venerdì 6 agosto 2010

Kurt Vonnegut

L'uomo senza patria è un Kurt Vonnegut crepuscolare che racconta la sua America e il suo mondo senza nascondersi nemmeno per un istante dietro le righe o nelle pieghe della sua abilità di cambiare registro da un momento all'altro. “Qualche altro giorno, e poi tanti saluti” è il suo addio, che in realtà qui funziona come un saluto iniziale perché, ormai superata la boa degli ottant'anni, Kurt Vonnegut può legittimamente pensare di essere al capolinea e di trovare un accordo, soprattutto con se stesso, per la “comica finale” della vita. Invece ne ha ancora per il mondo intero anche se paradossalmente fa di tutto per far uscire dalla sua penna caustica più i motivi delle sue passioni che dei suoi risentimenti. Scrive un'elegia, breve ed essenziale, del blues (“La cura più indicata per l'epidemia mondiale di depressione è un dono che prende il nome di blues”), mette in chiaro cosa significa essere un artista dei nostri tempi (“L'arte non è un modo per guadagnarsi da vivere. Ma è un modo molto umano per rendere la vita più sopportabile”), prova ancora una volta a ricordare il palliativo della letteratura (“Volevo che tutto sembrasse sensato, così che ognuno potesse essere felice, sì, anziché angosciato. E ho inventato bugie che si incastrassero per benino e ho reso un paradiso questo mondo meschino”), dettando e trasgredendo i comandamenti a modo suo (“Ecco: ho appena usato un punto e virgola, che in principio vi avevo detto di non usare mai. L'ho fatto per chiarire un concetto importante, e cioè che le regole, anche quelle buone, sono utili fino a un certo punto”). Tutto intervallato da frammenti di vita privata (la sua battaglia contro il fumo), slogan coloriti (“L'evoluzione è veramente creativa. E' così che ci siamo ritrovati con le giraffe”), le solite tonnellate di ironia e una lucidità ancora perfettamente intatta. E' inevitabile che lo sfondo dell'America di oggi sia il bersaglio preferito degli strali di Kurt Vonnegut, ma il suo non è un attacco frontale, denigratorio, cruento. Vonnegut è un “good american” che crede nelle arti e usa le parole con l'equilibrio e la saggezza di chi cerca ancora la verità perché “In effetti la verità può avere un potere enorme. Perché uno non se la aspetta”. Un uomo senza patria non è il primo e si spera naturalmente non sia l'ultimo capitolo autobiografico di Kurt Vonnegut, anche se tutto sommato è il più brillante. E' utile però ricordare  Destini peggiori della morte e anche Divina idiozia che ha più di un'affinità con Un uomo senza patria. Dove tra l'altro, a proposito dell'America, della guerra e del crepuscolo (che è di tutta una civiltà, non solo di Vonnegut) scriveva: “Poco importa chi abbia mentito. Dovremmo chiudere tutti la bocca per un po’. Lasciate che la nostra armata ritorni a casa avvolta in un silenzio di morte”. Era perfetta nel 1971. E' perfetta oggi. Qualcosa, in mezzo, non deve essere andato per il verso giusto.

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