lunedì 31 maggio 2010

James Lee Burke

“Il passato non passa mai”, una citazione di William Faulkner molto casa a James Lee Burke (e per estensione a Dave Robicheaux) condensa tutta l’intricata storia di Prima che l’uragano arrivi. Un primo flashback riporta Streak al suo periodo più cupo, quando vede uccidere a sangue freddo un amico abituato a stare dall’altra parte della linea. La sua mancata reazione, era ubriaco al momento dell’assassinio, i sensi di colpa e la disperazione lo perseguitano per anni. Poi sulla scena appare una dark lady con un piano in testa e nello stesso tempo un’altra ragazza trova la morte in quello che sembrerebbe un suicidio. Di casi disperati come il suo sono pieni i giorni e le notti di Streak che comincia a farsene una ragione perché ad un certo punto dice: “Non esiste tragedia che venga orchestrata da un unico individuo. Un evento per cui ci incolpiamo potrebbe essere il prodotto di qualcosa che va avanti da anni e potrebbe riguardare più gli altri che noi stessi”. Cadavere dopo cadavere, il suo passato torna in tutta la sua violenza anche perché Streak ha la dolorosa coscienza che “il vero problema è che quasi tutte le persone coinvolte probabilmente avrebbero vissuto vite del tutto normali se non si fossero incontrate”. L’intreccio di omicidi è così complesso che nel momento cruciale una delle protagoniste si sente in dovere di precisare che, sì, “siamo tutti assassini”. Una definizione che Streak è obbligato a condividere, vista la situazione in cui si trova (non proprio comoda) e visto il suo ingombrante passato, ma contro cui continua a dibattersi in un amletico dilemma. Nell’eterna lotta, tra un’idea di bene e di male, tra il presente e il passato, per la vita e per la morte è assistito dai suoi colleghi e amici di sempre, a partire dal voluminoso e devastante Clete Purcel, e in Prima che l’uragano arrivi non mancano tutti gli elementi coreografici, le scene d’azione, i personaggi e i caratteri che ben conoscono i lettori della saga di James Lee Burke. Questa volta però sopra le teste della moltitudine di vittime e carnefici, mai così vicini gli uni agli altri, e solo un po’ in ritardo rispetto ai loro appuntamenti con pallottole, spranghe, mazze da baseball e persino un piccone appuntito, sta per arrivare un’apocalisse devastante. Gli uragani che stanno viaggiando nelle acque del Golfo sono soltanto il colpo finale, dopo l’incuria, l’arroganza, l’indifferenza che hanno segnato per sempre la vita di New Orleans e della Louisiana. James Lee Burke, per bocca di Streak, non usa mezzi termini: “Questo non è il paese in cui siamo cresciuti. Ormai è proprietà di pezzi di merda, da cima a fondo. Solo che adesso è tutto legale e loro hanno le loro brave lauree e indossano completi da duemila dollari”. All’arrivo dell’uragano Katrina, siamo all’epilogo dell’ultimo capitolo di Streak, ma anche ad una svolta amara, dolente e ancora irrisolta nella storia dell’America. James Lee Burke, in un pagina accorata del libro, descrive così quei giorni drammatici: “Gli argini si ruppero e il grande bacino che circonda New Orleans si riempì d’acqua, di liquami e di rifiuti chimici. Intrappolati sui tetti delle case e nelle soffitte senza finestre, gli abitanti del Lower Ninth Ward del distretto di Orleans annegarono a centinaia, se non a migliaia. Se vi è capitato di ascoltare le registrazioni delle telefonate fatte da quelle persone nelle soffitte e sui tetti, non dimenticherete mai la disperazione nelle loro voci mentre l’acqua saliva”. Niente sarà più come prima e i toni crepuscolari di James Lee Burke racchiudono lo spirito di una citazione classica (che a lui dovrebbe piacere parecchio) dal De Rerum Natura di Tito Lucrezio Caro: “Il tempo per sé non esiste, ma sono le cose stesse a far nascere il senso del tempo, il pensiero di ciò che è compiuto, trascorso da noi, e di ciò che è preente e infine di ciò che sarà”. Il senso della tragedia corale, della scomparsa di un’intera città, della perdita di un’identità matura, proprio come dice il titolo, Prima che  l’uragano arrivi, per poi compiersi in un altro tempo, in un altro passato, quasi malinconico e fatalista, a cui Streak si abbandona citando l’indomabie amico Cletus: “Non si abbandona il paese in cui si è nati, né alle forze dell’avidità né alle calamità naturali. Le canzoni che portiamo nei nostri cuori non muoiono. La primavera tornerà, che siamo qui ad aspettarla o meno”. Una piccola, intensa lezione di umanità nel cuore del disastro. Un grande Streak. Uno struggente James Lee Burke.

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