martedì 25 maggio 2010

Tom Franklin

Dieci short stories, più un’introduzione in forma di racconto, sono la prima carta d’identità di Tom Franklin, scrittore che ha trovato subito lettori importanti come Richard Ford e Philip Roth a seguirlo nel suo viaggio dentro i temi più classici della letteratura americana: i loser, la wilderness e “nell’aria una scia di morte”. Il paesaggio che circonda i personaggi dei racconti di Tom Franklin è una sorta di terra di nessuno dove la wilderness tende a cancellare le impronte degli insediamenti umani. Le piante rampicanti (quel kudzu che ritorna come un refrain), il fango, la polvere non sono elementi decorativi, ma l’humus vero e proprio in cui si muovono i personaggi. Ci devono combattere, ogni giorno e ogni notte, come i Bracconieri dell’omonimo racconto o può rappresentare un momento di estasi, come sognano i viaggiatori di Alaska o, ancora, può diventare un’epifania come succede al protagonista di Triathlon: “Non ho mai avuto una visuale così ampia e profonda, il cielo a ovest incide solchi rossi al di là dei lontani alberi azzurrini. Vedo sull’orizzonte lo svolazzo delle luci delle torri radio e delle ciminiere. Le cime degli alberi che si estendono di sotto sembrano abbastanza solide per camminarci sopra. Sarebbe facile dimenticarsi della vita che conosci là sotto, pensare a essa come fosse il fondo del mare, un luogo dove sagome scure si muovono tra colonne di luce, dove gli insiemi delle cose si spostano come nuvole”. Non si tratta soltanto di particolari, ma sono proprio le cornici di ogni singola storia, gli elementi che determinano il contesto, il movimento dei personaggi, per certi versi anche il linguaggio, il ritmo e l’incedere della storia anche se poi la vita e la morte “là sotto” sono argomenti molto, troppo umani che Tom Franklin racconta così, con un’abilità cinematografica per il dettaglio: “Ieri sera ho preso l’ascensore col mio Jack Daniel’s in tasca. Lunghi e bianchi corridoi d’ospedale. Bigi pannelli di legno su cui far scorrere le dita. Rutto. Mi sono perso. Chiedo e un tipo mi indica la stanza. Sono rimasto lì impalato accanto alla porta. Poi ho bussato e sono entrato. Era più pelle e ossa del solito, una cera ancora più pallida, ma cominciò a chiacchierare come fossimo nella sua veranda e tutto filasse liscio”. Senza lasciarsi abbagliare dagli strilli e dai messaggi lanciati per aria, c’è qualcosa di antico che emerge nella scrittura di Tom Franklin, qualcosa che nelle parti più oscure e vitali sembra quasi gotico, ma non è difficile intuire che dietro Alabama Blues ci sia un vero e sanguigno storyteller con il senso della storia non meno di quello del ritmo. Segnatevi il nome, potrebbe riservare delle sorprese, in futuro.

 

 

 

Nessun commento:

Posta un commento