hanno aperto, a New Orleans e nel resto dell’America perché “nessuno metteva in discussione il fatto che la città fosse in preda al caos, ma adesso ci si cominciava a chiedere da dove tale caos avesse avuto origine”. La domanda che Zeitoun si pone attraverso Dave Eggers è essenziale, chiara, precisa. Persino indispensabile: “Era così felice in quel paese, ammirava e amava così tanto le opportunità che esso offriva, e allora perché a volte gli americani non di dimostravano all’altezza?”, e la risposta soffia ancora nel vento che ha divelto gli argini e distrutto New Orleans. Alla fine, Zeitoun se le trova da sole, con la stessa, semplice forza con cui avrebbe voluto difendere la sua città, e chissà il suo sogno: “Tante piccole cose avrebbero potuto essere fatte. Tante persone hanno permesso che succedesse. In tanti hanno guardato altrove. Quando in realtà basta una persona sola, un piccolo gesto, per uscire dal buio e tornare verso la luce”. Più che un libro, Zeitoun è un atto di civiltà.

mercoledì 1 settembre 2010

Larry Brown

“Non c’è niente di più importante del fallimento” ha detto una volta Bob Dylan e la frase si adegua alla perfezione per presentare il breve romanzo di Larry Brown. 92 giorni è un’elegia del fallimento, ma non nasconde nulla, non s’inventa una (falsa) mitologia da “loser”, mette sul piatto un niente che è livido e brutale nella sua franchezza. Senza alcuna concessione di sorta, a partire dal memorabile incipit, quattro righe che svelano tutto il (breve) romanzo: “Monroe venne a trovarmi un giorno, poco dopo il mio divorzio. Aveva portato un po’ di birra. Ero felice di vederlo. Ma, soprattutto, ero felice di vedere la sua birra”. Il protagonista di 92 giorni prende un “downbound train” lanciato a tutta velocità e nella più totale autoindulgenza non vede nemmeno arrivare il capolinea. Scrittore in crisi, uomo spezzato nei legami più intimi, trasforma la propria vita in un manuale dell’autodistruzione e Larry Brown è capace di trasformare il nichilismo insito tra le righe in una sorta di romanticismo bohemmienne, una forma di narrazione aspra, ruvida e incontinente nello scaricare sul lettore le tristi emozioni del protagonista. Travolto da un fiume di alcol e dall’incapacità di venire a patti con i propri “lati oscuri”, il protagonista di 92 giorni si costruisce un’identità da fottuto perdente che, al saldo delle trame psicologiche, è soprattutto una scappatoia dalle responsabilità e dalla realtà, peraltro ammessa con un certo candore: “visto che avevo scelto di essere un miserabile, volevo essere un miserabile a tempo pieno”. La sua vocazione per la sconfitta si scontra con le lettere di rifiuto e l’ostracismo del mercato editoriale, ma più di tutto con la sua autoindulgenza a cui è affezionato in modo particolare: “Avevo un posto dove stare. Avevo un letto, una sedia, qualche libro e dei dischi. La prima notte l’unica cosa che riuscii a combinare fu rimanere seduto a osservare un foglio di carta bianco. La notte successiva, la stessa cosa. Non mi veniva niente. Sapevo di aver perso l’ispirazione. Avrei dovuto passare il resto della vita a verniciare case. La terza notte, buttai giù un paragrafo con la macchina da scrivere e lo cestinai subito dopo. La quarta notte iniziai un nuovo racconto”. La scrittura stessa diventa una chimera: le sue idee, i suoi soggetti (c’è da pensare anche lo stile) diventano sempre più astrusi e i rifiuti editoriali sono solo l’altra metà dell’inettitudine e del tempo perso. Anche perché Larry Brown smonta pezzo per perzzo il consunto cliché dello scrittore che beve per scrivere, che distrugge invece di creare, che finisce nei pozzi più orridi della vita invece di raccontarli (e basta). La realtà è un’altra e lo sa il protagonista di 92 giorni come lo sa (molto meglio) Larry Brown: “Se vuoi scrivere, devi cercare di chiuderti in una stanza e scrivere”. Senza birra, e magari con qualche idea in più. Non ci sono sconti di sorta: il fallimento si paga e alla fine l’alcol e le droghe non sono nemmeno gli eccessi caotici (e, volendo, divertenti) ma solo il triste doping di una caduta inarrestabile, una decadenza umana univoca, puntellata da rari momenti di commozione, ma in fondo anche con una certa dignità: “Non c’era nulla che potessi fare se non andare avanti. Avevo già fatto tutte le mie scelte”. Un piccolo libro, duro e grezzo come un diamante: bello e scomodo, come a suo tempo aveva capito (e apprezzato) lo stesso Dylan.