venerdì 30 luglio 2010

Charles Willeford

Come nella tradizione cara a tutti i produttori di Hollywood, la storia de Il cacciatore di donne si può riassumere in meno di tre righe: un uomo si convince che il suo futuro è diventare regista e getta nell'impresa tutta la sua vita. Anche la logica che spinge Richard Hudson, il protagonista del romanzo di Charles Willeford, si può condensare nello stesso, sintetico spazio, quando ammette lui stesso: “La realtà fa schifo. I sogni sono meglio, fanno sì che valga la pena vivere”. Inseguendo il miraggio californiano, Richard Hudson (gestisce una concessionaria, ma essendo a Los Angeles il suo vero sogno è entrare a Hollywood e non uscirne più e con l'idea di diventare un grande regista trasforma i suoi progetti per un film in un'ossessione devastante) si lascia trascinare da una confusa vocazione creativa, da un entusiasmo univoco e soprattutto da un ego magniloquente che lo rifornisce di certezze tutte da verificare. Ad un certo punto si convince che “quando un uomo conosce la verità non ha più bisogno di cercarla” ed è inutile aggiungere che la sua verità è tutta nel film che vuole dirigere sfidando i luoghi comuni degli studios, i sindacati degli attori e dei musicisti e tutti gli specifici cliché californiani, dal produttore onnipotente alla dattilografa con la sua brava utopia da sceneggiatrice. Pur essendo tratteggiata con destrezza dalla voce scaltra e “pop” di Charles Willeford, la dozzina di personaggi che circonda Richard Hudson sembra fatta apposta per fare risaltare il lato cinico e disperato di un uomo che non si convince né dei traguardi raggiunti né dei suoi fallimenti e ad un certo punto dice: “In qualche tratto di questo percorso scoprirò forse il punto preciso, o il momento critico, o l'errore, mio o di qualcun altro, oppure scoprirò che cosa mi è esattamente successo”. Sarà già troppo tardi e Charles Willeford infilando un paio di colpi scena, prevedibili fin quanto si vuole, ma molto efficaci, lo conduce a scoprire tutto un altro destino. Tra le righe, la gestazione del soggetto e della sceneggiatura del sogno creativo di Richard Hudson fornisce tanti piccoli consigli da sembrare quasi un manuale di scrittura nascosto nel romanzo. Si comincia con l'inevitabile incubo della pagina bianca (“Devi star lì a riempire fogli di carta con qualcosa di convincente”) e si finisce con l'unico consiglio possibile e utile, che Richard Hudson si sente spiegare da uno dei suoi solerti impiegati: “Riscrivere. Cominci a scrivere una parola alla volta, quando hai abbastanza pagine, hai qualcosa da leggere, hai anche qualcosa da correggere. Dopo averlo rivisto più volte, avrà in mano qualcosa di abbastanza buono. La scrittura è sempre così e non potrebbe essere altrimenti”. Charles Willeford al meglio, Hollywood in una luce bruciante e un romanzo che scorre come una lunga ballata.

Kurt Vonnegut

Al primo impatto, e la prefazione di Mark Vonnegut non aiuta a fugare il dubbi, sembra il “solito” libro postumo, un lavoro di bricolage che mette insieme frammenti di discorsi, racconti, tagli, ritagli e frattaglie di varia provenienza per farne un ricordo più o meno solido. Ma Kurt Vonnegut non è stato uno scrittore di passaggio e oltre ad un congedo già memorabile di suo (“E grazie per l'attenzione. Io vado”) lascia trovare nel suo cassetto un pugno di racconti che ruotano attorno al bombardamento a tappeto di Dresda e alla sua prigionia: l'assemblaggio con altri scritti e parlati sembrerà posticcio, ma a tutti gli effetti produce un'efficace coda a Mattatoio n. 5, il suo capolavoro. L'intento non è dichiaratamente pacifista perché sono note le anarcoidi posizioni di Kurt Vonnegut e il suo lucido disincanto (“Come se ci fossimo presi a torte in faccia” ha detto del movimento di protesta contro la guerra del Vietnam) ma alcuni passaggi di questi inediti hanno una forza tale da alimentare un qualche focolaio di disgusto. Corsi e ricorsi storici sui modelli esportati dall'America sui propri aerei valgono fino ad un certo punto perché i collegamenti tra un secolo e l'altro non sempre funzionano con coerenza (o come dice Kurt Vonnegut: “Trovarsi nel raggio di quella macchina del tempo era un misto di queste tre cose: avere l'influenza, portare occhiali bifocali fatti per qualcun altro che non ci vedeva bene ed essere dentro una chitarra. Finché non la miglioreranno, non sarà mai né sicura né popolare”), anche se orrori e disastri si ripetono con una puntualità tanto idiota quanto malefica. La forza della testimonianza di Kurt Vonnegut va cercata altrove, però: nella sua attenzione maniacale nello schivare i luoghi comuni, le frasi fatte, le prese di posizione preconfezionate. Anche sull'essenza strategica e politica del bombardamento di Dresda (uno degli episodi più atroci della seconda guerra mondiale) il modello scelto da Kurt Vonnegut è quello di un taglio in profondità, molto acuto e denso. La scelta è chiarissima, la critica è esplicita, ma quello che fa testo, nel vero senso dell'espressione, è il meticoloso lavoro di Kurt Vonnegut nel raccontare la città incendiata, disintegrata e impolverita, come se stesse scavando con le sue mani tra le macerie e tra i corpi carbonizzati per trovare le parole adatte. Questo è il lavoro di un grande scrittore che, tra un addio e l'altro, non ha mai smesso di schivare la morte e la vita con quell'ironia brulicante d'intelligenza che l'ha sempre distinto. Permettendosi anche di violentare la banalità del suggerimento ai neofiti, così fosse soltanto per puro divertimento: “Il mio consiglio agli scrittori esordienti? Non usate il punto e virgola! E' un ermafrodita e non rappresenta un bel nulla. L'unica cosa che suggerisce è che forse hai fatto l'università”. Sistematelo accanto a Mattatoio n. 5, rileggetelo spesso. 

Theodore Sturgeon

Nella migliore della tradizione dei romanzi di Theodore Sturgeon, il protagonista è un freak, un diverso, un alieno per quanto umanissimo nel dolore, nell'emarginazione, nella sua solitudine. Il suo nome è George Smith, ma con il consueto gusto di richiamare immagini inequivocabili lo scrittore americano gli impone il nome d'arte di Bela, come Bela Lugosi, l'impersonificazione stessa dell'orrore. La necessità quotidiana di Bela la si può magari intuire tra il suo nomignolo e il titolo stesso del romanzo, ma Theodore Sturgeon è uno scrittore troppo acuto per mettere tutto in tavola con la prima portata e allora costruisce l'identikit di Bela (che ha una personalità succulenta per qualsiasi strizzacervelli) per gradi, cominciando un po' defilato, ovvero dal carteggio di due analisti dell'esercito americano che si ritrovano a discutere di un caso particolarmente incredibile di deformazione mentale. Inutile aggiungere che il nocciolo della loro discussione epistolare è proprio Bela, che viene riconosciuto malato (“psicosi, non classificata”) e identificato quale “pericoloso, violento” per un semplice pugno proprio nel mezzo di una guerra. Non è chiaro di quale guerra si stia parlando anche se alcuni dettagli suggeriscono possa essere il conflitto coreano, ma non è questo il punto, perché una guerra non manca mai. Il vero oggetto del contendere è la biografia di George Smith e soprattutto i motivi per cui la sua esistenza non s'incastra con la disciplina dell'esercito e, più in generale, nell'ordine o nel caos del mondo. Si scoprirà che George Smith alias Bela è più a suo agio tra gli alberi e gli animali (memorabili le pagine in cui Theodore Sturgeon descrive la sua attitudine alla caccia) e più in generale nella wilderness americana. Ci si inoltrerà in un'intelligenza istintiva che coltiva la sopravvivenza come un'arte quotidiana e una somma di esperienze a lunga scadenza (“Si rese conto che tutto ciò che vive nel mondo assimila delle cose in sé poi le elabora e poi elimina quello che non gli serve. Qualunque cosa stia facendo, un essere vivente si mantiene in vita grazie a questo processo. Assimilare e poi elaborare e poi eliminare gli scarti”). Sarà una sorpresa vedere Bela accettare comodamente le rigidità della disciplina, prima in un riformatorio e poi nell'esercito, perché almeno garantiscono un piatto caldo. Sono dettagli fondamentali perché come molti personaggi di Theodore Sturgeon anche Bela comunica con una varietà di sistemi (non ultima la sua abilità manuale), ma sembra scansare il normale linguaggio perché, sembra di intuire, è la prima causa della sua e nostra solitudine. Le parole non bastano ad alimentare l'anima: è solo finzione dice Theodore Sturgeon, però sanguina.

Richard Brautigan

Si parte dall’assenza di due donne, ma poi il diario di viaggio diventa uno sguardo insieme pubblico e privato, un lungo voltarsi verso l’imminente crespuscolo, dopo la stagione dei fiori, dell’amore, dei sogni e della psichedelia e prima del grande freddo. L’addio di Richard Brautigan a questo mondo crudele ha la forma, nella sua stessa descrizione, di “una cartina-calendario che segue l’esistenza di un uomo per un periodo di qualche mese, per cui non credo sia giusto pretendere la perfezione, sempre che esista. Probabilmente le cose più vicine alla perfezione sono quegli enormi buchi completamente vuoti che gli astronomi hanno scoperto di recente nello spazio. Se davvero non c’è niente, com’è possibile che qualcosa vada storto?”. Arrivati a questo punto ci si è già persi nel suo bulimico masticare parole su parole e ci si è già lasciati alle spalle anche le spicciole coordinate narrative della trama di Una donna senza fortuna, che comunque il lettore di buona volontà non faticherà a trovare e a ricostruirsi da solo. Qui conta più ricordare che Una donna senza fortuna è l’ultimo romanzo di Richard Brautigan (e tra le righe si percepisce una netta e lancinante malinconia: “La mia vita è praticamente priva di dinamiche ormai da più di un anno e continuo a impiegare troppo tempo per fare cose semplicissime e il mio cuore è come una colonia sulla luna popolata da una specie unica di stalattiti apparentemente prive di transizioni”) che è stato un personaggio vissuto, cresciuto e rinomato nell’era di Easy Rider e da cui non è riuscito ad affrancarsi. Forse per non vedere il nulla che è seguito. Forse per conservare intatti i propri (e altrui) sogni. Forse perché la sua “cartina-calendario”, per ingenua che fosse, non prevedeva di sostituire la parola utopia con rimpianto. Sono proprio i luoghi che vengono a mancare, a partire dalla nazione che, proprio allora comincia a contorcersi su se stessa, come intuisce Richard Brautigan: “Gran parte d’America, comprese quelle città che un tempo erano splendide e incontaminate, dà l’impressione di essere stata travolta da Los Angeles, come il rigurgito di un cesso i cui escrementi hanno tutti a che fare con lo stile di vita dell’automobile”. Al viaggiatore della mente, all’esploratore psichedelico non resta altro se non “passare da un posto all’altro, ma questo non semplifica affatto le cose. L’unica cosa che puoi fare è augurargli buona fortuna e sperare che abbia un’idea di quanto gli sta inevitabilmente accadendo”. Arrivato a questo punto Una donna senza fortuna diventa quasi un presagio e insieme un’intima confessione che Richard Brautigan risolve in una sorta di ambiguo commiato: “Così mi avvio a concludere questo libro, che parla essenzialmente delle cose che conosco, dell’evidenza, spesso dolorosa dei fatti. Se mi si può credere, e si sa che gli scrittori sono notoriamente dei bugiardi, vorrei dire che l’unica rilettura che ho fatto di questo libro è stata per scoprire a che punto ero ogni volta che mi sono interrotto e mi sono perso nelle molte pause che ci sono state, talvolta brevi, altre volte più lunghe e penose”. Avesse scambiato la parola libro con vita, avrebbe detto la verità.

Hubert Selby Jr.

Censurato, bandito, processato e poi spesso e volentieri emarginato, Hubert Selby Jr. ha trovato più spesso asilo e comprensione nell'universo del rock'n'roll che non in quello della letteratura. Per un motivo molto semplice: i bassifondi che ha esplorato, dove “ogni giorno che passa, a ogni passo, a ogni respiro, la città diventa sempre più selvaggia”, sono gli stessi che hanno cantato Lou Reed (che è anche un suo dichiarato ammiratore) e Jim Carroll e Johnny Thunders. La vita in un buco, l'esilio dell'eroina, la frenesia della street life, la disperazione e la follia: girovagare in quel genere di territori implica un coinvolgimento che non è facile risolvere, e poi bisogna mettere in conto che per il novantanove per cento del mondo, è meglio non saperne niente della giornata di un junkie. Hubert Selby Jr., sfidando la maggioranza silenziosa e le sue ipocrisie, nel 1964, già all'epoca dell'uscita di Ultima fermata a Brooklyn aveva colto perfettamente l'atmosfera cupa, violenta e crudele della vita metropolitana. Un giungla dove non c'è fondo, non c'è alcuna possibilità di redenzione, non c'è poesia e è per questo che il suo limite è la sua grandezza. Un linguaggio crudo, monocorde e volgare, che non concede nulla alla metafora o alle aspettative, anche legittime, del lettore. La sua scrittura è una specie di reportage dalle strade di New York, una panoramica ad orecchie ed occhi completamente aperti (e non è un caso che i suoi libri siano arrivani regolarmente al cinema, buon ultimo anche Requiem per un sogno), senza aver paura di cosa si possa sentire o vedere. Una discesa negli inferi che ha in Requiem per un sogno uno dei suoi capitoli più importanti, perché raccontando i tortuosi percorsi di Harry, Tyrone, Sara e Marion, la loro rincorsa alla dose quotidiana, i sogni bagnati di sudori freddi e la violenza di tutto il sottosuolo umano (dagli spacciatori ai poliziotti) che gli sta attorno, Hubert Selby Jr. tocca con mano la decadenza, la spirale verso il nulla della dipendenza e della vita nella parte sbagliata della strada: “Era un processo graduale, come la maggior parte delle malattie, e il loro insaziabile bisogno riusciva a fargli ignorare molto di quello che accadeva, distorcene dei pezzi, e il resto accettarlo come parte della vita. Ma ad ogni giorno che passava la verità era sempre più difficile da ignorare, e allora la loro malattia, con un meccanismo istantaneo e automatico, la razionalizzava e ne restituiva una distorsione accettabile”. Ai suoi personaggi non resta che “aspettare di vivere”, mentre la loro esistenza (che è difficile chiamare vita) arriva infine a destinazione, in carcere o al manicomio, un passo prima del capolinea definitivo. Una lettura impegnativa, ma doverosa.

Elia Kazan

La discesa negli inferi di Eddie Anderson, uno dei tanti nomi dietro cui si cela l'ambigua personalità del protagonista de Il compromesso, è un'epica, travolgente e dolorosissima saga attraverso l'America degli anni Sessanta, da Los Angeles verso New York e viceversa. E’ un uomo di mezza età che si nasconde dietro tre nomi conduce una vita ambigua: è il manager di una grossa agenzia pubblicitaria e un acido editorialista, è il deus ex machina del tenore famigliare e un fedifrago convinto fino a quando il traballante equilibrio regge. Poi, il diluvio. Si comincia con una ricca e pachidermica esistenza suburbana: un lavoro importante, un matrimonio, molte distrazioni dentro cui si annida un dubbio, reso ben presto palese da Elia Kazan: “Il successo dovrebbe fornire una certa difesa contro gli spettri o l'inconscio o qualunque altra cosa fosse. E' il minimo che ci si dovrebbe aspettare dal successo. O dal denaro. E invece non è così, per nessuno dei due”. La verità, una volta che ci si lascia trascinare dalla corrente di questo monumentale romanzo è che non ci sono proprio difese nella fragile e altalenante frequentazione della psicologia umana: basta una parola, un piccolo incidente, uno sguardo sbagliato nel momento giusto e i castelli di carta su cui si reggono i compromessi vanno giù con un soffio. Elia Kazan (come Richard Yates, con cui c'è più di un'affinità) non risparmia nulla ai suoi personaggi e li mette su un treno che non si ferma più. Quando la loro vita diventa “out of control”, sembra perdersi anche l'idea stessa del controllo, dell'integrità, della dignità e di tutto ciò che è collante delle vite, dei legami, delle famiglie. Qualsiasi gesto, parola, situazione diventa un momento di frattura, dove a tratti si fatica a scorgere la sottile linea che separa la cosiddetta normalità dalla follia, come dice il protagonista de Il compromesso: “Non sapevo ancora che non ci sono indicazioni segnaletiche, e brevissime sono le distanze, tra il cosiddetto comportamento normale e la cosiddetta malattia mentale. In seguito ho capito che queste etichette non vogliono dir nulla. Esistono soltanto esseri umani in diverse condizioni di sviluppo, tanti prolungamenti di ciò che esisteva già da un pezzo senza che nessuno se ne accorgesse”. I moltissimi risvolti psicologici fanno de Il compromesso una specie di trattato sulla vulnerabilità dei rapporti umani e nello specifico sull'ineluttabilità dei legami tra madre, padre e figli in un circolo che si ripete all'infinito, tramandando di generazione in generazione il mistero di uomini e donne. Straordinario è il triangolo femminile (madre, figlia e amante) che contiene tutto l'universo maschile in un continuo rimbalzare di domande e di ambizioni irrisolte, un tumultuoso rincorrersi tra i due estremi dell'America, NYC e Los Angeles, prima in fuga dalla prigionia della vita suburbana, poi, travolti da insane passioni, cercando di riparare dalle furie della strada. Ad un certo punto vede nello specchio il volto del nemico (il suo), un uomo nella “fossa della rispettabilità”, per dirla con la sua amante, Gwen. A distanza di quarant'anni, Il compromesso è un grande affresco che è ancora attuale perché tocca tutta l'umanità senza distinzione geografica o temporale e perché, è chiaro, Il compromesso non finisce mai. 


lunedì 26 luglio 2010

Rick Moody

“Ad un certo punto, verso la fine del 1986, ho cominciato a immaginare questo gruppo di sbandati. La mia idea, nella sua forma più semplice, era scrivere di chi torna a casa dopo il college senza avere la minima idea di cosa vuole fare. E' chiaro che tutto questo aveva anche molto a che vedere con il posto dove abitavo allora: Hoboken, nel New Jersey (...) Insomma, l'idea era questa, creare una versione stramba e leggermente surreale delal Repubblica Popolare di Hoboken": così Rick Moody raccontava a David Ryan la genesi di Cercasi batterista, chiamare Alice, il suo romanzo di esordio. Ed è la musica, che giustamente il titolo italiano rimette in primo piano, a dare il tempo e a disegnare gran parte del cupo paesaggio. I Feelies di Crazy Rhythms (soprattutto), gli Yo La Tengo, i Silos sono le fonti di ispirazione di un giovane e ancora piuttosto disorientato Rick Moody, oggi narratore riconosciuto ma allora outsider come tanti suoi coetanei del New Jersey. Un luogo per cui Bruce Springsteen ha fatto di tutto nel tentativo di elevarlo dal grigiore e dalla decadenza provinciale e che invece Rick Moody, in quello che è il suo esordio, racconta con una disillusione che si spiega in immagini livide, in un ritmo indolente perfetto per spiegare quel'atmosfera per cui “Ovunque fossi ti sembrava che le cose andassero meglio altrove. Ovunque fossi sentivi questa fame di un po' di semplice conversazione”. Difficile in un territorio dove la linea d'ombra dell'adolescenza ha tre quarti su quattro di possibilità di essere varcata nel mondo sbagliato. Da Alice in giù, tutti i personaggi di Garden State cercano di salvarsi aggrappandosi gli uni agli altri (quando riescono) oppure proprio alla musica che è sempre dura, metallica, aspra, sghemba e disperata o, come scrive lo stesso Rick Moody, “Forse era solo il suono della vita vera, della gente di provincia che entrava e usciva dalle situazioni più umane e banali”. Qui non bastano i famosi tre accordi e una verità: i gruppi stanno insieme per fuggire il vuoto della periferia che ad ogni istante prova in un modo o nell'altro ad inghiottirli. Rimangono pochi margini di elevazione, anche se Rick Moody non nasconde un minimo indispensabile di dignità, come racconta in uno dei passaggi fondamentali per comprendere il senso di Cercasi batterista, chiamare Alice: “Nessuno era diventato quello che si aspettava di diventare, ma nessuno si era ridotto neanche troppo male, se in quel decennio essere persone a posto significava avere un minimo di sincerità e non desiderare la roba né il posto degli altri”. Anche per questo, Cercasi batterista, chiamare Alice è un romanzo crudo, più che acerbo, e se si vuole andare in profondità al tema, è più che utile rileggere La terra desolata dei teenagers, un reportage di Donna Gaines che, scandagliando un territorio contiguo al New Jersey di Rick Moody, ha scoperto il lancinante dolore di chi non riesce trovare un posto ai sogni, ai desideri e alle speranze.

domenica 25 luglio 2010

Wallace Stegner

Tutto comincia con un pacco di lettere in arrivo da un altro secolo, testimonianza di una profonda amicizia femminile e insieme di una vita tanto intensa quanto incompleta, quella di Susan Burling Ward. A rimetterne insieme la storia attraverso le sue lettere all’amica Augusta è il nipote, Lyman Ward. Storico in pensione, mutilato da una malattia ossea, separato dalla moglie, rivive le vicende famigliari in un’altra ottica. All’inizio cerca di mantenersi equidistante nei giudizi e rispetto ai modelli linguistici e morali (“Non ne faccio un caso personale. Soltanto culturale”, dice con poca convinzione) poi, più si addentra nella storia, si ritrova a confrontarsi con il sogno di una famiglia, e quello di una nazione. La costruzione del West, e del suo mito, che Lyman Ward segue dal punto di vista femminile dell’East, lo porta a raccontarlo con una sorta di realismo fuori dai luoghi comuni e dai cliché, spiegando che di selvaggio aveva la natura della colonizzazione (“So come gli americani reagiscono quando i loro interessi si scontrano con i diritti degli indiani. Reagiscono in modo disonorevole”) piuttosto che la natura della wilderness, le logiche dello sfruttamento e del mercato piuttosto che le logiche dell’ambiente naturale, le prevaricazioni degli esseri umani sugli altri esseri umani (e su tutto quanto) piuttosto che le biologiche conseguenze della catena alimentare. La sua visione diventa esplicita, e “politica”, quando scrive: “Esistono tanti pregiudizi sul vecchio West. Uno fra questi lo dipinge come la patria di un intrattabile senso di scostante autosufficienza che sconfina nell’anarchia, quando invece gran parte del West era assoggettato a capitali proveniente dall’East o dall’estero, gestiti dai padroni con pugno di ferro”. Laggiù, Susan Ward sacrifica le sue più che legittime aspirazioni artistiche, le forbite conversazioni e le amicizie seguendo i mulini a vento del marito, le miniere e i canali nel deserto. “Viviamo nel tempo e viviamo attraverso di esso, costruiamo le nostre baracche sulle sue rovine” scrive Wallace Stegner alias Lyman Ward e il contrasto tra la claustrofobia del narratore, le sue mutilazioni e la wilderness del West, dei canyon, e delle montagne (una mutilazione invece per la nonna, tutti quegli spazi aperti) intrecciano tempi e ricordi facendo riverberare echi da un secolo all’altro. La grande abilità di Wallace Stegner è prendere un ritmo, un tono a partire dalle primissime pagine e non mollarlo più fino alla fine, nonostante i cambi di scenari (dalle praterie infinite alle pareti di una vasca da bagno), di voci (dalle colte riunioni della East Coast alle rozze vicissitudini della West Coast), dei linguaggi parlati da un nugolo straordinario di personaggi femminili. Fosse soltanto per questo Angolo di riposo meriterebbe ben più del Pulitzer (che sperimentò nel 1970), ma c’è di più. Essendo una miniera con due filoni che si sovrappongono, le vite di Lyman Ward e quelle dei suoi nonni (e un terzo, quello della storia del West, compreso nel prezzo) si scopre che c’è molta durezza nella vita di tutti, secolo prima, secolo dopo, e viene mitigata soltanto dalla dolcezza dei ricordi o meglio dalla dolcezza con cui i ricordi prendono forma. L’effetto Doppler, che Wallace Stegner cita con insistenza, è tutto qui, ed è l’unico, vero angolo di riposo. 

mercoledì 21 luglio 2010

Jim Thompson

Lou Ford, il feroce protagonista di The Killer Inside Me ovvero L'assassino che è in me, è il personaggio più noto della trentina di romanzi che Jim Thompson ha scritto nella sua tormentata e variopinta esistenza. Attraverso il suo volto e il suo carattere, L'assassino che è in me è destinato a diventare un classico della letteratura americana, prima o poi. Per i lettori più attenti alla sostanza che alle formalità, probabilmente lo è già per la sua cruda essenzialità, per le visioni cupe e spietate, per l'universo di loser che Jim Thompson ricostruisce con maniacale e ossessiva attenzione. Lou Ford dovrebbe stare dalla parte della legge e invece sfrutta la sua posizione (essendo un vicesceriffo) per coltivare il killer che ha dentro. Si muove a scatti, tra esplosioni inaudite di violenze e lunghe assenze, dove la sua mente vaga senza meta, in attesa della follia successiva. La grandezza di Jim Thompson, qui soprattutto e poi negli altri romanzi, è tutta nella ricostruzione di questi processi: azione e reazione, assassini e vittime, colpevoli e innocenti, dentro e fuori. Leggendolo e rileggendolo è facile capire perché L'assassino che è in me abbia affascinato due o tre generazioni di rock'n'roller (tra l'altro i Green On Red gli dedicarono un intero album intitolandolo proprio The Killer Inside Me, ma c’è stato anche un gruppo che ha scelto di chiamarsi proprio Lou Ford). Gli improvvisi sbalzi di ritmo e d'atmosfera, l'essere coscienti di stare dalla parte sbagliata della strada senza molte alternative (e come scrive Jim Thompson: “comunque le persone sono sempre persone, anche quando vanno a finire un po' fuori strada”), avere il coraggio di guardare anche nei lati oscuri della vita e sapere che le porte dell'inferno sono sempre aperte (“Vivendo in un mondo di valori sottosopra e in costante tentazione, un ragazzo poteva finire facilmente in guai seri e di lunga durata. Per sopravvivere in quel mondo doveva essere molto, molto fortunato e avere un discreto grado di intelligenza” raccontava Jim Thompson nella sua autobiografia) sono condizioni comprensibili, se non proprio condivisibili, per chi ha masticato un po' dei gerghi della varia umanità del rock'n'roll. Detto questo, L'assassino che è in me (o The Killer Inside Me, se suona meglio) è e resta un capolavoro e a Jim Thompson, va sempre accordata la precedenza. Per affinità, per il sapore noir forte e graffiante della sua voce e perché, in fondo e con molta semplicità, è un grande scrittore.

martedì 20 luglio 2010

Robert Sabbag

Con la neve fino agli occhi è la storia di Zachary Swan, nome di battaglia di uno dei precursori dello spaccio di droga su larga scala. A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta trasformò completamente il traffico delle sostanze stupefacenti quando scoprì che era molto più semplice e redditizio commerciare cocaina piuttosto che ingombranti carichi di marijuana. Qualche doverosa premessa, per non farsi confondere le idee: Con la neve fino agli occhi non è un'apologia dello spaccio di droga e non considera Zachary Swan un eroe assoluto; non è un'elegia all'abuso di marijuana, cocaina, acidi e altre dolcezze; non contiene visioni psichedeliche (a parte un paio di citazioni dei Grateful Dead) o evoluzioni linguistiche influenzate da viaggi della mente. In effetti di paradisi artificiali Zachary Swan ne conosce ben pochi: per quanto redditizi, i suoi traffici coinvolgono un intreccio di persone, relazioni, amicizie più o meno pericolose e tensioni che non si risolvono mai perché "trafficare droga vuole dire aspettare. Seduti in una stanza. Aspettare e ammazzare il tempo. A dispetto di quanto complicati siano i preparativi, di quanto l'affare sia a tenuta stagna, trafficare significa innovare, prendere al volo, modificare l'operazione perché la tua barca o il tuo corriere se la sono filata". Per questo la cocaina, o la droga in generale, è del tutto relativa nell'economia generale di Con la neve fino agli occhi: il senso ultimo del traffico è ben pesto chiaro ("Comunque la maggior parte della gente non sa che cosa sniffa, sa solo cosa ha comprato. Se gli offri roba pura si lamentano del prezzo dicendo che è merda perché non è uguale a quella che si fanno di solito. Così la tagli con il borace e ti pagano tutto quello che chiedi. Ma ci vuole tempo. Dopo averne smerciata gran parte a un prezzo onesto, puoi infinocchiare la gente con quello che resta per il piccolo spaccio") almeno quanto i suoi pro (i soldi) e contro (qui l'elenco è più difficile). La differenza la fa il ritmo della scrittura che è un ibrido tra rock'n'roll e reportage, con Robert Sabbag che si destreggia ad essere investigatore e testimone nello stesso tempo, tanto che alla fine viene il dubbio che qualcosa l'abbia vissuta anche lui in prima persona. Gli applausi da Hunter S. Thompson e Norman Mailer dovrebbero servire da ulteriore garanzia, ma a tutti gli effetti Con la neve fino agli occhi è un libro splendido e trascinante, che non mancherà di stupirvi.

venerdì 16 luglio 2010

Douglas Coupland

Douglas Coupland ha avuto la fortuna a doppio taglio di indovinare o, meglio, di percepire l’umore vago e plumbeo di una generazione assolutamente indefinibile e di fargli trovare posto in un libro un po’ strano e molto interessante, Generazione X. Sorta di diario di bordo esistenziale di una gioventù senza tempeste, ma anche senza pace, Generazione X ha colto nel segno diventando in rapida successione un archetipo, uno slogan e persino un modo di dire. Merito dell’abilità narrativa di Douglas Coupland che allora si limitava ad un rapido e furbesco assemblare per immagini che poi ha cercato di evitare. Un cliché, a suo modo, che, come il successo di Generazione X, rischiava di imprigionarlo nei confini di autore generazionale o giovanile. Questa, almeno, era l’impressione che emergeva da Generazione Shampoo (che già nel titolo tentava di ripetere l’exploit di Generazione X) e successivi ma che poi Douglas Coupland ha saputo fugare con La vita dopo Dio e soprattutto con Microservi. Se il primo era una raccolta di frammenti non privi di una loro dignità, Microservi rappresenta un tentativo parzialmente riuscito ma avvincente, di accostarsi al romanzo in forma più tradizionale. La trama è abbastanza semplice, ma coerente: in fuga dal paradiso impiegatizio della Microsoft, dove tutto, in apparenza, è troppo perfetto, un gruppo di amici si trasferisce in California, dove sceglie di mettersi in proprio. Sono tutti operatori informatici e vicende sentimentali, familiari e professionali si intersecano in continuazione fino a un finale amaro ma decisamente in linea con la storia. Di più c’è il salto di qualità di Douglas Coupland: in Microservi ci sono personaggi, caratteri, personalità. C’è un continuo richiamo ai nodi focali della vicenda (gli affetti, il lavoro), come se si volessero continuamente precisarne i contorni. Tanto che, a tratti, Microservi sembra una sceneggiatura fin troppo particolareggiata. Invece è veramente un bel romanzo a cui manca ancora qualcosa: Douglas Coupland potrebbe lasciar perdere certi rimasugli minimalisti, non dovrebbe aveve paura di affrontare temi mitici (il viaggio da Seattle alla California è liquidato senza colpo ferire, mentre avrebbe più di un simbolo da offrire alla storia) e tipicamente americani (anche se qualche apprensione è comprensibile, visto che è nato in Germania e vive in Canada) e sarebbe un ottimo scrittore, quello che, a tratti, e senza indecisioni, emerge davvero in Microservi.

Kinky Friedman

Un primo quarto d'ora di successo Kinky Friedman l'ha avuto nel 1973: all'epoca scriveva canzoni, non romanzi, e il suo debutto su vinile, Sold American, lasciò un bel po' di gente a bocca aperta. Parole irriverenti, sarcasmo diffuso a piene mani, ballate country & western riempite di battute sagaci come un film dei fratelli Marx, persino un'apparizione con la Rolling Thunder Revue di Bob Dylan e poi Kinky Friedman ha lasciato il campo e si è messo dietro la macchina da scrivere. Gli ingredienti non sono cambiati: ebreo e texano, Kinky Friedman miscela con un'abilità notevole il ritmo del rock'n'roll con tutte le contraddizioni dell'american dream, gioca a scardinarne i luoghi comuni con un linguaggio pieno di metafore, paradossi, iperboli. Molto ironico e, nella sua eccentricità, anche parecchio realistico, Elvis, Gesù e Coca-Cola lo rappresenta in modo brillante e coinvolgente: ci sono due o tre delitti apparentemente incomprensibili, c'è una polizia che non sa cosa fare oltre a contare i cadaveri, c'è New York che sembra vivere di vita propria e c'è Kinky Friedman nell'epicentro di questo terremoto che prova a fare l'investigatore e il capo degli Irregolari del Village, uno staff di collaboratori tutto da scoprire. Kinky Friedman gioca pesante con il tema del doppio e più di un indizio in Elvis, Gesù e Coca-Cola riporta ai film di Alfred Hitchcock, che schiaccia l'occhio in un angolo, ma il thriller sembra solo una scusa per tenere alta la tensione e per dare un senso a quelle incursioni linguistiche che sono la sua vera specialità. A parte il titolo (su cui andrebbe speso un saggio), in "Elvis, Gesù e Coca-Cola" ci sono definizioni da antologia (Michael Jackson, che nell'insieme non c'entra nemmeno un granché, viene citato come "un alieno spaziale androgino da dodici miliardi di dollari"), idee che hanno uno metodo nella loro follia ("Se tutti bevessero abbastanza sambuca probabilmente si risolverebbero tutti i maggiori problemi del mondo. Conflitti religiosi e violenza etnica senz'altro scomparirebbero. I confini nazionali si disintegrerebbero e il mondo finalmente realizzerebbe il sogno di John Lennon nella canzone Imagine"), citazioni disparate e curiose (da Emily Dickinson a Michael Bloomfield) e, più in generale, un modo di raccontare e di usare le parole che rendono Kinky Friedman, oggi, più vicino  e dentro al rock'n'roll di quanto non lo fosse più di vent'anni fa.

lunedì 5 luglio 2010

Malcolm Lowry

Malcolm Lowry è stato un magnifico outsider, uno di quei casi più unici che rari di scrittore avulso da mode, ambizioni, salotti e momenti di gloria. La sua forza era quella di seguire un suo personalissimo, straordinario percorso che cercava di annullare, regolarmente, le differenze tra sogno e realtà. Fin dalle prime battute giovanili, come è riportato nella sezione Canti (dove ci sono ricordi e frammenti suoi e di chi l'ha conosciuto; i Salmi, invece sono alcuni tra i suoi racconti): “Ho preso una decisione su un punto soltanto in questa faccenda del vivere, ed è che devo, e devo al più presto possibile, identificare una scena più precisa: devo cioè dare identità a una scena immaginaria mediante la sensazione immediata dell'esperienza realmente vissuta”. Il rapporto tra la fiction della letteratura e la sua vita, vera, fu una costante nell'esistenza di Malcolm Lowry proprio perché non riuscì a districarsi dai suoi personaggi, dalle sue storie, dai suoi eroi e le visse fino in fondo, non soltanto nelle magistrali pagine, ma anche nella sua esistenza. Il suo credo non ammetteva limiti e mediocrità perché “non puoi fidarti di quelli che sono troppo prudenti. Come scrittori o come bevitori. Il vecchio Goethe non può essere stato un uomo in gambo quanto Keats o Chatterton. O Rimbaud. Quelli che bruciano”. Salmi e canti lo riscopre oltre che rispolverando pregevoli parti inedite o quasi (come il racconto Sotto il vulcano, che poi dà il titolo all'omonimo libro), anche nei momenti di riflessione sulla natura vera e propria della sua scrittura ("Quando lavoro ad alta intensità la stesura anche del minimo biglietto spesso mi richiede un tempo incredibilmente lungo, una sorta di aberrazione psicologica dovuta senza dubbio al fatto che l'attenzione narcisistica che talvolta si spende nella prosa ti fa dimenticare che una lettera dovrebbe essere spontanea e al diavolo i punti e virgola, visto che il tuo amico in ogni caso non è quelli che vuole vedere ma è semplicemente interessato alle tue notizie”), in momenti intimi e contraddittori (e si scoprirà che questo grande scrittore non ha mai scritto di suo pugno nemmeno un autografo) fino a leggere tra le pieghe del suo sogno, quel “ti porti dietro il tuo orizzonte ovunque tu sia" che giustamente diventa l'epigrafe finale di Salmi e canti. Un libro bellissimo che, nella sua variegata composizione, non  assolve soltanto o scopo antologico, ma rende perfettamente quel “mondo ubriaco che gira follemente”  che era la vita, e la scrittura (nessuna distinzione tra le due), di Malcolm Lowry.

Kent Harrington

Dìa De Los Muertos è uno dei più avvincenti romanzi ambientati sul border degli ultimi anni. Già il fatto di essere introdotto da una strofa di Volver Volver, un tradizionale notissimo a chi ha seguito fin dall'inizio la storia dei Los Lobos, dovrebbe bastare come biglietto da visita. In più, servono magari le parole dello stesso Kent Harrington che a proposito del libro ha detto: “Dìa De Los Muertos appartiene alla scuola dei romanzi di Jim Thompson: le cose vanno di male in peggio e arriva un colpo di scena, ma in più credo che abbia l'andamento di un film. Ho cercato di sposare cinema e romanzo". La trama sembra effettivamente la sceneggiatura standard per passare l'esame del corso di noir assoluto, relatori gli illustrissimi il già citato Jim Thompson (per l'assenza di vie d'uscita) e James Ellroy (per via di Tijuana Mon Amour): potete scoprirvela da soli, perché in Dìa De Los Muertos conta soprattutto il protagonista. Vincent Calhoun è un uomo roso dall'odio e dal desiderio, due sostanze apparentemente inconciliabili, ma che sul border, nel Dìa De Los Muertos, si fondono come la nitro con la glicerina. Dal canto suo, lui, un loser di primissima categoria, fa poco o nulla per disinnescare tutte le probabili esplosioni che incontra nel suo andare avanti e indietro sulla linea di fuoco del confine. Essendo un coyote (e qui bisogna andare a leggere e rileggere il significato di questa parola in Leggende del deserto americano di Alex Shoumatoff, che ne offre una definizione ben al di là della semplice connotazione zoologica) Vincent Calhoun ha un'esistenza parecchio complicata e il il carattere rocambolesco di Dìa De Los Muertos ne riporta magnificamente l'essenza con un ritmo serrato e avvincente da thriller, ma con un paesaggio da frontiera e una città, Tijuana, in cui “c'era gente con cui era preferibile non correre rischi”. Non si tratta soltanto di brutti ceffi o di stare dalla parte sbagliata. Dìa De Los Muertos prima o poi l'inganno viene a galla e si paga sempre perché “tutti mentiamo a noi stessi. Fa parte della vita. Mentre guidava Calhoun si raccontava bugie. Gli uomini da cui stava per farsi prestare soldi erano suoi nemici, e quando diceva a se stesso che erano soltanto strozzini mentiva. Sapeva che non era vero. Aveva giurato che non sarebbe mai venuto a farsi prestare soldi da El Cojo perché El Cojo era il più infimo di Tijuana e, in effetti, suo nemico, in quanto gestiva le pattuglie più cattive dei topi del deserto. Ma in Messico mentire a se stessi risulta più facile che altrove. E' un paese così, si disse”. Leggetelo con la colonna sonora del bellissimo Borderland di Tom Russell e vi sembrerà di essere nel mezzo di un film di Sam Peckinpah.

venerdì 2 luglio 2010

Jim Harrison

Per tre quarti di Un buon giorno per morire Sylvia, Tim e il nostro amabile narratore non fanno altro che bere, impasticcarsi, fumare e mangiare in un viaggio dall’andatura classica (dall’est all’ovest) e dal taglio basso (dal Key West al Grand Canyon). Provano anche ad amarsi, ma le stanze dei motel sono troppo piccole e il triangolo è una geometria decisamente spigolosa. Specie se la compagnia è formata da un veterano del Vietnam (Tim), dal suo piccolo grande amore del’adolescenza (Sylvia) e da un pescatore idealista plurilaureato disoccupato e vagamente autolesionista. Tutti e tre si ritrovano, ed è l’inizio degli anni Settanta, senza avere molto da dire o da fare e, vuoi per un motivo o per un altro, decidono di partire (normale, per essere americani) e di andare a far saltare una diga sul Grand Canyon. Un atto di sabotaggio dovuto perché lo sbarramento (ma, in poco tempo l’idea si allargherà a tutte le dighe degli Stati Uniti) impedisce la risalita delle trote iridate che non possono figliare e quindi, con grande disappunto dei nostri amici, non si possono nemmeno pescare. La trama, adatta ad un romanzo d’azione dai sentimenti ambientalisti (potrebbero essere i Sabotatori di Edward Abbey, per dirne una) non deve trarre in inganno. Il nostro trio di loser non agisce in virtù di uno spirito ecologico, non è legato ad alcun gruppo organizzato (e i risultati, come è facile intuire fin dall’inizio, non tardano), non ha un background tale da giustificare (per quanto sia possibile) il progetto di far saltare in aria una diga. Per loro è un’idea come tante, qualcosa a cui legarsi per non andare giù, verso un fondo che è sempre più vicino. Questa è la prima annotazione da fare su Un buon giorno per morire: Sylvia, Tim e il nostro anfitrione sono degli outsider, degli esclusi. Nemmeno emarginati: proprio buttati furoi da una civiltà che non tollera personalità improduttive, vagabondi, sognatori e disperati di varia forma e natura. L’attualità (cioè l’immediatezza) di Un buon giorno per morire non finisce qui e oltre alla totale confusione esistenziale dei protagonisti offre (e nemmeno tanto tra le righe) un punto di vista molto preciso su cosa voglia dire sognare. Meglio, esige una distinzione nelle tipologie dei sogni: da una parte ci sono quelli offerti dalla televisione (onnipresente, nel romanzo come nella realtà), dai lustrini del country & western alla radio, le ambizioni limitate e limitanti di un lavoro, una casa, una famiglia. Dall’altra parte c’è la fantasia divergente e dissonante di prendere un macchina, riempirla di birra, whiskey e altri additivi chimici per andare a disintegrare una diga. Gli estremi, in quel pasticcio di realtà che è la vita (come scrive Jim Harrison) sono questi e se è vero che la dinamite è sempre un mezzo un po’ troppo risolutivo è altrettanto significativo, come sembra di capire in Un buon giorno per morire, che sogni e miracoli vale la pena di inventarseli da sé, senza stare ad aspettare il pifferaio magico di turno. Last but not least, durante una delle tappe sulla strada Un buon giorno per morire offre una delle migliori definizioni di musica pop che siano mai state scritte. Tagliente, ironica, lucida, come è Un buon giorno per morire.

Michael Ondaatje

Alle origini di tutta la musica afroamericana, in quello stretto frangente (temporale e geografico) da cui emersero via via, come a definirsi con sempre maggiore precisione, blues, jazz e infine il rock’n’roll è vissuto Buddy Bolden. Il suo nome, almeno fino a quando Michael Ondaatje non è andato a riscoprirlo, non era molto di più di un’oscura leggenda. Musicista, giornalista, barbiere, vita caotica vissuta al ritmo del crepuscolo di un’era (che è sempre l’alba di un’altra) di Buddy Bolden non restavano che una sgranatissima fotografia e qualche traccia biografica. Nessuna incisione, non c’era ancora modo di farlo, e poco altro: per questo Buddy Bolden’s Blues potrebbe già essere un libro molto importante. Ricostruisce vita (per eccesso), morte (drammatica) e miracoli (pochini, salvo la magia della musica) di una sensibilità magari ingenua, ma capace di cogliere le sfumature del passaggi dalla cultura orale a quella dei sistemi di comunicazione di massa, fonografo per primo. Aiuta molto, a inserirsi nell’atmosfera indefinita (il melting pot etnico e sociale di New Orleans) di Buddy Bolden’s Blues la struttura narrativa che Michael Ondaatje ha scelto all’uopo. Invece di privilegiare la formula classica del romanzo, ha realizzato un patchwork di visioni, commenti, pagine di diario e frammenti di vita vissuta coe se stesse raccontando Buddy Bolden in presa diretta, con poco tempo a disposizione per analizzare dati e fatti compresi nella storia. L’effetto è dirompente perché Michael Ondaatje supera in scioltezza i paletti dell’impostazione cronachistica e trasforma Buddy Bolden’s Blues in un frenetico slalom per immagini. Procedimento riuscito per tentativi, anzi, dato il tema, per improvvisazioni, visto che Michael Ondaatje si deve inventare un’esistenza (folle), un quadro storico, una sequenza di affetti e di rapporti e, non ultime, le metafore necessarie per descrivere la musica che, tra l’altro, non ha mai potuto sentire. Basta e avanza per fare di Buddy Bolden’s Blues un punto di riferimento per chiunque sia affascinato dagli albori della musica e della cultura afroamericana e per chi ancora s’innamora di quegli sconosciuti eroi che della loro vita hanno fatto un’epoca.