martedì 25 maggio 2010

Cormac McCarthy

L'ultima frontiera che attraversa La strada di Cormac McCarthy è quella di un'apocalisse prossima ventura: nessuna forma di aggregazione sociale, risorse ridotte all'estremo, un paesaggio ridotto a cenere, polvere, fango, rottami e macerie. Come ci si è arrivati e quali sono gli antefatti è relativo anche perché molte immagine della Strada appartengono ai scenari di guerra che conosciamo fin troppo bene perché visti e rivisti in televisione, ma hanno anche le stesse coordinate della California devastata dagli incendi, dai terremoti e dall'aridità, non meno che dalle folli speculazioni descritta nei libri di Mike Davis, che non sono frutto della fantasia di uno storyteller. Dentro questo apocalittico universo, un padre e suo figlio viaggiano cercando di difendersi, come possono, dal freddo, dal fame, dalla fatica, dall'odio e dalla disperazione e  La strada non è altro se non il loro crudele diario di viaggio, passo dopo passo, momento dopo momento, un frammento di vita alla volta che Cormac McCarthy narra con una voce drammaticamente asciutta, nuda, scarnificata, persino schematica fino a fare della reiterazione di parole, frasi, episodi uno stile a parte. Il lirismo della Border Trilogy, la furia in puro stile Sam Peckinpah di Meridiano di sangue, persino le sequenze più feroci di Questo non è un paese per vecchi sembrano lontani ricordi perché la lingua, il tema, il ritmo della Strada è una sorta di mantra che dentro il ripetersi del ciclo di piccoli, lentissimi e dolorosi gesti quotidiani svela l'unica fiammella di speranza di tutto il romanzo, quell'infinito amore di un genitore verso il proprio figlio che resiste a qualsiasi catastrofe, cannibalismo compreso. Quell'esile barlume di speranza, che rilegge persino un gesto semplice come un abbraccio trasformandolo nel principale strumento di sopravvivenza, si staglia lancinante e commovente sugli orizzonti lividi, grigi, spettrali di una Strada che non porta da nessuna parte e che è popolata soltanto dalla polvere e dai demoni che ne emergono con un furia devastante. Molto umana e per niente naturale ed è quello che colpisce di quest'ultimo Cormac McCarthy: nessuna concessione, neanche nella scrittura, nel riconoscere l'homo sapiens come il principale nemico di se stesso e del pianeta in cui si è ritrovato a vivere. Quello che lascia La strada, in fondo, è solo "un tempo e un mondo presi in prestito e occhi presi in prestito con cui piangerli", che suona anche come un'elegante metafora di cosa può e deve essere la letteratura oggi, ma che forse non è altro che una sorta di malinconica, accorata elegia. Inquietante, profetico, magico. Un capolavoro.

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