venerdì 6 agosto 2010

Bill Morris

Nella città delle catene di montaggio, gli opposti si compongono. Se per qualcuno il Detroit sound è solo Gibson e Marshall, per qualcun altro è soltanto Marvin Gaye. Due estremi di un mosaico complesso, perché nella Motor City raccontata da Bill Morris nell'omonimo romanzo, c'è veramente di tutto e di più. Ornette Coleman, Elvis Presley, Miles Davis, Smokey Robinson, Ike Eisenhower e la moglie, Vladimir Nabokov e Lolita, Jack Kerouac e Neal Casady: una valanga di personaggi che sono altrettanti clichés della cultura popolare americana s'incastrano in una trama che è un po' spy story e un po' romanzo storico. Il cuore è, come non poteva essere diversamente, nella General Motors, la città nella città: sullo sfondo degli anni Cinquanta un gruppo di disegnatori, il capo divisione, il suo addetto stampa nonché altri dirigenti prezzolati, sono impegnati a tamponare una fuga di progetti delle nuove automobili. E' solo una chiave di accesso per aprire le porte della Motor City: difficile, e poco utile, dipananare la trama e più facile lasciarsi andare seguendo i vari Will Lomax, Ted Mackey, Claire Hathaway, Norm Sleski, Harvey Pearl (e molti altri ancora). Manie, ambizioni, fortune, disastri, nostalgie si intersecano e si sommano come se la città fosse veramente un'enorme metafora della catena di montaggio e dell'industria automobilistica, che assorbe ogni pensiero e tutte le vite, così come la descrive uno dei personaggi di Motor City: “C'erano gli specialisti del coprimozzo, gli specialisti del cruscotto, gli specialisti del paraurti. E anche se, magari, ogni disegnatore aveva dato solo un piccolo contributo all'automobile finita, erano tutti personalmente molto fieri dei risultati che avevano raggiunto. Quella decorazione del cofano è mia, dicevano, oppure: Questa inclinazione del parabrezza è opera mia. Morey non ci aveva mai pensato prima di allora. Aveva sempre creduto che le automobili uscissero complete dalla mente di qualcuno, come un pulcino da un uovo. Invece, le automobili erano frutto del lavoro manuale di decine e decine di disegnatori di carrozzerie che lavoravano duramente per settimane, mesi, addirittura anni, sotto scadenze rigide e luci bianche violente. Morey aveva imparato da tempo che le due cose che uno di solito preferisce non vedere mentre le fanno sono i salumi e le leggi. In quel momento aggiunse alla lista le automobili”. La fabbrica diventa una città; la città si allarga fino a comprendere i sogni di una nazione; l'America, di questo stiamo parlando, diventa il mondo attraverso il rock'n'roll (e tutti gli altri suoni di Detroit), Miles Davis, Marylin Monroe e l'ultimo modello di automobile. E' la nuova Buick Century la vera protagonista di Motor City : un mito che diventa realtà a forza di giornate lavorative che durano sedici ore e finiscono regolarmente in birra e whiskey e in una solitudine complessiva di chi sacrifica la propria esistenza ad un sogno imposto dalle evenienze. Bill Morris, senza confondere il senso della storia con le sfumature storiche, inventa un romanzo che si consuma allegramente come uno spudorato rock'n'roll album, ma che contiene anche un chiaro quadro antropologico e politico della limitatezza delle basi culturali americane. Almeno quelle di chi sosteneva che quello che va bene alla General Motors, va bene all'America. Abbiamo scoperto che non è proprio così, e non solo nella Motor City di Bill Morris.

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