lunedì 24 maggio 2010

Richard Ford

L'orizzonte è complesso perché è composto da un paesaggio, siamo nel New Jersey ma potrebbe essere qualsiasi provincia metropolitana sparsa nel mondo, che sta degradando inesorabilmente, consumando la propria identità (e quella di chi ci vive) in un reticolo di quartieri anonimi e strade che s'inseguono e si rinchiudono come un infinito senso unico. "Perché succedono tante cose in macchina? Che sia l'ultimo spazio intimo che ci è rimasto?" si chiede ad un certo punto Frank Bascombe o forse l'alter ego di Richard Ford e la domanda contiene il nocciolo duro de Lo Stato delle cose perché è proprio nell'ambiente rarefatto concesso dalle automobili che si consumano i dialoghi che cercano di dare un senso alle "cose", che succedono nella vita, "con due parole secche, cromate, allegre, per accettare il fatto che il mondo era un ammasso di merda e sempre lo sarebbe stato, però, ehi". Però, ehi: frase dopo frase, nella desolazione delle ville a schiera (che Frank Bascombe conosce bene essendo nel frattempo passato da "sportswriter" a agente immobiliare) e delle tangenziali, di "badlands" trasformate in quartieri modello, di vicini allucinati e esistenze sempre in bilico tra l'anonimato e l'oblio, Richard Ford non smette di cercare un sottile, impercettibile, fragile filo di speranza non fosse altro che per una giornata passata intatta ("Non è una cosa da dare per scontata"), per un piccolo e utile margine lasciato alla ricerca della felicità, o solo per preservare qualcosa e qualcuno da tutto ciò che "rimane trascurato e inespresso". Il paesaggio diventa ben presto famigliare, Frank Bascombe con tutti gli suoi interrogativi che si porta dietro è il compagno di viaggio che nessuno vorrebbe avere, ma è anche la coscienza che ci manca, la consapevolezza che ci sfugge e l'attenzione che si perde in mille "cose" inutili. E' ancora lui, quasi a concludere una trilogia destinata a diventare un punto di riferimento, a suggerire una via d'uscita allo stato di endemica violenza di habitat snaturati e alla periferia di tutto, il più delle volte motore di frustrazioni e di ambiguità (e che invece qui esplode nel finale). Lo fa quando, non con poca fatica, racconta la sua giornata ideale: "Un buon giorno per me è quello in cui riesco a tenere alla larga dalla mia mente tutte le cose che mi danno i brividi, e al loro posto inserisco paesaggi che riesco a decifrare, anche se inconsapevolmente". E' quello che può ancora fare un romanzo, una storia, una scrittura che sappia cogliere la sfida, le possibilità della vita in un mondo impossibile e ormai anche un po' improbabile. Creare un luogo della mente dove "lo stato delle cose" non sia né consolatorio né agghiacciante, ma un posto dove vivere senza il dito sul grilletto.

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