venerdì 31 dicembre 2010

Cormac McCarthy

Terra di nessuno, paesaggio desertico, zona di confine tra gli Stati Uniti e il Messico, ma anche metaforica frontiera tra legalità e illegalità, e tra la vita e la morte: sono queste le coordinate che incrocia il Meridiano di sangue, e che ci consegnano Cormac McCarthy come l'ultimo dei grandi narratori dell'epopea del West americano. Sono gli stessi panorami, crudeli e selvaggi della Border Trilogy, e di Oltre il confine in particolare, con cui Meridiano di sangue condivide anche il personaggio centrale (che è sempre un ragazzo che deve diventare uomo). la violenza spietata di fuorilegge, sbandati e delle tribù indiane in guerra; il racconto della vita e del wildlife americano. Meridiano di sangue è, probabilmente, più duro: il ragazzo protagonista viene iniziato alla vita da una banda di cacciatori di scalpi che attraversa indifferentemente la frontiera a caccia di indiani e degli avversari più disparati. Personaggi misteriosi e inquietanti compongono la strana armata: un giudice che sembra avere tutte le soluzioni del mondo, un comandante folle e sciagurato, uno spretato. Volti picareschi che diventano feroci combattenti al momento giusto, cioè non appena i profili delle loro prede si delineano all'orizzonte. E allora si scatenano senza remore, parti integranti del paesaggio e dell'asprissima natura del deserto e la violenza rivela tutta una sua speciale democrazia perché le vittime “nelle mani dei loro barbari ospiti non avevano avuto né favore né discriminazione, ma avevano sofferto ed erano morti imparzialmente”. Ma è facile passare da cacciatori a cacciati e Meridiano di sangue, nella sua perfida bellezza, non smette un attimo di sottolinearlo, come si legge in uno dei tratti salienti del romanzo di Cormac McCarthy: “Ognuno di noi sapeva che da qualche parte in quella terra dimenticata da Dio c'era un torrente in asciutta o un cul-de-sac o magari un semplice mucchio di rocce dove prima o poi ci avrebbero inchiodati con le nostre pistole scariche”. Violento come un film di Sam Peckinpah, immaginifico come un libro di William Faulkner (l'autore a cui più spesso viene paragonato Cormac McCarthy), secco e asciutto come una canzone di Ry Cooder (o dei Los Lobos), Meridiano di sangue appartiene al border, la frontiera tra Stati Uniti e Messico, come il border stesso. Forse è vero, come si legge tra le righe di Meridiano di sangue che “nessun uomo può mettere tutto il mondo dentro un libro” però Cormac McCarthy, rispolverando un’epopea importante e significativa di tutta la cultura americana con un’arte narrativa ricca di colori, sfumature, personaggi, e più vicina alla vita che alla letteratura, ha saputo creare e/o ricreare almeno un mondo, in cui hanno trovato voce quei desperados che, una resa dei conti dopo l’altra, arrivano a capire che “il destino di ogni uomo è grande come il mondo che abita, e contiene in sé anche tutti gli opposti”. Una rivelazione dai toni biblici, tra le tante, che fanno di Meridiano di sangue una pietra miliare. Fondamentale.

William Least Heat-Moon

Prateria di William Least Heat-Moon somiglia a uno di quei manuali per pionieri che venivano distribuiti con generosità per popolare i trasferimenti verso il selvaggio West, con la differenza che in questo “reticolo” non si nasconde niente e non si vende nulla, non c’è alcun paesaggio “fantastico” in offerta speciale perché si tratta di una “topografia manuale della zona”. L’idea del reticolo e della profondità cercata in un quadrilatero del Kansas “è un bel modo di viaggiare: basta iniziare con una meta molto vicina, seguirla fino alla successiva rivelazione e continuare così finché le cose stesse non traccino una mappa, ovvero una sequenza di eventi che, invece di essere ben chiari davanti a sé prima di cominciare, si vedono solo a posteriori, ben ordinati in fila indiana dietro le spalle”. Si può credere che nasca da quella che Stephen Jay Gould definisce “curiosità minuziosa e infinita”, ma è lo stesso William Least Heat-Moon a rivelare, in fondo a Prateria, la sua genesi, che si è sviluppata più per istinto che con metodo, con un’idea semplice, breve e naturale: “Fa’ un piccolo viaggio di congiunzioni, di coincidenze, passa il tempo ad attraversare, o perlomeno a sfiorare, le latitudini e le longitudini altrui; e dal momento che non puoi occupare lo stesso posto degli altri nello stesso tempo, cerca di occupare lo stesso tempo nello stesso tempo”. L’appunto rivelatorio può apparire criptico una volta estrapolato dal contesto di Prateria ed è utile allora per comprenderne il “folklore” una definizione di un altro “compagno di viaggio” di William Least Heat-Moon, Joseph Brodsky: “La geografia combinata al tempo equivale al destino”. La sua essenza è anche in una domanda (e nella sua risposta) di Robert Penn Warren: “Che cos’è l’amore? Un altro nome per definirlo è conoscenza”. L’idealismo di William Least Heat-Moon dipende dalla stessa materia con cui sono fatti i miti americani della frontiera, del West, della strada, del territori, degli spazi che ricrea attraverso un diario di viaggio, una moltitudine di appunti in sequenze ravvicinate e riordinati con la grazia di un romanzo. Lo spirito di Prateria è racchiuso inoltre in una (bella) citazione di Ralph Waldo Emerson: “Noi viviamo in successioni, in divisioni, in parti, in particelle”. Ed è così che nasce un modello, uno stile, una forma, un vademecum per l’osservazione, il viaggio e la lettura che è stato in un certo senso, la nemesi di Strade blu: il vero racconto delle radici. La sua ricognizione è meticolosa e le citazioni letterarie, poste in epigrafe ai singoli capitoli, sono preziose e utili per sottolineare la natura delle fonti primarie a cui attinge William Least Heat-Moon, che ne riconosce anche i limiti perché, come scrive in uno dei passaggi centrali di Prateria “le biografie, la storia, la letteratura e tutte le arti sono, ancor più dell’autobiografia, pezzetti sparsi che, accostati, danno l’illusione della completezza: ne consegue che noi conosciamo le cose solo a brandelli”. Provare a metterli insieme, è la meta di Prateria

Jason Starr

Da pendolare per lavoro, Bill Moss diventa viaggiatore per omicidio dentro una New York spettrale, anonima e livida come le acque dell'Hudson. Pagina dopo pagina matura una tensione assurda che esplode in un finale senza alcuna traccia di speranza. L’atmosfera di Chiamate a freddo è noir, cupissima, pesante, ma non si tratta semplicemente di un thriller o di un poliziesco sebbene l'ambientazione, una New York che sembra perdersi nel bianco e nero degli anni Quaranta riporti proprio a quei temi. Al contrario la trama si svolge in tempi attuali e le scenografie sono claustrofobiche: gli interni di un ufficio di telemarketing, le carrozze della metropolitana, un appartamento troppo piccolo a cinque rampe di scale di distanza dal marciapiede. E' questo il territorio in cui si muove il protagonista principale del romanzo, Bill Moss, che, lasciando perdere ogni eufemismo, è un gran figlio di puttana: moralista e depravato fino alla schizofrenia, arrampicatore sociale, mentitore innato è un folle disperato incastrato in una città più grande delle sue illusioni. O forse è un normalissimo travet del telemarketing che considera valide tutte le opzioni (compreso l’omicidio) pur di far carriera e di mantenere in piedi il suo castello di deviazioni mentali. La sua struttura comincia a scricchiolare il giorno che viene convocato a rapporto e si sente dire: “Lei mi mette in una situazione molto difficile, Bill. Posso darle un'altra possibilità e lasciarla tornare al lavoro, oppure le posso dire di andarsene fuori dalle scatole. Se non riesce a darmi una buona ragione per continuare a tenerla, ho paura che dovrò procedere con il piano B”. Le apparenze, quegli strati formalità in cui il nostro Bill riponeva le sue speranze vanno in frantumi rivelando il suo disordine e la sua follia omicida. Sarà un’altra voce, questa volta giù in strada a dirgli chi è diventato (o chi è sempre stato): “Hai l’aria di quello che pensa di essere il migliore di tutti, mentre invece sei solo un pezzo di merda. Le merde come te le vedo tutti i giorni, in giro per le strade”. Qualcuno l’ha paragonato ad American Psycho di Bret Easton Ellis, e per certi versi ci siamo, ma qui c'è qualcosa di più: Jason Starr non ha bisogno di descrivere torture o versare litri di sangue per raccontare una violenza che è endemica alle metropoli e alla realtà economica del nuovo mondo. Punta tutto sui dialoghi, che sono taglienti e inquietanti e sui geometrici spostamenti di Bill Moss, che sembra seguire un percorso già stabilito dalla sua follia. Duro, spietato, forse fin troppo realistico: a doppio taglio, perché Chiamate a freddo non è per niente consolatorio, evita qualsiasi morale e lascia al lettore lo spazio ideale per trovare un posto tanto al Bill Moss delle prime pagine, quanto a quello dell'epilogo. Pochi e del tutto relativi i difetti: qualche lungaggine, qualche ripetizione che comunque non intaccano il ritmo che è da hard boiled school anche se qui i gangster sembrano le persone più normali e i poliziotti arrivano soltanto quanto tutto è ormai finito.

giovedì 30 dicembre 2010

Alistair MacLeod

Narratore canadese con lo spiccato senso del paesaggio, Alistair MacLeod con Il dono di sangue del sale perduto ha spinto Robert Stone a definirlo “uno dei più grandi maestri della short story”. L’autore di Porta di Damasco non è stato l'unico a spendere parole d'elogio e d'entusiasmo: per lui si sono concessi Margaret Atwood, Russell Banks, Alice Munro, Michael Ondaatje e Joyce Carol Oates, che è arrivata a scrivere la postfazione di Il dono di sangue del sale perduto. E’ l’effetto del fascino austero e crudo dei racconti di Alistair MacLeod: tutti ambientati nel microcosmo di Cape Breton, una cittadina minerara della Nova Scotia, dove montagne e oceano sembrano spiegarsi a formare uno scenario duro, freddo e ostico. In questa cornice, fondamentale nell'economia della narrativa di Alistair MacLeod, prendono posto famiglie umilissime di pescatori, minatori e taglialegna che si tramandano di generazione in generazione storie, viaggi, lavori, dolori, ricordi, canzoni. Il linguaggio usato, da loro e da Alistair MacLeod, è sorprendente: un puzzle di inglese, francese, gaelico con sfumature di una miriade di dialetti e di gerghi. E’ l’essenza del ritmo dei racconti di Il dono di sangue del sale perduto: è sufficiente cominciare da L'accordo della perfezione per lasciarsi incantare dall’andamento dei racconti, simile a quello di certe ballate, scandito dalle frasi frammentarie dei personaggi, dagli echi delle campane nei villaggi e delle onde dell’oceano, da strofe e ritornelli secolari e dai silenzi delle montagne e delle notti di neve. In questo paesaggio sonoro, prendono forma vite poverissime, tentativi di fuga, piccole e (più spesso) grandi tragedie che le famiglie di Cape Breton vivono sempre con immensa dignità. Alistair MacLeod, dal canto suo, le racconta con il piglio di uno storyteller: ovvero, come se fossero sempre esistite. Diventa quindi evidente in Il dono di sangue del sale perduto come il narrare sia per Alistair MacLeod una componente fondamentale della vita quotidiana e non uno sfizio intellettuale. Sono le storie il collante che tiene insieme il quadro generale, la cornice marina, i canti tradizionali e popolari, la “working life” quotidiana, le diverse generazioni di donne e di uomini e la natura degli animali e degli elementi, tutti legati da particolare identità della terra e dell’acqua in cui vivono. Il suo narrare, tra i toni dorati del crepuscolo e le ingenue certezze dell’infanzia, tra il fantasma di Elvis e gli immensi silenzi invernali, è simile ai gesti immaginari che si compiono quando “si cerca di riaccostare le rive di un fiume piccolo e appena scoperto affinché torni a essere sotterraneo. E’ qualcosa di simile, anche se si sa che la cicatrice futura sarà sempre all’esterno mentre il ricordo sarà sepolto per sempre dentro”. La descrizione serve a capire perché Joyce Carol Oates ha visto in queste short stories “tutto il mistero della vita e della morte”: lasciano il segno in profondità, come antiche ballate che non si dimenticano più.

lunedì 27 dicembre 2010

Sam Shepard

Un oggetto misterioso, una sequenza di racconti più che un romanzo a tappe, degna degli appunti presi per sopravvivere durante il Rolling Thunder. Forse la chiave di lettura è proprio lì perché La luna del falco è un libro (che è difficile definire come o cosa) che in realtà è un magnifico e appassionato (se non il più appassionato in assoluto) omaggio al rock’n’roll. A giudicare dall’inizio e dalla conclusione, nella wilderness e con le leggende dei nativi nell’aria, sembrebbe più uno dei viaggi “attraverso” di Sam Shepard incollato al volante e ai suoi pensieri ed “ecco cosa succede quando guidi sui percorsi lunghi, specialmente se sei solo. Guidare da solo consiste principalmente nel restar seduti e spostarsi insieme alla strada. E’ un tipo d’azione piuttosto stazionaria ma la macchina continua a muoversi mentre tu te stai seduto e ti si addormentano i piedi. La tua mente corre via come il motore, una cinepresa impazzita, ma il corpo resta al posto suo. Questo è il guidare”. L’argomentazione non è ripetitiva perché in questo caso vale la pena di ricordare che, come diceva Henry Miller in Big Sur e le arance di Hieronymous Bosch, “la nostra meta non è mai stata un luogo, piuttosto un nuovo modo di vedere le cose”. La luna del falco è visionario, frammentario, rapido e tagliente come può esserlo solo il rock’n’roll: caotico e brillante. Una collezione di istantanee “on the road” che infila una sequenza con un ordine tutto suo composto dai paesaggi into the great wide open ai Rolling Stones da rituali ancestrali ai cicli moderni, per non dire della Beat Generation. Se sei sulla strada, non si può dimenticare Jack Kerouac: “Un dolore come una pugnalata allo stomaco. Jack Kerouac è morto così. Canadese del Quebec. Io sono diretto in Canada. Patria di Jack. Il suo stomaco esplose e sanguinò per via degli eccessi. Io sono tre giorni che non bevo un goccio. Forse ho bisogno di un cicchetto”. Tanto per cambiare, ma in un viaggio “è in mezzo che c’è l’azione” e l’azione è il rock’n’roll o meglio Keith Richard (qui scritto al singolare perché sono due nomi propri, invece di nome e cognome) in mezzo c’è il ritmo (Keith Moon e Ginger Baker), c’è la rivoluzione (l’unica, vera rivoluzione del ventesimo secolo) di cui Sam Shepard scrive (almeno) due immaginifiche apologie, ovvero Rip It Up Ritmo. Il rock’n’roll è l’unica certezza perché nel resto, sembra di sentirlo Sam Shepard, “tanto vale dirlo, sappiamo ben poco del quadro totale, e questa è la verità”. Poco importa perché nel periodo della Luna del falco “i segreti incominciano a sussurrare” e Sam Shepard ha trovato un modo unico di raccontarli. Un modello di scrittura particolarissimo e risoluto che coltiva l’immagine come punto di riferimento, che costruisce “attraverso” lo sguardo d’insieme. Ed è molto “americana”: immediata, pragmatica chiara e nello stesso tempo caleidoscopica e psichedelica, la voce di Sam Shepard mantiene La luna del falco un diamante puro e grezzo anche a distanza di anni e in quello c’è ancora tutto il suo grande fascino. 

martedì 21 dicembre 2010

Jack Kerouac

Scriveva Gary Snyder, uno dei maggiori responsabili dell’introduzione mistica di Jack Kerouac, che la poesia può essere “l’abile e ispirato impiego della voce e del linguaggio per incarnare rari e possenti stati della mente che quanto all'origine immediata sono peculiari a chi canta, ma a livelli più profondi sono comuni a tutti quelli che ascoltano”. Non c'è dubbio che la poesia sia stata per Jack Kerouac uno strumento privilegiato, una voce segreta per comunicare quanto di più intimo ancora riusciva a salvare dalle alluvioni di parole della sua prosa. E' successo lo stesso per la sua conversione buddhista che lo vede protagonista in questo La scrittura dell’eternità dorata. Non è l'unico volume che recupera quest’angolo della biografia di Jack Kerouac per certi versi ancora indefinito, ma è il più agile e il più a portata di mano. Nella sostanza, è un lungo poema meditativo dedicato alla consapevolezza (un termine caro ad Allen Ginsberg, tra l'altro) della fragilità del mondo e, tra le righe, alla ricerca di un equilibrio superiore che, come giustamente scriveva Eric Mottram nell’introduzione a La scrittura dell’eternità dorata “in questo secolo, forse più che in ogni altro raggiungere la pace interiore nella gioia attiva ha significato chiamarsi fuori dalle strutture di potere del proprio tempo”. Non so quanto conti la traduzione, ma forse al posto della parola strutture, andavano molto meglio relazioni o situazioni (come insegnava Michel Foucault) che rendono di più il concetto e che sono più vicine a quanto esprime Jack Kerouac in modo piuttosto risoluto: “Quando hai compreso questa scrittura, gettala via. Se non riesci a comprendere questa scrittura, gettala via. Insisto che tu debba essere libero”. La libertà non è relativa soltanto all’architettura sociale o a quello che veniva chiamato, per riduzione e per semplificazione, sistema o establishment, ma è qualcosa di strettamente interiore, legato ai rapporti con se stessi, con gli altri e con il mondo. O meglio, alla consapevolezza che non esiste alcun rapporto: “Questo mondo è pellicola di ciò che tutto è, l'unico film, della stessa sostanza da cima a fondo, non appartiene a nessuno, ciò che è quanto tutto è”, scrive Jack Kerouac in La scrittura dell’eternità dorata e probabilmente non c'è niente di altrettanto vero, reale, tangibile. Per lui, cattolico e vagamente inconcludente sul piano religioso, il buddhismo non è altro se non una meta di una propria ricerca umana che l’ha portato sulle strade di tutta l'America e in giro per il mondo a vaneggiare talmente felice che migliaia e migliaia di giovani lo scoprono ancora oggi a più di quarant’anni dalla scomparsa. E non è un mistero che La scrittura dell’eternità dorata sia un piccolo gioiello di quest’esperienza e una sorta di utile manuale per capire il senso (o meno) della vita perché, come fa notare Jack Kerouac, “Einstein calcolò che il presente universo è una bolla in espansione, e sapete che cosa significa”. La matematica non sbaglia, solo la scrittura (dorata) può capirlo.

Henry Miller

E’ vero che Il colosso di Marussi è un libro dedicato a incontri e riflessioni, sempre con l'andamento altalenante e assolato dell'estate greca, ma lo stile ineguagliabile del grande scrittore americano, proprio in quell’atmosfera calda, luminosa e molto misteriosa, sembra intuire o scoprire molti segreti dell’arte e della vita, con un taglio quasi filosofico, come scrive in uno dei passaggi più lucidi: “Vivere creativamente, ho scoperto, significa vivere sempre meno egoisticamente, vivere sempre più dentro il mondo, identificandosi con il mondo e influenzandolo per così dire nel nocciolo. L’arte, come la religione, è soltanto, mi sembra adesso, una preparazione, una iniziazione al modo di vivere. La meta è la liberazione, essere liberi, che significa assumere una maggiore responsabilità”. All’ombra dell’Olimpo e godendo delle conversazioni con Ghiorghios Katsímbalis, il “colosso” che lo accompagna a scoprire le radici delle forme di civiltà e di cultura occidentali Henry Miller rilegge anche la natura più intima del narratore quando scrive: “Ho sempre pensato che l’arte di narrare consiste nello stimolare l’immaginazione dell’ascoltatore a tal punto che assai prima della fine egli annega nelle proprie fantasticherie. Le storie migliori che ho sentito erano senza senso, i libri migliori qulli di cui non ricordo la trama, le persone migliori quelle con cui non approdo a nulla”. Il vero titano sembra essere lui, Henry Miller, e può darsi, poi, che “il poeta è sempre un millennio in ritardo, e cieco per giunta”, come scrive in un altro angolo di Il colosso di Marussi, ma in questo libro è stato estremamente puntuale nel percepire un mondo in bilico. Non c’è dubbio che “anche un idiota può tracciare una linea”, la cui essenza è, sempre, “incomprensibile mistero”, poi c’è il genio che con Il colosso di Marussi riesce a rendere universale, senza tempo e “mitico” un viaggio mediterraneo. Diventa fondamentale, allora, conoscere in profondità quello che Henry Miller pensa sia rispetto alle contorsioni dell’arte (“La padronanza di una qualsiasi forma di espressione dovrebbe portare inevitabilmente all'espressione finale; la padronanza della vita”), sia verso le sedimentazioni storiche che si sovrappongono giorno per giorno (“Sono convinto che la storia ha molti strati, e che la sua lettura definitiva tarderà fino a quando non ci sarà restituito il dono di vedere passato e futuro come tutt’uno”) in una mappa tutta da decifrare. Laggiù, in punto indefinito dell’avventura nel Pireo, i tropici della vita s’incrociano e si ritrovano con i paralleli della storia e con i meridiani della narrativa che, proprio in Il colosso di Marussi, Henry Miller trasforma in una sorta di flusso sensoriale, denso di idee e affascinante nel linguaggio. L’aria intrisa di presagi, con la seconda guerra mondiale alle porte, ma anche i profumi e il calore di un viaggio crepuscolare e molto intenso si traducono in una prosa unica che fa de Il colosso di Marussi un classico della letteratura moderna.

lunedì 20 dicembre 2010

Raymond Carver

E’ stato il narratore blue collar per eccellenza, se non altro perché ha sempre dichiarato di essere un fan di Tom Waits e Bruce Springsteen: biglietto da visita relativo, ma sono pochi gli scrittori che confessano la passione per il rock’n’roll e Raymond Carver, tra questi, è stato quello più vicino alla poesia e alla scrittura intesa come mezzo per scoprire qualcosa in più di una bella prosa, qualche short story toccante, un modo elegante per rappresentare la vita. Già, la vita. Durante il suo ultimo discorso pubblico, il 15 maggio 1988, Raymond Carver spiegò con la consueta coincisione e chiarezza quale fosse il rapporto che intendeva tra vita e scrittura, offrendo una delle regole fondamentali (e indispensabile) per sviscerarlo: “Fate attenzione allo spirito delle vostre parole, delle vostre azioni. E’ una preparazione sufficiente. Non c’è bisogno di altre parole”. Forse è per questo che i suoi racconti sono condensati fino all’osso (anzi “al midollo”) e che più andava avanti, più somigliavano a poesie, come la stupenda Bretelle in Il nuovo sentiero per la cascata o tutto Blu oltremare e sono soltanto due tra le dozzine di esempi possibili: la sua scrittura sembra la ricerca di una luce, di una verità, con un’attenzione religiosa, ma che a tutti gli effetti è un solido, logico attaccamento alla realtà. Introducendo con Tom Jenks, American Short Story Masterpieces, diceva infatti: “Vorremmo avanzare l’ipotesi che il talento, il genio, addirittura, sia anche il dono di vedere quello che tutti hanno visto, ma vederlo in modo più chiaro, da ogni lato”. C’è tutto Raymond Carver in quest’idea di arte: né fiction, né interpretazione della realtà, ma soltanto una visione più nitida, più chiara o, soltanto, diversa. Dentro questa luce (blue) vive e resiste la miriade di personaggi sempre in lotta per la sopravvivenza, con un dramma alla porta, con vite che sembrano non risolversi mai. Non c’è traccia di consolazione, non c’è alcun happy end, non ci sono eroi memorabili: i racconti di Raymond Carver vivono e si nutrono soltanto di parole che sono l’inizio, la fine e il mezzo con cui si può salvare qualcosa. Nessuno come lui ha raccontato la vita blue collar, il linguaggio monocorde e scarno della provincia americana (come di tutte le province), i piccoli e infinitesimi drammi di uomini e donne che non sanno più cos’è quella piccola cosa chiamata amore, centellinando le parole perché “in definitiva, le parole sono tutto che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste, con la punteggiatura nei posti giusti in modo che possano dire quello che devono dire nel modo migliore”. Sarebbe da spiegare a tutti quei pseudoscrittori che si dicono posseduti dal linguaggio (neanche fosse un demonio) e riempiono pagine su pagine, romanzi su romanzi, libri su libri, di un vuoto che è, appunto, un vuoto. Dovrebbero seguire la lezione di Raymond Carver perché c’è un mondo là fuori (o qui dentro) che nel suo quotidiano tirare avanti offre una storia più bella dell’altra: “Presto dentro, presto fuori. Niente indugi. Avanti”. Indimenticabile.

venerdì 17 dicembre 2010

Jonathan Dee

La ricerca della felicità è un obbligo esistenziale e costituzionale per ogni americano che si rispetti e per niente al mondo la famiglia Morey vuole essere un’eccezione. Adam e Cynthia sono gli stupendi esemplari di gente che “tendeva a non mettere in dubbio i propri desideri” e che è votata ad arrampicarsi su tutti i luoghi comuni pur di avere fortune sempre sufficienti a soddisfare qualsiasi esigenza, dall’imprevista malattia di un lontano parente a un appartamento a Londra per i week-end, perché la famiglia viene prima qualsiasi altra cosa. In effetti anche i loro pargoli, April e Jonas, “hanno tutto. Non sanno quanto sono fortunati. Carini, contenti, beneducati. Tutto va come dovrebbe andare, non hanno idea di come vive il restante novantanove per cento”. Nella realtà non importa nemmeno saperlo perché “il destino non c’entrava; il destino era una stronzata. Era il potenziale di un momento e cosa ne facevi. Un potenziale inespresso era qualcosa di tragico”. La matematica a questo punto chiede di sapere cosa ci vuole a mantenere non soltanto l’attico con vista sul planetario di New York City, gli autisti a disposizione giorno e notte, il jet privato, il resort privato e le immancabili beneficienze ma anche l’idea stessa di essere privilegiati. E’ il duro lavoro di Adam a rifornire e garantire i fondi della famiglia e non ci vuole molta immaginazione a capire che l’unico modo per smuovere tutti quei capitali sia la speculazione finanziaria ai massimi livelli, quelli che comprendono il coinvolgimento di interi stati sovrani. Sono quelli, e solo quelli, i numeri che contano, “il resto è puro e semplice teatro” e infatti i prilegiati coltivano la menzogna, il sotterfugio, l’ipocrisia con una dedizione ammirevole. Adam compra per la famiglia un’intera villa ai Caraibi, che a lui serve per le puntuali transazioni lontane da occhi e orecchie indiscreti. Cynthia, la più generosa, spiana gli incidenti adolescenziali di April a colpi di avvocati e addetti stampa e liquida la compagna del padre, sul letto di morte, con due cifre: l’importo e il numero di telefono di chi lo liquiderà. Per non dire dell’artista di casa, Jonas, che passa dal Gibson Les Paul all’art brut, offrendo alla fidanzata universitaria un intero appartamento (e sopra il divano ci mette un Picasso originale, regalo della sorella di passaggio). La voce con cui Jonathan Dee racconta l’ambigua famiglia Morey è lineare, priva di effetti o allusioni, precisa e accurata: una specie di campo lungo che, sequenza dopo sequenza, riesce a inquadrare con estrema efficacia tutti gli strumenti preconfezionati, i tic, le abitudini di privilegiati a cui non importa tanto il beneficio di poter realizzare, nel volgere di una firma su un assegno, l’ultimo dei sogni. “Presto avremo anche noi le stesse cose. Ci vuole solo tempo” dice Cynthia ai figli ed è questa sicurezza il tratto in cui I privilegiati si fa chiarissimo e rivelatorio, senza un filo di moralismo. E’ il privilegio in sé che paga (tutto) e assolve (sempre). Per gli altri (e per la coscienza), basta (e avanza) la beneficienza. 

mercoledì 15 dicembre 2010

Larry McMurtry

Lonnie, giovane cowboy che sta rapidamente crescendo, vede svolgersi tutta la vita e la morte e il tempo che le collega nel ranch del nonno: piccole incombenze quotidiane e grandi tragedie, a partire dallo sterminio del bestiame, si susseguono nello scenario intenso e crudele del Texas, incrociando i passi degli uomini, che non sempre vanno nel verso giusto. Una voce di Hud il selvaggio lo dice in modo più prosaico e senza usare mezzi termini: “Le cose non vanno come dovrebbero, ecco tutto. C'è tanta di quella merda in questo mondo che uno prima o poi ci finisce in mezzo per forza, che faccia attenzione o meno”. Solo un grande scrittore, un narratore con la sensibilità e il gusto per le immagini, per i dialoghi e per l'ambiente, uno storyteller che è sempre molto vicino ai suoi personaggi, come se fossero vivi, come se fossero reali, poteva immaginarsi la vita in un ranch del Panhandle, ovvero il Texas più profondo, come un sistema solare. Sostituendo i pianeti con gli uomini e le donne che ruotano attorno ad un sole effimero chiamato di volta in volta felicità, prosperità, amore, si avrà lo schema alla base dello scenario di Hud il selvaggio, romanzo d'esordio di Larry McMurtry, datato 1961, che inaugurò la fortunata carriera di uno scrittore amatissimo dal cinema (a partire da L’ultimo spettacolo, da cui Peter Bogdanovich trasse uno dei suoi film migliori). La trama è un intreccio di passioni, iniziazioni, deviazioni che Larry McMurtry annoda con un gusto certosino, quasi macchiavellico, ma che poi snocciola con una scrittura florida, ritmata piena di odori, di sapori e di tutto ciò che Lonnie, il giovane protagonista, riesce a vedere e a sentire. Comprese ovviamente le malefatte di Hud, un ribelle fuori posto, e il crepuscolo del nonno, il proprietario del ranch, che se ne va insieme a tutto il suo piccolo mondo antico. Larry McMurtry cesella una storia dentro l’altra con un linguaggio molto lineare e immediato, ma che salda dialoghi, immagini e azione in un intreccio densissimo di cui si riescono a percepire tutti i particolari solo per l'innata propensione dello scrittore texano a vedere e a mostrare, quasi che la scrittura fosse lo strumento per decifrare una visione. Un peso specifico non relativo l’hanno anche le canzoni di Hank Williams che sembrano onnipresenti nell’aria del Texas. Quando al gran ballo del villaggio, l’orchestra suona Ghost Rider In The Sky, la canzone s’intona “con tutto meglio, di qualunque altra cosa. Le poche storie che la gente sulla pista da ballo poteva raccontarsi erano già state raccontate nelle canzoni come quella, e la loro vita, e le cose che sapevano e per le quali viveavno era già descritte in quella triste, antica melodia”. Per Hud il selvaggio, qualcosa in più di un colonna sonora: un grande romanzo, invecchiato come si concede ad un vino speciale, perché ancora a distanza di più di quarant’anni Hud il selvaggio riporta in un libro sapori forti e pungenti, rimasti tutti intatti e che ormai hanno anche il gusto della rarità. 

martedì 14 dicembre 2010

Neal Cassady

Nella sua vita errante e apparentemente inconcludente, Neal Cassady ha ribaltato il concetto di eroe americano. Con lui, costantemente nascosto tra le pieghe di romanzi, poesie e vite altrui (a partire da Jack Kerouac), l’eroe non è chi persegue uno scopo, quale che esso sia, fronteggiando tutte le difficoltà a testa alta fino ad arrivare alla fine. E’ piuttosto chi sceglie di vivere la vita, di seguirla negli anfratti più strani, per scoprirla e per scoprirsi in luoghi impensabili, come racconta uno dei passaggi migliori dei vagabondi: “Ero tutto preso nel leggere le lunghe colonne che elencavano città e stati, nel confrontare la loro posizione geografica sulla grossa mappa, e in modo particolare mi interrogavo sui diversi cognomi e la loro origine: i destini di quegli uomini mi erano tutti sconosciuti e sognando a occhi aperti la diversità delle sorti possibili per la prima volta mi sorpresi della vita”. Composto, più che scritto, tra il 1948 e il 1954, I vagabondi racconta l’inseguimento di una libertà assoluta che è prima linguistica e letteraria e poi esistenziale, e non il contrario. Perché Neal Cassady, “rapirto dalle parole e dai pensieri”, gioca con le frasi, le immagini, i resoconti giornalieri del suo diario, le lettere agli amici (lo stesso Kerouac e Ken Kesey), con la scrittura vera e propria nello stesso modo in cui amava guidare: senza mai toccare i freni. Ha assolutamente ragione Lawrence Ferlinghetti a definirla “una saga americana”, termine che con ogni probabilità non comprende soltanto l’autobiografia e il romanzo, ma la vita reale di Neal Cassady, nato in viaggio, innamorato mille volte, sposato tre, tentato suicida molte altre di più, fino a quando non ce l’ha fatta. Era già oltre il confine in Messico, nel 1968, quando Allen Ginsberg lo salutava così: “O.K., Neal, spirito etereo, lucente come l'aria che muove azzurro, come alba di città, felice come la luce, emanato dal giorno, sulle nuove case della città”. E’ proprio ad Allen Ginsberg che Neal Cassady confessa nell’autunno del 1963 la sua vera vocazione, la velocità: “Be’, mettiamolo nero su bianco. Voglio ancora fare il corridore automobilistico. Non è una cosa simbolica di questo secolo e dell’altro?”, e la domanda nella sua espressione retorica è fondamentale. Contiene il soffio vitale di Neal Cassady, declamato “in modo molto sicuro, del tutto soggettivo, personale” perché poteva essere soltanto così, usando le pagine dei suoi diari e le lettere all’amico e alter ego Jack Kerouac per dare forma ad na convulsione in prosa che sembra non avere fine, un rito che toglie il fiato, come se fosse un assolo di Coleman Hawkins. Alla velocità serviva spazio e quindi la strada, il viaggio, i treni presi al volo, gli autobus e un cielo che sembra inseguirlo ovunque mentre cerca la sua folle beatitudine: con I vagabondi si rende giustamente omaggio ad un outisider della letteratura americana che però ha lasciato tracce indelebili di quel sogno che continuiamo a chiamare Beat Generation. 

lunedì 13 dicembre 2010

John Cage

Se uno scrittore si misura dalla proprietà del linguaggio, dall’essenza con cui articola le idee, dal grado di creatività e di coraggio con cui si inventa uno stile, John Cage è un grande scrittore. Va da sé che in una normale biografia sarebbe conosciuto (solo) come musicista, ma Silenzio rivela un pensatore capace di alternare i piani di lettura e di influire in modo molto incisivo sulla scrittura. Lo scompaginamento, il disorientamento e le provocazioni sono continue, eppure legate tra loro da un’anedottica degna dei migliori storyteller, ma non è questo lo snodo principale, anche se molte, se non tutte, delle storie che racconta a pié di pagina sono pregevoli. E’ la coscienza di una sintesi tra le forme e la loro evoluzione che John Cage spiega con l’associazione tra grazia e chiarezza: “La grazia forma un binomio inscindibile con la chiarezza della struttura ritmica. Insieme intrattengono un rapporto simile a quello di anima e corpo. La chiarezza è fredda, matematica, disumana. La grazia è calda, incalcolabile, umana opposta alla chiarezza e simile all’aria”. Tenendo fede a questo limpido mandato, John Cage riesce a trasmettere con rara chiarezza e altrettante grazia anche idee, concetti, provocazioni piuttosto complessi, senza perdere il gusto del nonsense, degli haiku (“Possiamo volare soltanto se siamo disposti a smettere di camminare”), dell’ironia. Con tutta una sua concezione della prosa e della poesia che teorizza così: “La poesia non si differenzia dalla prosa soltanto perché è formalizzata in un modo o nell’altro. Non è poesia a causa del contenuto o per la sua ambiguità, bensì perché permette agli elementi musicali (il tempo, la sonorità) di entrare nel mondo delle parole”. Anche l’uso delle pagine, delle righe e delle colonne, della punteggiatura è uno stimolo, ed è uno stile. Sulle conferenze, i suggerimenti e le lezioni ci si può ragionare altrove (qui siamo più prosaici e meno rigorosi rispetto alle vibrazioni musicali, anche se condividiamo il suo pensiero quando dice: “La musica è edificante perché di tanto in tanto fa lavorare l’anima. L’anima è l’agglutinante di elementi disparati e il suo lavorio di riempie di pace e amore”) ma anche nelle dissertazioni più avant-garde John Cage ha tutto un suo modo di spiegare e raccontare. Superando anche i luoghi comuni della sperimentazione e delle estrapolazioni (linguistiche o musicali) perché “una persona non fa solo un esperimento, ma quanto va fatto. Con questo intendo dire che uno con le sue azioni non cerca soldi ma quanto va fatto, non cerca con le se azioni di ottenere la fama (il successo) ma quanto va fatto, non cerca il piacere dei sensi (la bellezza) ma quanto va fatto, non cerca con le sue azioni di fondare una scuola (la verità) ma quanto va fatto”. Nelle sue pagine sghembe, curiose, divertite e Silenzio racchiude l’autobiografia di un genio musicale (“Abbiamo occhi quanto orecchie, e finché siamo vivi siamo tenuti ad adoperarli”) così come di un brillante filosofo (“E’ per questo che amo la filosofia: non vince mai nessuno”) che solo un grande scrittore poteva tenere insieme. 

venerdì 3 dicembre 2010

Walker Percy

John Bickerson Bolling, meglio noto come Binx è una sorta di fuggitivo dal mondo, una specie di pellegrino che vuole evitare tutti i drammi emotivi mantenendo una sorta di celebrata e condivisa “mediocrità” al di sopra di tutti gli eventi, cercando una monotonia persino negli affetti e nei sentimenti e cambiando le fidanzate così come cambia le segretarie (che, nei sentimenti, e non a caso, coincidono). Un vero e proprio outsider per cui “tutto è sempre capovolto”. Punto di riferimento chiave della sua esistenza, oltre alla location piuttosto particolare (New Orleans nei giorni del Mardi Gras), è il cinema che per Binx diventa anche un mezzo per crearsi una propria immagine delle persone (la zia, Sharon, lo zio Jules e più di tutte, Kate) quasi volesse “ridurle” a un suo particolare microcosmo. Atteggiamento che ha il suo zenith nella gita al mare con Sharon (nemmeno l’incidente stradale gli impedisce di continuare a procedere con i suoi piani) e il suo punto più basso nella realizzazione del rapporto con Kate (e di riflesso con la zia) quando il mondo dell’Uomo che andava al cinema è ormai destinato a disintegrarsi, epilogo annunciato con ampio margine di sicurezza. Tra questi due estremi l’intenso, quanto breve, momento passato con il fratellastro Lonnie, un altro “sofferente”, per ragioni fisiche, con cui Binx riesce a costruire un rapporto edificante e per certi versi più sereno di tutti gli altri legami sparsi durante la storia. E’ la morte di Lonnie, forse, da intendere come la definitiva conclusione dell’esperienza di Binx che, a questo punto, conclude la sua ricerca (senza per questo aver raggiunto alcun risultato in qualche modo tangibile) e si adegua al ritmo imposto dagli eventi e dalle persone a cui è legato, per un motivo o per l’altro. Smette di andare al cinema, una conseguenza inevitabile, e si ritrova davvero “estraneo” quando i protagonisti che lo circondano, Kate in primis, diventano reali e non più vaghe immagini della sua “mediocre” fantasia. La conclusione è drastica: “Oggi è il mio trentesimo compleanno e sono seduto sulla giostra nel cortile della scuola, aspetto Kate e non penso a niente. Ora, all’inizio del trentunesimo anno del mio tetro pellegrinaggio sulla terra, sapendo meno di quanto ne abbia mai saputo, avendo imparato solo a riconoscere la merda quando la vedo, vivendo in realtà nel secolo stesso della merda, il grande cesso dell’umanesimo scientifico dove i bisogni sono soddisfatti, dove ognuno diventa uno qualsiasi, una persona calorosa e creativa, e prospera come uno scarafaggio stercorario, e dove gli uomini sono morti, morti, morti; e dove il disagio occupa perennemente il cielo come una pioggia di pulviscolo radioattivo e dove la gente teme in realtà non che si faccia esplodere la bomba ma che non lo si faccia, in questo giorno in cui compio trent’anni, non so nulla e non mi resta altro da fare che cadere in preda al desiderio”. E’ proprio la sua voce, e dovrebbe bastare a comprendere la grandezza di Walker Percy.

giovedì 2 dicembre 2010

Victor Gischler

Nelle paludi dove i Mudcrutch si sono formati, poi sciolti e poi ricostruiti, non c’è margine di trattativa. Un ambiente suburbano fatto di locali di infima categoria, (pessimi e pericolosi) rock’n’roll show (Tom Petty, appunto, si è costruito una reputazione laggiù), quartieri anonimi, bar dove la vita si ripete all’infinito. La distanza tra Gainesville e Orlando, Florida dove modelli diversi di bande (quelle di Victor Gischler) affilano ben altra esperienza si misura in un paio di centinaia di chilometri, ma si tratta pur sempre della stessa, disperata geografia. L’humus ideale in cui Charlie Swift, protagonista della Gabbia delle scimmie, deve far fronte ad un travolgente susseguirsi di inganni, errori e altri misfatti che portano, neanche a dirlo, lui e tutti i disperati come lui a trovarsi dalla parte sbagliata di una pistola. In realtà non è nemmeno facile capire quale sia quella giusta anche se Charlie Swift detto anche il Sarto rimane fedele fino in fondo al suo boss e alla sua limitatissima visione dell’esistenza e del “lavoro”: “Ero abituato a lavorare con una certa professionalità, io. Forse per questo preferivo lavorare da solo. O forse era perché non mi piaceva la gente”. È il capitano che affonda con la nave e rimane in prima linea fino all’ultimo cadavere, sempre nella speranza che non sia il suo, ma la sua coerenza è unica e, agli occhi di tutti gli altri, anche fuori posto. La trama è spessa e contorta proprio perché tra doppi e tripli giochi, agenti infiltrati e traditori, pasticci e impiastri vari (come ricorda qualcuno: “il marcio è dappertutto”) è difficile tenere il conto, ma a tutti gli effetti non è neanche necessario. Charlie Swift deve far sparire una persona e per un veterano del suo calibro dovrebbe essere ordinaria amministrazione. Però si dimentica qualcosa, o forse è troppo tempo che fa lo stesso lavoro e la storia comincia a prendere una piega imprevedibile e piena di incognite: le armi si accendono e non si spengono più. Già dopo le prime pagine ci si trova invischiati in una lunga teoria di omicidi, sparatorie, torture, tutto il vocabolario più efferato delle gang malavitose e quindi si va giù duro con pistole e fucili sempre caldi e abbondanti, che Victor Gischler descrive e maneggia con cognizione di causa in calibri, manovre e (devastanti) effetti finali. Non si tratta di un elemento secondario perché come ama dire Charlie Swift, se c’è qualcosa di importante sono “i dettagli. Questo distingue i professionisti dai coglioni qualunque. I dettagli”. Nella Gabbia delle scimmie è difficile trovarne uno fuori posto, tanto che, più che un romanzo, sembra già un film: frulla fotogrammi di Sam Peckinpah, Martin Scorsese e Quentin Tarantino in un’ipotetica  e passionale carrellata sulla storia dei gangster movie. Univoco in questo senso perché il ritmo forsennato non risparmia nessuno, inchioda il lettore alle pagine dall'inizio alla fine non concede lo spazio per altre considerazioni, nemmeno per rifiniture di stile o deviazioni di percorso. Una macchina infernale che stritola tutti i cliché e i luoghi comuni delle storie noir e/o hard boiled in una centrifuga che funziona a pura adrenalina. Come se già fosse un film.

 

mercoledì 1 dicembre 2010

Jim Harrison

La “cronaca di una morte annunciata”, quella di Donald, un uomo che amava la vita come la terra, schiude una rete di legami, di affetti, di storie che sono qualcosa in più di una famiglia e rappresentano la vera anima e il senso ultimo dell'esistenza. Nell’assecondare l’attesa della morte, ormai inevitabile, le moglie e i figli ricostruiscono intere vite e condividono fino in fondo Donald “la religione in gran parte non detta” che in realtà è un inno alla gioia di vivere. La sua logica è sempre stata molto semplice: “Se un uomo vuole fare qualcosa è meglio che ci dia dentro” e lui non si è mai tirato in dietro. Di più, ha sviluppato ha compreso che gran parte della nostra vita, se non proprio tutto, avviene nella nostra testa e confessa di aver speso molto del suo tempo “nel controllare la realtà e assicurarmi che sia quello che credo che sia e di norma mi piacciono le zone più remote dove la mente vuole portarmi”. Un personaggio che contiene già un romanzo, anche se poi la questione è un po’ al contrario. “A me piacciono le storie con dentro le persone” dice uno di loro e sembra più una confessione di Jim Harrison che della voce di uno dei personaggi perché agganciando ricordi su ricordi non riprende forma soltanto la vita del predestinato, ma anche quella di tutte le altre esistenze che, in un modo o nell'altro si sono intersecate con la sua. Come il coro di un tragedia, le voci dei personaggi si sovrappongono, una dopo l'altra, senza soluzione di continuità, a creare una sinfonia, una “sola” voce che racconta il sogno, la realtà, la vita, la morte: quando mangiano, quando viaggiano (due delle attività fondamentali per i personaggi del romanzo) è uno scorrere di tentativi, di emozioni, di ricerche, un modo di restare legati alla terra, all'anima di chi se ne va, ma anche a se stessi, come se fosse l'insieme a determinare la personalità, l'anima stessa. E’ proprio qui il senso del romanzo: nella differenza tra “reale valore” e “puro costo”, due metafore di derivazione economica che però Jim Harrison utilizza per spiegare il senso dei legami perché “quella che consideriamo la realtà comune ha bisogno del contatto e della rassicurazione di altri” e di volta in volta dobbiamo decidere in quale colonna, valore o costo dobbiamo iscrivere i nostri dati. “Non si può essere certi di chi siamo” si legge  infatti ad un certo punto e si capisce anche perché L’amore ai tempi del colera di Gabriel Garcìa Màrquez ritorna con una certa frequenza. Nelle prime pagine di quell’atipico romanzo di Gabo si legge: “Ognuno è padrone della propria morte”. E’ il senso ultimo del ritorno alla terra, perché a differenza di come è stata affrontata in tempi recenti dai coetanei Richard Ford e Philip Roth la morte è vista come scelta (“Puoi ricordarmi ma lasciami andare”, dice Donald allo scoccare dell’ultima ora), così come la vita che viene illuminata dalla fine, così come il romanzo è si conclude e si accende quando è il momento di “salire sulla collina”. Toccante e attualissimo.

lunedì 29 novembre 2010

Don DeLillo

Don DeLillo cominciò a lavorare ad Americana nel 1966 e continuò per quattro anni, “scagliando le parole sulle pagine”, come ha detto lo stesso autore. Pubblicato per la prima volta nel 1971 e in seguito in un'edizione rivista (e tagliata da Don DeLillo in persona di una decina di pagine) Americana è un viaggio on the road che non ha nulla da spartire né con gli storici precedenti né con le cicliche e successive imitazioni. La trama è esigua: Dave Bell è un giovane produttore televisivo con base a New York a cui la propria vita comincia a dare la nausea. Le voci di corridoio, il rumore di fondo delle feste (“Eravamo lì per incontrare gente interessante con cui chiacchierare, quindi rivederci alla fine della serata e dirci quanto ci eravamo annoiati e com'era bello ritrovarsi. E' questa l'essenza della civiltà occidentale”), le sbrigative pratiche sentimentali, il sottofondo impersonale ed insistente della televisione lo spingono a compiere “il grande balzo nelle profondità d'America”. Con pochissima olografia e senza retorica: l'umanità e il paesaggio visti da Dave Bell passano attraverso l'obiettivo della sua cinepresa portatile, nel tentativo di ricreare qualcosa di irrimediabilmente perduto. Lui e i suoi compagni di viaggio ammettono candidamente: “Non avevamo tempo per ricordare niente”, e forse anche un film può contribuire a costruirsi un bagaglio di memoria, di storia, utile a capirsi trent'anni dopo. L'interpretazione è stata suggerita dallo stesso Don DeLillo in un articolo uscito un anno dopo la pubblicazione di Americana, romanzo talmente proiettato nel futuro che ritorna costantemente nelle sue riflessioni. In un'intervista del 1993 ha provato a darne una definizione più completa: “Non è un caso che il mio primo romanzo si chiami Americana. Era una personale dichiarazione d'indipendenza, la dichiarazione ufficiale della mia intenzione di usare l’intera immagine, l’intera cultura. L’America era ed è un sogno di immigranti, e come figlio di due immigranti ero attratto dal senso di possibilità che ha trascinato i miei nonni e i miei genitori”. Per capire dove quel sogno è diventato paranoia bisogna seguire David Bell fino in fondo, nelle ultime righe, quando, così vuole la coincidenza, si sta muovendo nel centro di Dallas: un percorso destinato a diventare un enigma e un luogo da cui ha preso forma il successivo romanzo di Don DeLillo, Libra, ma questa, come si dice sempre, è tutta un'altra storia. In apparenza Dave Bell è concentrato sul suo viaggio (“Giorno dopo giorno, mi sento sempre più profondo. Spesso mi sento alle soglie di grandi rivelazioni filosofiche. Sull’uomo. La guerra. La verità. Il tempo. Per fortuna, finisco sempre per tornare a me stesso”) almeno quanto DonDeLillo, attraverso il suo protagonista, è teso a capire e spiegare una nazione spaccata tra un passato tutto da costruire e una modernità fin troppo evanescente che gli fa scrivere “l’America può essere salvata solo da ciò che cerca di distruggere” e il senso di Americana (sia il romanzo, sia, nello specifico, il termine) forse sta tutto lì.

venerdì 26 novembre 2010

Richard Yates

Richard Yates non è uno scrittore a cui è stato concesso molto (almeno quando era in vita) non meno di quanto si sia concesso lui. Un certo rigore, ai limiti dell’autolesionismo, si percepisce distintamente leggendo questi racconti (ancora di più i romanzi, tra cui il fondamentale Revolutionary Road) e si traduce in una narrativa contagiosa che ha influenzato, tra gli altri, Richard Ford, Tobias Wolff, Robert Stone. Non uno scrittore qualsiasi, quindi: la sua scrittura è sempre un confronto con l'inadeguatezza, che in Undici solitudini sembra essere il destino ultimo della varia umanità che lo popola. Più beffardo, che drammatico. I personaggi di Richard Yates anelano infatti a fare la cosa giusta, ma finiscono sempre per farne un’altra, quella sbagliata. C’è qualcosa che va al contrario nelle loro intenzioni, un piano inclinato che improvvisamente si mette di traverso e che Richard Yates non risparmia a nessuno. La loro goffaggine, a volte surreale, altrimenti crudele, sempre e comunque disarmante, è raccontata senza filtri anche perché la considerazione del genere umano di Richard Yates è piuttosto esplicita, e nemmeno tanto edificante: “Se il mio lavoro ha un tema, sospetto che sia un tema molto semplice. Gli esseri umani sono irreparabilmente soli, e lì c'è la loro tragedia”. La solitudine non è vista come una condizione esistenziale, un momento della vita, piuttosto come un elemento disgregante, una sintesi delle frustrazioni, delle ambizioni e degli orizzonti perduti di una civiltà, di una nazione, di un mondo. Non c'è sogno americano che tenga, non c'è terra promessa. Richard Yates non concede nulla nemmeno ai suoi personaggi, l’happy end non è né previsto né preso in considerazione e le sue “solitudini” sono amare, e basta (nemmeno tristi, neanche malinconiche, spesso, invece, piuttosto livide), ma hanno l'importanza da chi vede il mondo da una prospettiva particolare, davanti a tante esistenze e a tanti mondi che non fanno altro se non mascherare il proprio fallimento, la propria inadeguatezza, nascondendosi dietro certe condizioni di luce. Sarà per quello che i racconti di Richard Yates si aprono davanti al lettore come scenari teatrali: nella cornice dettata dalle convenienze e dalle consuetudini, irrompe il disturbo, la frattura e persino l’assuefazione diventa un problema. Le immagini si svolgono su un ritmo secco, preciso, scandito nitidamente dalle parole e dalla loro organizzazione della scrittura. Un ritmo che, a differenza delle logiche di molta letteratura di consumo, non si vuole imporre, non cerca di trascinare (il lettore), ma lo accompagna passo per passo in un mondo dove regna sovrana l’inadeguatezza del genere umano, la stessa che Richard Yates rifletteva per sé e per tutti così: “Nessuno di noi sa mai quanto tempo gli rimane, né come sarà in grado di usare questo tempo, e in ogni caso, anche se lo userà bene, il suo lavoro dovrà sempre affrontare la terribile, inesorabile indifferenza del tempo stesso". Un grande scrittore.

James Agee

Il giovane Richard, adolescente portato all’introspezione, deve misurarsi con l'intenzione di vegliare tutto il venerdì di Pasqua. Il proposito nasce anche “dalla paura e dall’orrore che gli procurava la sola idea che altri, qualunque altro al mondo, potesse conoscere le assurde fantasie del suo cuore”. Nell’atmosfera di ombre e silenzi della notte, Richard si scopre a dialogare su una linea metafisica che separa maledizione e innocenza con toni tutt’altro che infantili. “Nessuna cosa ne compensa un’altra. Confessa che tu invece lo avevi creduto. Cercò d’immaginare come confessarlo. Sono caduto nel peccato d’orgoglio e in qualche altro peccato che ignoro” dice mentre si avvia ad affrontare il crepuscolo della sua ingenuità. Una specie di atto di fede che si sviluppa in tre capitoli, durante i quali Richard diviene sempre più “consapevole del proprio fallimento e della notte”. La storia funziona benissimo (e sembra di vedere le radici più antiche di Stand by Me ) e ha un ottimo finale, ma come annota William Rewak nella postfazione, ogni paragone con Sia lode ora a uomini di fama  è controproducente perché La veglia all’alba “non ha la stessa ampiezza, gli stessi tratti audaci, le stesse aspre contrapposizioni di colori, ma esteticamente è più maturo con le sue tinte tranquille, con l'uso attento delle immagini che mirano a suggerire più che a evidenziare le opposte realtà, con le sue pennellate delicate, quasi tenere, e con sua consapevole intenzione di costituire un'opera d'arte, ordinata e formale”. Molto curiose anche le reazioni che seguirono all'apparizione di un nuovo e scomodo adolescente americano, pronto a far compagni ai vari Holden o Huck Finn: qualcuno ci vide una sorta di rifiuto dell'american dream, altri un'addio all'innocenza, che non guasta mai. E' forse più probabile invece che il senso elegiaco de La veglia all’alba e quel continuo tentativo di confrontarsi con la morte siano dipesi dalle tensioni vissute da James Agee. “L'umanità in generale è ancora largamente inconsapevole della situazione in cui si è venuta a trovare. Si parla molto di come rinchiudere il nuovo mostro in una gabbia indistruttibile, ma pochi ammettono che il vero mostro è la razza umana” scriveva nel novembre 1945, e il mostro in questione è la bomba atomica che, soltanto un paio di mesi prima aveva cambiato completamente la percezione della vita e della morte. E’ anche per questo che dietro al breve e classico romanzo d'iniziazione, che suonerà un po’ strano per chi ha conosce James Agee solo attraverso Sia lode ora a uomini di fama, La veglia all’alba è anche il caso raro e atipico di uno scrittore dichiaratamente comunista e pieno di domande, come è giusto che sia (“In che modo siamo rimasti intrappolati? dove, lo sbaglio che abbiam fatto? cosa, come, dove quando, in che modo, tutte queste cose avrebbero potuto essere diverse, se solo avessimo agito? se solo avessimo saputo” scriveva in Sia lode ora a uomini di fama.) che affronta un tema di fede, con tatto indiscutibile e grande lirismo. 

Edward Bunker

L’educazione, se si può chiamare così, di Alex Hammond, il nostro Little Boy Blue, è una lunga, crudele e spietata teoria di case di correzione, affidamenti, manicomi, riformatori, ghetti e vicoli ciechi. Qualcosa che si può scoprire anche nella stessa autobiografia di Edward Bunker, Educazione di una canaglia (dove confessa senza censure quel disagio che è nello stesso tempo la spinta principale che lo tiene aggrappato alla vita: “Io non avevo nessuna idea di ciò che volevo, tranne che sentivo in me la rabbia di attraversare le esperienze della vita e un desiderio altrettanto potente e urgente di conoscenza”) o altrimenti in Cane mangia cane o Come una bestia feroce. In fondo, il mondo che racconta Edward Bunker è sempre lo stesso e le sue storie sembrano lunghi blues che spesso si ripetono in circoli viziosi, ma il punto è che non è un mondo che viene raccontato molto spesso perché per respirare l’aria dei bassifondi, delle autorità ciniche e violente, della freddezza della burocrazia che non distingue un bambino solo e disperato da un criminale incallito, ci vogliono coraggio, sensibilità e altrettanta esperienza. Ad Edward Bunker, che ha frequentato la miglior scuola di scrittura creativa possibile, ovvero la strada, le doti e i vissuti non sono mai mancati: è entrato ancora adolescente in uno dei peggiori carceri americani, San Quentin, e, in diversi periodi e per varie condanne, dietro le sbarre ha passato quasi vent’anni. L’hanno salvato la lettura, prima, e la scrittura, poi, perché in quei momenti bui, tristi e violenti “un libro era un libro, un varco possibile verso luoghi lontani e meravigliose avventure”. Di riflesso, succede ad Alex Hammond. Anche Little Boy Blue “infatti, finché aveva dei libri, preferiva vivere nei mondi che narravano, piuttosto che nelle brutture del mondo reale”. Fuori, c’è la California, Hollywood, l’oceano, il deserto, ma non c’è mai un happy end. Anzi, spesso è proprio nel finale che tornano ad aprirsi gli abissi della vita criminale, come nelle ultime, spietate pagine di Cane mangia cane o nell’ormai disperata determinazione di Come una bestia feroce (“Fanculo alla società. Fanculo al suo gioco. E se anche le difficoltà erano molte, fanculo anche a quelle) o per lo stesso Little Boy Blue che vede disintegrarsi, in una spirale sempre più subdola e straziante anche le ultime, residue possibilità di una vita più o meno normale. Con questo, non si perde nulla di ciò che potete scoprire leggendo Edward Bunker (magari proprio a partire da Little Boy Blue) perché la sua storia, le sue storie, non vivono della suspense del thriller o del fascino maledetto del noir (come nei libri di James Ellroy, suo dichiarato ammiratore, tra i tanti). Sono un affresco vivo, tagliente, privato di qualsiasi edulcorazione e senza un filo di consolazione di un mondo di outsider, di fuorilegge e di disperati a cui, se non altro, Edward Bunker è riuscito a restituire la dignità di un ricordo. Se non serve a questo la scrittura, allora non serve a niente.

giovedì 25 novembre 2010

James Lee Burke

È difficile invecchiare, anche per un duro come Dave Robicheaux, il personaggio di tanti romanzi di James Lee Burke che in Ti ricordi di Ira Durbin? è più crepuscolare e contradditorio che mai. È solo con il suo gatto e il suo procione e si sposa una suora. Dovrebbe avere l’età per andare in pensione, ma attira più guai di un parafulmine in una tempesta del Golfo. Sostiene che il passato è alle spalle (“Ho imparato per esperienza personale che l’età non porta molti doni, ma uno di questi è la consapevolezza che il passato è passato”) e, giusto per completare l’opera, va a riesumare la storia di Ira Durbin, una ragazza di cui si era perdutamente innamorato il fratellastro, Jimmie. Il flashback riporta tutti all’ultimo scorcio degli anni Cinquanta, “la fine di un’epoca che, credo, gli storici potrebbero considerare l’ultimo decennio dell’innocenza americana”, come scrive nell’incipit. 
Dave e Jimmie sono a mollo nell’oceano e non si accorgono della tempesta e degli squali in arrivo. Una bellissima ragazza li avvicina con un’imbarcazione di fortuna e li aiuta a raggiungere alla riva. Colpo di fulmine, e dato che nei romanzi di James Lee Burke tutti vivono due o tre vite contemporaneamente, si scopre che Ira Durbin suona il mandolino (in verità avrebbe sempre desiderato una chitarra, una Martin, per la precisione, ma questa è un’altra storia) e canta straordinariamente bene, ma è anche una prostituta. L’innamoratissimo Jimmie farebbe qualsiasi cosa per lei. Le paga persino delle incisioni delle sue canzoni e le spedisce alla Sun Records, a Memphis perché “è lì che hanno cominciato Johnny Cash e Elvis Presley. Anche Jerry Lee Lewis”. La love story finisce subito in rissa perché una prostituta è un investimento redditizio e a lungo termine e due sbarbati non hanno molte possibilità di cambiare le regole del gioco e della strada. Ida Durbin sparisce nel nulla, ma ci sarà sempre il suo nome al centro di un vortice promiscuo e ambiguo in cui si intersecano gli efferati omicidi di un serial killer, i contorti legami famigliari di una casta che crede di vivere ancora gli ultimi giorni della guerra di secessione, l’intreccio sordido tra politica, informazione e inconfessabili business criminali che rende irrespirabile l’aria del bayou, di New Orleans, della Louisiana e dell’America tutta. Dave Robicheaux, per quanto confuso e disordinato (nonché seguendo le convinzioni sbagliate, le sue) se ne va contro i mulini a vento con un moralità scricchiolante, viene preso a legnate, non fa mai quello che pensa e pensa troppo a quello che ha già fatto (dei bei disastri, solitamente) ma in fondo, se proprio non aveva visto giusto fin dall’inizio, almeno è l’unico ad avere una visione d’insieme. 
Niente di nuovo, si dirà: il paesaggio e i personaggi (compreso il folle socio di Dave Robicheaux, Clete Purcel, che arriva in scena con la forza di un ciclone tropicale) non sono cambiati, ma va bene così. James Lee Burke è come il tabasco: è sempre lo stesso, ma è bello saporito e in Ti ricordi di Ira Durbin? è anche molto ispirato perché, per citare una delle letture preferite di Dave Robicheaux (Sant’Agostino) “il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuito, il presente del futuro è l’aspettazione”, e tutto quello che succede in quel particolarissimo angolo d’America attorno al Delta e davanti all’Africa è sempre un viaggio nel tempo.

John Steinbeck

E' organizzata molto bene quest'antologia di saggi di John Steinbeck che recupera articoli, estratti e altri frammenti in una serie di percorsi piuttosto logici, introdotti con chiarezza dalla prefazione, in aggiunta all'originale, di Bruno Osimo. Una nota non relativa dove si spoglia di ogni residuo ideologico e/o politico la figura di John Steinbeck, capace di esprimersi a favore di Arthur Miller (e contro la commissione reazionaria del senatore McCarthy) ma anche di appoggiare l'intervento americano in Vietnam, pur ricordando le deformazioni della guerra e l'essenza alienante degli eserciti, su cui si esprimerà spesso e che in questo caso vengono ricordate così: “Ci sono molti modi di portare il cappello o il berretto. Uno può esprimere qualcosa inclinandolo di lato o in avanti, ma non con l'elmetto. L'elmetto lo puoi portare in un modo solo, non ce ne sono altri. Si appoggia sulla testa, giù sugli occhi e le orecchie, giù sulla nuca. Con l'elmetto addosso uno è solo un fungo in una distesa di funghi”). Ne emerge, alla fine, un ritratto elaborato e composito che prende il via dai “luoghi del cuore” (Salinas, la California) e in qualche modo vi ritorna, in chiusura, quando John Steinbeck eleva una sorta di apologia in nome dell'America e degli americani, dichiarando “la nostra vergogna per i fallimenti, il nostro orgoglio per i successi, la nostra meraviglia per le sue dimensioni e la sua diversità e, soprattutto, la nostra devozione per l'America, tutta l'America, la terra, l'idea e il mistero”. Racchiuso tra questi due estremi c'è tutto il mondo di uno scrittore, i suoi viaggi (“Ho casa ovunque e molte case che ancora non ho visto. Forse è per questo che sono inquieto. Non ho ancora visto tutte le mie case”), le sue polemiche, le idee sul ruolo che è chiamato a interpretare (“L'antico mandato dello scrittore non è cambiato. Ha l'incarico di esporre difetti e fallimenti dolorosi, di portare alla luce sogni oscuri e pericolosi allo scopo di migliorarci”) e su quello che vorrebbe essere: “Come tutti, voglio essere buono e forte e virtuoso e saggio e amato. Credo che scrivere possa semplicemente essere un modo per comunicare con altri individui, un impulso che nasce nella nostra innata solitudine”. Da Woody Guthrie a Lili Marleen non mancano tutti i riferimenti e le connessioni alla vita e alla cultura popolare di cui, come è noto, John Steibeck fu attento esploratore e che aggiungono una nota caratteristica a un libro più che utile a scoprirlo e a riscoprirlo. Anche per la sua alta e nitida percezione della letteratura, che è poi stata la solida base su cui ha elaborato una visione destinata a diventare un punto di riferimento: Per sempre e non soltanto in America, perché secondo John Steinbeck “la letteratura è vecchia quanto il parlare. E’ nata da un bisogno umano e non è cambiata se non per diventare ancora più necessaria. Gli scaldi, i bardi, gli scrittori non sono diversi. Dall’inizio le loro funzioni, i loro doveri, le loro responsabilità sono stati stabiliti dai nostri simili”. Una grande lezione. 

mercoledì 24 novembre 2010

Harry Crews

Ognuno ha i suoi santi protettori e i suoi patroni. Se gli abitanti di Mystic, Georgia hanno scelto di identificarsi con i crotali, e altri serprenti non del tutto innocui, qualche motivo ci sarà. Forse non è nemmeno importante saperlo, forse è anche meglio non saperlo perché la passione cittadina diventa un vero e proprio delirio collettivo quando, una volta all’anno, a Mystic si danno convegno tutti gli appassionati d’America (con i rettili al seguito, naturalmente). La fiera dei serpenti, ecco il perché del titolo, oltre a prevedere la caccia ai crotali, fiumi di birra e whiskey (con le relative sbronze e le altrettanto inevitabili risse), duelli tra cani e altre raffinatezze, è la migliore occasione perché i cittadini di Mystic e i loro ospiti offrano il meglio, che poi è anche il peggio, delle loro vite. Tutti insieme appartengono a un grande coro tragico che celebra la follia, gli orrori e la disperazione che aleggia su Mystic. C’è qualcosa di gotico e di “sudista” in modo palpabile nella ricostruzine della vita senza troppi orizzonti in una “smalltown” della provincia, giusto nel bel mezzo del nulla. Le parole di Harry Crews, lapidario come sempre, non lasciano dubbi sul tenore di vita a Mystic: “Per alcuni le cose cambiavano. Ma per altri no. In ogni caso, rimanevano aperte molte possibilità. Per esempio impazzire, rincorrendo l’illusione che un giorno sarebbe stato diverso”. Ogni personaggio è una storia a parte. Lo sceriffo, tanto per cominciare, è un reduce del Vietnam che ha lasciato laggiù una delle sue gambe e ha un concetto della legge e della giustizia tutto suo, soprattutto nei confronti dell’altro sesso, specie se giovane e di colore. Joe Lon Mackey che dovrebbe essere il protagonista della Fiera dei serpenti (il condizionale è d’obbligo perché l’insieme dei volti è una massa deforme che sembra muoversi all’unisono) alleva crotali (sono un’ossessione, in questo romanzo), smercia whiskey illegale a tutte le ore e coltiva un buco nero nella sua anima perché è marito e padre senza riuscire a essere né l’uno né l’altro. Essendo anche il figlio di un allevatore di cani da duello abituato ad ammazzarli a calci se non vincono (dopo averli cresciuti con un particolare gusto sadico), il quadro famigliare dovrebbe essere completo, e va detto che loro non sono nemmeno i peggiori, tra gli abitanti di Mystic. Quando si entra nel vivo della festa, con bestie che strisciano ovunque, gran rumore di “rattlesnake” e un’alluvione di alcool che sfocia in un generale delirio, l’affresco di Harry Crews si completa e diventa una cruda, spietata e nello stesso tempo imponente rappresentazione delle miserie umane. Si capisce fin da qui che La fiera dei serpenti non è un romanzo accomodante e come Harry Crews fugge qualsiasi accento consolatorio: è eccessivo, rocambolesco e tagliente. Punta all’abisso e, con un ritmo travolgente e una precisione martellante, arriva a toccare il fondo. Dove i crotali, al confronto delle tragedie umane, non fanno più nemmeno paura.